Letture oblique: recensioni 1
HALLELUJAH TOSCANA
immagini di Marco Paoli
e
poesie di Alba Donati,
con un testo di Michael Cunningham,
Contrasto, 2017
Hallelujah Toscana va oltre lo straordinario lavoro fotografico, edito da Contrasto in elegante formato con copertina blu intenso e pagine introduttive in giallo acceso. Allusione esplicita al cielo e al sole di tanti paesaggi di questa terra. Hallelujah Toscana è un viaggio dentro più viaggi.
Un lungo racconto per sequenze di immagini e parole attraverso luoghi a margine dei percorsi toscani abituali. Pagina dopo pagina incontriamo isole e cimiteri, chiese e antiche ville, statue ed ex ospedali psichiatrici, manifatture e opifici, stanze museali.
Ci sono nature altre, umanità altre, storie inaspettate tanto vive e presenti. Sono quelle visitate con grande maestria (di sguardo e di cuore) dal fotografo Marco Paoli come reportage e al tempo stesso esplorazione della terra natìa, quasi un nuovo continente.
Un rigorosissimo bianco e nero ci restituisce differenti scenari, tutti trattenuti nella loro assolutezza. Unico pegno è rappresentare se stessi con le vicende di cui sono eredi, mentre eventuali annotazioni temporali vengono sospese nello scatto o rimandate a pensieri successivi. Possono essere alcuni oggetti abbandonati a fornire tracce di vita di tanti luoghi dismessi, a dare occasione per posizionare in quello spazio azioni e faccende.
Saranno le poesie di Alba Donati, che intercalano la serie fotografica, a regalare contorno e voci ai fantasmi abitanti di questi luoghi. Fantasmagorie nelle architetture della versificazione, tanto ipnotica quanto oscura e quotidiana. Nei testi poetici si intrecciano registri linguistici alti con forme del parlato, in un’alternanza di io/noi narrante con un tu/voi interlocutorio. Nasce qui un emozionante succedersi di versi che si fanno testimoni della gestualità delle statue come di stanze fatiscenti. Le voci che ricompone Alba Donati sono molto belle, piene di una forza espressiva che definisce oggi un momento importante della poesia italiana contemporanea.
Inoltre parole e foto non sono meramente dialoganti sul bene e sul male, ma di questo bene e male creano una mise en scene , una sincera rappresentazione a completamento. Marco Paoli e Alba Donati procedono per descrizioni che aprono a suggestioni, mai terminate in un cerchio chiuso piuttosto disponibili a letture ulteriori.
Intermittenze dello sguardo corrono fra riflessi sull’acqua, finestre deserte su paesaggi aperti, statue percorse da rampicanti, nebbie accecanti, muri di contenzione e graffiti, giardini dai ricordi sontuosi.
In Hallelujah Toscana ritorna declinato al meglio quel “perdersi a guardare” di Mimmo Jodice, riferimento eccellente per Marco Paoli. Il passato è il nostro presente adesso in questa regione che è grembo materno e memoria collettiva. L’intersezione di fotografie e poesie dà avvio a nuovi linguaggi. Come a una nuova, restituita bellezza.
di Alba Donati
Ben oltre le siepi e i bossi
oltre i cipressi e i gigli
sei anche tu come tutte
abbandonata , terra mia,
c’è sempre qualcosa
che sfugge all’ordinato apparire,
c’è sempre quel luogo
sconosciuto che tale vuole rimanere
un buio che si chiude al buio
una vertigine rimasta vertigine
e così anche tu, luminaria
di bellezze, custodisci zolle riverse
ossa interrate, muri scavati
nei muri, stanze e corridoi
dove risuonano voci inudibili.
Noi siamo sulle tue tracce
terra abscondita,
ti cerchiamo, ti inseguiamo,
ci caliamo, ci involiamo
abbiamo occhi ciechi per vedere
meglio, le tue infinite strade
di spavento e meraviglia.
Infinite, absconditae
Hallelujah Toscana
HALLELUJAH TOSCANA
immagini di Marco Paoli e poesie di Alba Donati,
con un testo di Michael Cunningham,
Contrasto, 2017
ANTONINE VOLODINE, ANGELI MINORI, L’Orma editore,2016
Distopie e ultime frontiere
C’è di tutto qui.
Ci sono rovine e esplorazioni ai confini del mondo conosciuto. Ci sono mari sfiniti e villaggi di tendoni. Ci sono animali vivissimi e quanto resta della natura. Ci sono molti giorni e molte notti, come c’è una scansione centenaria del tempo che si allunga a perdita d’occhio. E soprattutto ci sono i personaggi dai nomi improbabili con storie parallele o tangenti come stanze affacciate su un corridoio. Ognuno di loro vive la propria esperienza senza commozione o con gioia rarefatta, solo raggiunge il punto più alto o più basso di numerose generazioni. Sono loro gli Angeli minori raccontati da Antoine Volodine attraverso i quarantanove narrat del personaggio Will Scheidmann. Entrare in questo romanzo è come calarsi in un abisso, per poi riaffiorare e mantenersi su una superficie uniforme. Gli uomini e le donne di questi episodi sono bizzarri ? Sono solo proiezioni della nostra coscienza? Compongono un affresco dalla trama notevole e credibile? All’interno dei narrat straniati e stranianti niente alla fine è misterioso o assurdo o confutabile. Semplicemente siamo di fronte a una realtà ‘altra’, quella del mondo dopo il presente e dunque connotato da una dimensione spazio-temporale di profilo extraordinario. Allora certi scenari inusitati come quelli che flirtano con l’ordinario ci avvolgono accattivanti. Grandine sottile e tundra grigia, una luminosità fuori dal comune in diurno e notturno, le sfumature del cielo come variazioni d’umore, nuvole e stelle a coprire benevoli la volta celeste, un calamaro gigantesco arenato a decomporsi. Non sono da meno gli stessi personaggi che scioccano con il loro fascino di fantasticheria. Will Scheidmann, il dicitore, creato con pezzi di stoffa e incantesimi da vegliarde immortali. Freek Wislow, uno degli esploratori nel mondo alla deriva. Sophie Gironde, amabile creatura che fa partorire orse bianche su un transatlantico. Sarah Kwong anima il centro educativo e sua sorella vende al mercato mazzetti di erbe medicinali. Rachel Carinissimi “ha già ucciso molti capitalisti, ma non li ha mangiati”. Djimmi Iougriev, parvenu della nuova era, sguazza nel lusso del suo appartamento inondato di musica. Lo scrittore Fred Zeulf, autore di libri cui spesso manca la fine e ricolmi di scenari abbietti e belle scene di tenerezza. E via discorrendo. Nel mondo degli Angeli minori non si muore mai, perché si continua a vivere per secoli trascinandosi fra bisogni primari e visioni oniriche, uniche possibili per riscattare la sequenza delle stagioni. Dalla soglia del millennio (appare in prima edizione nel 1999) ci viene consegnato da Volodine questo romanzo apocalittico dove più generi letterari si intrecciano e si fondono senza forzature stilistiche. Le sue
interferenze fra mondi paralleli lo mettono sulla linea di quel certo sguardo sul mondo partorito dal genio indiscusso di P.K.Dick. Non a caso Volodine, scrittore francese ancora in posizione defilata sulla scena italiana, ha creato per sé e i suoi eteronimi la corrente letteraria del “post-esotismo”, che prevede la fusione fra realtà e fantastico, sogno e politica. Come contrappunti su una partitura ben definita risultano di grande effetto le intromissioni dell’autore con notazioni di poetica su quanto sta scrivendo. Dichiarazioni sottili in grado di accompagnare nell’infinito viaggio delle sue parole. La sottile inquietudine che prende durante la lettura dei narrat proviene da una scrittura liscia e piana, classica si direbbe, al punto di apparire quasi rassicurante. Ma è solo un momento. Maestria di un narratore invincibile, avvalendosi di quei “travestimenti magici” del suo background russo, vuole che si cambino le carte in tavola da una pagina all’altra. Sul palcoscenico degli Angeli minori c’è tutto e c’è niente. Alla fine dei conti ci siamo noi e quello che potremo diventare. Chapeau, monsieur Volodine.
Elisabetta Beneforti
CINQUANTA FOGLIE
Cinquanta foglie, Tanka giapponesi e italiani in dialogo, a cura di Paolo Lagazzi, con tavole di Satoshi Hirose e Daniela Tomerini, Moretti &Vitali, 2016.
Le traduzioni sono di Yasuko Matsumoto, Ikuko Sagiyama e Yasuko Tatsumura.
Una delle cose che non può non colpire di questo libro, è l’introduzione di Paolo Lagazzi, eccelsa. E' una delle voci più raffinate e interessanti della critica italiana e specializzato anche nella cultura orientale, le sue parole risplendono del suo sapere. Ogni suo scritto sempre emoziona per la precisione e profondità intellettuale e per la grande apertura, il grande respiro della ‘comprensione ultima’ che riesce a trasmetterci poesia. Una penna quella di Lagazzi che rende felice il lettore, perché la scrittura è essa stessa arte e sapienza di un percorso che offre a noi lettori un dono a cui per la sua profondità non siamo purtroppo abituati.
Un libro questo che ci rimanda alla bellezza e alla leggerezza tipici di certa cultura giapponese. Una raccolta di tanka (5,7,5,7,7 sillabe) una forma lirica molto antica che risale a circa al VIII secolo d.C., un poco più esteso di un haiku (5,7,5, sillabe). Il tanka era molto usato, anche per uno scambio di missive, messaggi amorosi, informazioni varie, ci si apriva così a una pluralità di risposte tra gli scriventi, esso talvolta era accompagnato da un qualcosa che esprimeva bellezza, un ramo, una carta particolare, si veniva così a formare un unicum artistico tra scrittura e oggetto, anche oggi tutto questo ha un seguito, con dipinti, piccole opere d'arte, oltre che con la raffinatezza della Via della scrittura.
Vengono qui proposti 25 tanka giapponesi di autori contemporanei a cui ‘rispondono’ altrettanti poeti italiani. Il tanka, forma da sempre molto praticata ha dato spazio a sentimenti di vario tipo, temi tipici della poesia, ha sempre e ancor più oggi, per la sua storia e natura poetica, rappresentato un veicolo di espressione più schietto e con uno spettro più ampio rispetto all’haiku, che è lampo di intuizione, saetta nel ‘nulla’ e al tempo stesso nella 'apparente semplicità' dello scorrere del tempo. Il tanka apre a un luogo poetico più accogliente, vi si può esprime con respiri più distesi e direi a tutto campo, aperto a una quasi completa espressione, seppur all’interno di una metrica che può risultare più consona a noi occidentali. L’haiku invece è un salto “nell’indicibile”, si gioca in quell'ansa speciale tra detto e non detto, anche se in occidente è molto praticato e spesso risulta, a torto, poesia facile, semplice, dal contatto con la natura, quasi fotografico. L’haiku, come ‘deve essere’, è una poesia difficile, come lo spirito da cui trae la propria linfa, ovvero la cultura, la filosofia, la religione Zen.
E lo Zen è un altro grande fraintendimento a cui noi occidentali siamo approdati, relegandolo a quieta e banale meditazione e a una certa pacatezza nei modi e nel vivere.
In questa raccolta anche la traduzione ha una sua valenza, infatti il lavoro intrapreso nelle rispettive lingue richiede una cognizione, oltre che degli idiomi , dell’area poetica, con tutti i peculiari rimandi in cui si dipana la poesia.
I poeti si parlano attraverso una sorta di intuizione-comprensione da due mondi non proprio simili, la cultura giapponese e quella italiana, occidentale. Sono tutti tanka molto belli, alcuni opera di autori molto conosciuti in Giappone, come Makiko Kasuga, Hiroshi Shino. I poeti italiani, tra i quali Giancarlo Pontiggia, Luigia Sorrentino, Davide Rondoni, Renato Minore e il Maestro Zen Fausto Taiten Guareschi, rispondono, anche se con "risposta", come ci suggerisce il curatore, si intende non una "vera risposta", che la poesia non può dare risposte, semmai rimandi, rintocchi, sfioramenti , assonanze in quel terreno di detto e non detto….una speciale atmosfera, il famoso yūgen.
Questo accostamento è ispirato, dal rapporto tra Maestro Zen e discepolo, un rapporto che avviene tra le due "anime", da "mente a mente da cuore a cuore", una comprensione, come dicevo, che travalica il razionale e le chiusure che la mente ci impone per una paura costante. E questo incontro-dialogo tra diverse culture, con dei tanka, oltre le comuni parole, con la poesia appunto , rappresenta un messaggio, ovvero che l’arte può farci superare ogni barriera e incomprensione, può contribuire alla sconfitta delle discriminazioni e della barbarie, così presenti attualmente.
E questo ‘gioco’ di risposte dal giapponese all’italiano è un susseguirsi di misteri, dolcezze, ambiguità, paure, ombre, dolori e slanci verso l’apertura della vita, in versi in cui gli ostacoli culturali non esistono, si crea quel linguaggio magico proprio della parola poetica in cui l' autore riesce a mantenere la propria cultura nutrendola anche d'altro e dunque trasformandola, arricchendola.
L.O.
Alcuni Tanka
Portano in classe
una bottiglia d'acqua
le ragazzine,
dove mai sta arrivando
il deserto?
Hiroshi Shino
Gira il sole. La casa
sta ferma ad aspettarlo.
Nel suo bacio
la pietra
ritorna guancia, carne.
Umberto Fiori
Nel bosco della mente
uve, mieli, ombre- orci
di un tempo felice. Irrompe
con stridi, con becchi
l'istrice della notte.
Giancarlo Pontiggia
Le foglie vive
congiunte come mani.
La giovinezza
è fiorita dai rami
sul dorso della pietra.
Luigia Sorrentino
Pieno di luna.
Nello stagno di ghiaia
guardo all'alba.
Il cielo s'è coperto.
Ricordo nostro padre.
Fausto Taiten Guareschi
Quanto è bello ciò
che va appassendo
senza parola!
Ai piedi dell'albero invernale
sta penetrando la luce.
Makiko Kasuga
Cinzia Marulli, Percorsi, La Vita Felice, 2016
da Pensieri, Cinzia Marulli.
Il senso bianco delle nuvole
È la mia strada
che non conosco
ma non mi importa
mi piace il vento
e il suo trasporto.
Tu mi guardi come fossi nebbia
eppure sento una voce
una voce chiara
e la tua risposta
che fulmina il pensiero.
Dimmi.
Copri questa domanda disperata.
«Dov’è il senso del sentiero?»
Lo chiedo a te che stai lì
con le mani nella terra
e i piedi in aria come radici celesti.
«Il senso del sentiero» mi dici
«non è nel percorso
e neanche nell’arrivo.»
Poi la certezza:
«È nel ritorno.»
Cinzia Marulli
PERCORSI
Ho voluto leggere Percorsi, di Cinzia Marulli, senza nessun intento da recensore, se così posso dire, ma ‘da poeta a poeta’…
Questo libro già con il titolo ci annuncia l’intento, un cammino in un sentiero che si svelerà poi per il lettore, chiaro e preciso, espresso con delicata forza. Un viaggio che centra l’Uomo, o meglio il Tutto.
”Il tempo non conta e neanche la lunghezza del percorso/Ciò che conta, invece, è mettere un passo dietro l’altro”, ecco questo cammino in cui tutto si muove intorno alla poeta, un viaggio profondo che la porta a contattare, a dialogare con ombre, voci, con la natura…, il ritorno è essenziale, certo, ma un ritorno in cui si è come purificati, forse dopo la vita comune, il dolore, il pianto….
Purificati dalla comprensione, dalla sofferenza, dalla conoscenza e dall’essere coscienti della realtà, ma senza separazione con tutto ciò che è Vita, senza arroganza, ci si dissolve così nella natura, si aspetta, su un picco, per volare che le ali spuntino, ma alla fine esse sono inessenziali per gettarsi nel cielo-Vuoto e ci si getta! Ecco la Vita.
E che dire di quei delicatissimi “fili d’erba” che ogni tanto spuntano tra le parole…
La leggerezza di queste poesie, il silenzio a cui rimandano e direi quasi la grazia e la gentilezza che esprimono, accentuano in un modo tutto suo la forza di questi testi, di una scrittura pulita, limpida, dal ritmo sicuro e spesso incalzante, una poesia che sa dove ‘andare’, ha un preciso ordine e le ‘tappe’ di questo viaggio hanno tutte un senso profondo, si toccano gli elementi della Terra, i dolori degli esseri umani. E il disperdersi “ghianda dispersa nella terra”, è un esserci in tutte le cose, non un abbandono, non un lasciarsi andare, è un essere partecipi al Tutto, per comprendere e per forse ritornare nella vita dove prima si era ma non come prima.
Il tempo non c’è inteso come scansione ‘normale’, c’è il Grande tempo, che abbraccia il passato e il futuro in un unicum che pur nell’incertezza governa l’Universo, con salde radici nella terra. E naturalmente c’è la morte, grande tema qui affrontato quasi con naturalezza, certo il dolore si sente, ma l’accettazione “ Pensatemi allegra in questa morte che non è nero” ribadisce quella leggerezza e soprattutto quell’esprimere un pensiero caro ad oriente che affiora un po’ ovunque, “i fili d’erba”. Una ricerca spirituale che si alimenta e abbraccia culture diverse, quasi all’opposto oriente e occidente, ma che qui si unificano per celebrare quella Unità che permette di custodire, di coltivare “davanti a me -la luce-”, come scrive Cinzia Marulli.
Nei suoi bei versi, ben calibrati e mai esagerati, come dicevo, di una raffinata maestria, la parola, la poesia ha un ruolo, me lo si lasci dire, offre “la grande apertura di cuore” come si dice ad oriente, per “salvarsi e salvare” e continuare il Percorso.
Luigi Oldani
da Pensieri, Cinzia Marulli.
Forse è nel silenzio che si ascolta
la musica più sublime
in quel vuoto che avvolge
tra la sospensione ansante del respiro
e l’attimo incerto sul bordo del destino.
Nell’apparente conclusione di un percorso
si sfiorano i sentieri del domani.
Mi sono sempre chiesta dove vanno le nuvole
a chi porteranno l’acqua della loro pioggia.
Non ci sono orme
nessuno che calpesti questa terra umida
eppure sento un sorriso avvicinarsi
l’abbraccio invisibile della luce a trafiggere il buio.
Giorgio Caproni, IL "TERZO LIBRO" E ALTRE COSE, Einaudi, 2016
UN LIBRO NECESSARIO
Le vicissitudini di Giorgio Caproni sono racchiuse in questa raccolta per sua cronologia anomala, edita originariamente nel 1968 da Einaudi che la ripropone adesso – raccolta concessa allora dal ‘garzantiano’ poeta in via amichevole. Il terzo libro era così uscito vicino ad altri importanti lavori poetici e pur presentando solo pochi inediti è di fatto un importante momento di passaggio nel percorso di Caproni. Quanto si è indagato per l’occasione in fatto a conti filologici, liste lessicali, cronologie esatte, nomi e cognomi e riferimenti, ma al di là delle varie notazioni testuali resta la testimonianza di una voce poetica fra le più ‘forti’ del novecento italiano. Piana, si direbbe, limpida e appassionata che è ormai parte di una tradizione a cui risulta impossibile non guardare e riferirsi. Una poesia da non mettere sotto microscopio, piuttosto da far volare dalle pagine aperte che la accoglie. Il canzoniere della sua vita Caproni l’ha scritto stagione dopo stagione, variando gli accenti o le melodie in un continuo sentire e trascrivere. Genova come Livorno come Roma sono luoghi deputati ma anche affetti al pari delle persone e degli eventi che popolano la sua poesia. Ci sono le donne, siano madre o moglie o giovinette. Ci sono i monti vissuti da partigiano, la guerra, la figura del padre. E ancora i vapori, la nebbia, le tende, le stanze vuote che delineano attimi dolorosi. Insomma tutto quanto successo nel decennio fra il ’44 e il ’54. Non appare mai una nota di consolazione, solo accettazione e apertura su immagini che dal poeta si offrono puramente condivisibili. Le forme minime e allegoriche sono lo strumento più sicuro che può accompagnare il racconto caproniano. Vale anche per i muti dialoghi, fatti di domande e asserzioni, che passano quasi indispensabili in tanti dei testi qui raccolti. Il terzo libro e altre cose vuole anche essere il documento di una direzione presa, l’assestamento di un’intera generazione attraversati eventi storici terribili e conclusa la “giovinezza”. Ho conosciuto neri / tavoli - anime in fretta / posare la bicicletta / allo stipite,e entrare / a perdersi fra i vapori. /E ho conosciuto rossori/ indicibili – mani / di gelo sulla segatura / rancida, e senza figura / nel fumo la ragazza /che aspetta con la sua tazza / vuota la mia paura.
Elisabetta Beneforti
Le giovani
parole
Sono giovani queste parole, che nella sua ultima raccolta la poetessa compone a raccontare interni ed esterni del mondo sensibile - pubblico e privato. Passano stagioni, volti cari della mamma e di amici, fatti minimali , elementi di una natura ora buona compagna ora colma di inquietudine. Si prende la più bella/gittata dal cielo universo/ e si tesse si tesse la luce/ con l’ombra. Il secco/con l’umido del sotto terra./ Nei fiori. Le aurore e i tramonti di ogni sensazione o immagine arrivano allo sguardo del lettore sempre partecipe di tutte le loro spore, così la cifra lirica si allarga ad un campo apertissimo leggi universale. Punto di forza è una gioia che si illumina e si oscura attraversando le varie sezioni del libro. Meraviglia dello stare bene/ quando le formiche mentali/ non partoriscono altre formiche/ e si sta leggeri come capre sulla rupe/ della gioia. A tutti gli effetti testimone e testimonianza dei percorsi di vita rimane la parola poetica, affatto timida nel cercare toni suoi propri per la scena contemporanea e nello stesso tempo ricca degli echi di un’intera tradizione letteraria. Dentro la lingua/un fagotto di sillabe/si srotola in canto./è tempo di cadere/dentro covoni di parole/e farne pane per tutti. Il canto della Gualtieri è alzare e scorrere, scivolare via e riapparire, modulare parole come note musicali, accendersi di contrasti e sinonimi inaspettati. Particelle del mondo e frammenti di discorso ricomposti in un monologo dialogante, specchio inconfessato dell’esperienza teatrale della poetessa ora qui declinato in uno stile piano e disteso. A cuore aperto vengono tessute frasi e scenari, a cuore aperto si misurano passi e cadute. Tanto d’amore viene/e sostiene. Niente che resti/ non amato.
Elisabetta Beneforti
Mariangela Gualtieri, Le
giovani parole, Einaudi, 2015
Un bellissimo libro di poesie di uno degli autori più famosi in Francia, recentemente si è parlato molto di lui, anche per le sue prese di posizione spesso provocatorie ma mai gratuite e superficiali, dettate spesso da un profondo disagio di vivere l’attualità, soprattutto in terra francese.
Queste poesie ci sono piaciute molto, un ritmo incalzante grazie a una sapiente rima, a una profonda ricerca di parola spesso senza speranza, disillusa, quasi arresa all’evidenza dei fatti dell’ umanità, ma talvolta un barlume di speranza, un chiarore ancora sul mondo, pare dirci, può arrivare. Testi che descrivono piccoli momenti di vita più "comune" o riflessioni su di essa, altri ci propongono una lirica particolare, un viaggio nell'umana condizione non banale dove, malgrado tutto, la bellezza della parola viene trasportata da una musicalità che ci cattura.
La traduzione è ad opera di Alba Donati e Francesca Garavini, ed è proprio da questa sinergia tra una poetessa, la prima e studiosa, scrittrice la seconda che ‘nasce’ una traduzione che non tradisce il testo originale, anzi lo valorizza, spesso con il tocco delicato e ricercato, intelligente di chi conosce l’autore, di chi ‘sa’ la poesia.
FRANCO MARCOALDI, IL MONDO SIA LODATO.
Un libro che ci è piaciuto molto, per la sua forma in primis, un poemetto dal ritmo incalzante e soprattutto per la tematica non ovvia, una sorta di inno al mondo, un mantra, una preghiera sui generis, un ringraziamento e un atto di accusa. Un esprimere rammarico, pietà, amarezza per gli umani che vivono nel mondo con le loro vicissitudini e disgrazie, ma, ed è questo l’aspetto veramente straordinario e affascinante, diremmo quasi con risvolti ‘religiosi orientali’, il poeta ringrazia il mondo.
Un atto modesto, quasi in sordina e, si capisce, con la forza incredibile di chi sa vedere la globalità delle Cose, un Unicum che è la Vita, dalle mille sfaccettature e sempre e comunque affascinante e dolorosa, incredibilmente da vivere.
Allora “Mondo, ti devo lodare” è un grazie, una gratitudine che malgrado tutto arriva.
Un poemetto in cui il ritmo esprime appieno, nel suo essere serrato e al tempo stesso rilassato , pacato, proprio la visione del Mondo che il poeta ci regala.
“Non penso mai alla poesia come a qualcosa di sublime, di ‘poetico’, e sento infatti particolarmente vicini a me quei poeti che premono sul pedale dell’ironia. Penso piuttosto che la poesia sia una forma di ‘emotion recollected in tranquillity‘, come diceva Wordsworth, e che la parola poetica debba essere precisa, pur nella sua ambiguità costitutiva, e tersa. Ecco, la Szymborska ha ad esempio questa grande virtù di rendere cristallina la parola poetica”.
da Incontro con Franco Marcoaldi a cura di Niccolò Nisivoccia, Nuoviargomenti.net
Franco Marcoaldi, IL MONDO SIA LODATO, EINAUDI, 2015
La vita dei bicchieri e delle
stelle
di Giuseppe Grattacaso
Un desiderio di ordine e insieme di delicato scompiglio sembra potersi dire alla base della raccolta di Giuseppe Grattacaso: Non esiste modo di dare un senso al cielo inessenziale e sbilanciato, scrive l’autore, e contemporaneamente sembra forzare le sillabe nella direzione diametralmente opposta della sua sistemazione, della comprensione di un legame, di un ponte che faccia della quotidianitàuno specchio, più o meno riconoscibile, di un quadro celeste piùlontano e, non per questo, del tutto insondabile.
Il passo d’avvio per questa duplice indagine è un percorso che traccia confini, ripercorre i limiti del reale, dei gesti quotidiani per poi isolarne le forme e potersene servire come arma, scudo o semplice contraccolpo contro i suoni dell’universo: esplosioni, nascita e morte delle stelle, rotazioni costanti di corpi stellari.
Agiamo nello stretto di poche cose, si legge, ed in questa limitatezza l’autore cerca una traccia, una ruga, una imperfezione, uno screzio testimone della vita delle stelle, dei pianeti sopra di noi.
E poiché una catalogazione degli oggetti intorno –bicchieri, posate, sedie e poltrone – corre il rischio di confinarci nel mondo di ciò che non sappiamo, le poesie della raccolta ci guidano in modo centrifugo verso un mondo altro degli oggetti, girano intorno alle cose e ce le mostrano in una prospettiva che le renda vive di una profonditàquotidiana, quasi avessero col tempo, con l’uso, rubato a noi un po’di vita, un po’ di sentimenti.
Un riparo per chi vive nella realtà delle cose tentando di conciliare gli spazi del cielo con quelli della casa e dell’anima, sembra essere nel tempo: Facciamo un poco meno, cosa importa / a tutti gli altri se facciamo meno, / ci alziamo un giorno, non partiamo in quarta, / ci stiracchiamo, ci guardiamo intorno / e quando sembra sia arrivato il tempo / per andare finalmente a spada tratta, / invece ancora un poco rallentiamo (…). Rallentare il tempo delle azioni, dei pensieri, ridurre all’osso le domande sull’universo lasciando che il solo guardare possa sbarazzarsi del superfluo e cogliere la “maglia rotta nella rete”, il pertugio privilegiato da cui guardare le cose mutare, evolversi o, semplicemente, esistere: Però che bello quando il mondo è fermo /immobile e granitico d’estate: / mortale fino a ieri, adesso eterno, / senza importanza appuntamenti e date leggiamo nella sezione finale, Quartine d’agosto, dove le stesse parole sembrano ridotte all’essenziale, epigrammatiche nelle loro intuizioni, immagini, potenzialità.
Il tempo sospeso tra i riflessi del cristallo delle brocche, dei bicchieri nella credenza è il richiamo di una esistenza senza alcun confine nell’universo, di uno spazio e di un tempo piùlontani che si toccano tra i bagliori di luce o tra le bave di vento nell’aria.
L’urgenza di una poetica dello sconfinamento che tuttavia resti sempre immanente, nell’al di qua delle cose, si fa in Giuseppe Grattacaso espressione piana e mai banale della bellezza di tutto ciòin cui è rintracciabile un inizio, una vita e, talvolta, una perdita irrimediabile: se nulla si crea, ma tutto non rimane, l’esplosione di una supernova ha quindi in scala su di noi la stessa incidenza, lo stesso effetto, di una tazza improvvisamente perduta, scheggiata dopo anni di quotidiano servizio tra le nostre mani, sulle nostre labbra.
DANIELA GENTILE
Giuseppe Grattacaso, La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto Editore, 2013
VITTORIA FRANCO, RESPONSABILITA', FIGURE E METAMORFOSI DI UN CONCETTO, DONZELLI EDITORE, 2015
Che cos’è la responsabilità? Quando è nato questo termine? Ha un significato univoco? Un’etica della responsabilità è possibile? Dopo aver trattato dei tre paradigmi fondamentali della responsabilità, quello giuridico, quello politico e quello filosofico morale, il volume approfondisce quest'ultimo muovendo dalle prime discussioni, a partire dalla metà dell’Ottocento, con John Stuart Mill e i deterministi, che identificano l’essere responsabile con l’essere colpevole e la responsabilità con l’imputabilità. Fra le reazioni a tale impostazione, quelle dei kantiani e degli spiritualisti francesi, i quali propongono interpretazioni che lasciano spazio alla libertà e alla morale. Fra loro, due giovani filosofi: Lucien Lévy-Bruhl, col suo concetto di responsabilità vuota, e Jean-Marie Guyau, con la nozione di morale senza obbligo né sanzione.
Nel prosieguo dell’analisi l’autrice, visitando alcune delle teorie etiche più importanti del Novecento, propone l’idea di un’etica della responsabilità come risposta possibile nell’epoca della fine della metafisica. In Hannah Arendt vengono rintracciate tre diverse figure della responsabilità: come colpa, facoltà di giudizio e cura del mondo comune; in Ágnes Heller emerge la figura dell’etica della personalità; in Emmanuel Levinas la responsabilità si libera completamente dal peso della sua storia giuridica in quanto imputabilità e diviene darsi totalmente all’altro. E infine, nelle critiche dei postmoderni all’universalismo – Bauman, Derrida, Apel, ma anche Ricoeur – l’autrice individua il luogo d’origine di un’etica della responsabilità come «autodeterminazione responsabile» e come facoltà di giudizio.
Nella responsabilità sono in gioco le due libertà, dell’io e dell’altro, che devono trovare il modo e la misura del con-vivere nell’equilibrio fra autonomia e limite. Essa sorge nel momento in cui si arriva alla consapevolezza di lasciar essere anche la libertà dell’altro.
Marco Marchi, Per Pasolini, Le Lettere, 2014
Questo saggio di Marco Marchi, uno dei migliori critici attuali, arricchisce la nostra comprensione dell'amato Pasolini, " figura centrale, di primissimo piano ed assolutamente ineludibile, del nostro secondo Novecento". Sono 'interventi' selezionati e provenienti da molteplici occasioni come convegni, incontri di studio, in diversi periodi.
Una ridifinizione e una ricollocazione di Pasolini oltre le consuete " accezioni contingue, ambedue mass-mediologichee a forte rischio di banalizzazione: quella del regista di film crudeli e trasgressivi noti in tutto il mondo, (...) e quella del provocatorio giornalista, "corsaro" e "luterano", a suo tempo ospitato dal Corriere della Sera (...). Le due immagini finiscono poi con il convergere in quella consumistica di un Pasolini personaggio eretico e scandaloso (...), più moralisticamente giudicato e guardato con sospetto (...) che effettivamente conosciuto. Quale invece, al di là di ogni forma di demonizzazione o di mitizzazione di Pasolini, la sua incidenza storiografica, quanti i suoi talenti trasformati per tutti noi in cultura!"
Il critico nei vari capitoli ci propone come non mai Pasolini quale poeta che offre un profondo contributo al Novecento con la sua originalità poetica. "E' il soffio dell'ospirazione che agisce". Urgenza espressiva che porta Pasolini a risultati di alta poesia che vanno, tra l'altro, dalla terzina, all'epigramma, alla lirica amorosa, un intento, che si esprime durante tutta la vita del poeta, di elvare la parola quotidiana e di trasformare la poesia stessa...
Una raccolta di scritti molto belli che Marchi ci propone, come altre volta ha fatto per molti autori, che ci illuminano e ci conducono alla 'vera' scoperta di un Pasolini che va ancora letto, studiato e di cui far tesoro.
UNO DEI LIBRI PIU' BELLI
Questo libro di Bruno Galluccio lo possiamo definire senza dubbio uno dei più belli ed interessanti mai pubblicati ultimamente.
Un autore che è scienziato e poeta, due mondi che riescono ad unirsi in una ricerca che si esprime qui attraverso un linguaggio unico che ci accompagna in un viaggio 'fisico' e 'metafisico', metaforico.
È una raccolta che affascina il lettore, lo smarrisce e lo lascia perdere nell'Universo. E al tempo stesso con tocco lieve e quasi magico lo riassicura con certezze che subito la parola poetica lancia nell' infinito...
Una raccolta originale come difficilmente accade. Due linguaggi, una magia, un universo che ci stupisce, ci rincuora e alla fine ci disperde ancora...
Con più di cento fotografie, Mimmo Jodice, in conversazione con Isabella Pedicini, ci
parla del suo percorso fotografico, una riflessione ampia e completa sul fare fotografia. Organizzate in base a sei parole chiave – Linguaggio, Persone, Silenzio, Enigma, Prospettive, Riverberi.
Temi che si possono ben ritrovare nelle sue opere.
Mimmo Jodice nasce a Napoli nel 1934." Dal 1967 sceglie la fotografia come strumento
ideale per testimoniare il suo tempo: da autodidatta sperimenta le possibilità di questo mezzo e arricchisce la sua formazione attraverso il contatto con alcuni artisti d’avanguardia che
frequentavano Napoli in quegli anni, come Andy Warhol e Joseph Beuys." (Contrasto) Nel 1970 diviene il primo docente di fotografia in Italia nelle accademie di Belle arti. Bellissimi i "suoi"
mari, le onde, le statue del museo archeologico di Napoli...Le città.
“Abril”
è una rivista europea in lingua spagnola nata 23 anni fa in Lussemburgo da un’idea di un gruppo
di traduttori professionisti. Oggi è diventata maggiorenne, ed è orgogliosa di avere pubblicato autori provenienti non solo da ogni angolo d’Europa, ma anche americani, sia del Nord che del Sud, senza dimenticare i molti asiatici e africani.
Accoglie testi di giovani scrittori, che in molte occasioni hanno raggiunto la fama dopo (non necessariamente "in conseguenza di"!) essere apparsi sulle nostre pagine-, così come il lavoro di autori affermati.
“Abril” è aperta alla narrativa, alla poesia -una recentissima collaborazione poetica è quella con i due poeti fondatori di Pioggia obliqua, Elisabetta Beneforti e Luigi Oldani-, al saggio e all'intervista.
Incoraggiamo da questa piattaforma quei creatori che vogliono "fare un salto verso l'Europa" a farsi avanti sulle pagine di “Abril”... tradotti in spagnolo.
Per abbonamenti ed invio di testi: abril@lu.coditel.net, oppure revista.abril@mac.com
Kkyu Sojun,
Nuvole vaganti, la raccotla di un Maestro Zen
A cura di Ornella Civardi
Ubaldini Editore
Ikkyu Sojun (1394-1481) è una tra le figure più particlolari dello Zen, sceglie la vita del monaco itinerante a contatto con le persone ‘autentiche’, non ama le raffinatezze di corte, nè le affettazioni religiose di molti monaci e Maestri, il suo è uno Zen diretto, che esprime libertà dalle convenzioni, espressione ‘vera’ del sentire interiore, in sintonia con la sua stessa vita quotidiana, in una continua ‘simbiosi’ con la poesia, che del resto è vita. Molte le sue poesie che ci arrivano tradotte in un italiano che spesso perde probabilmente la sua prima freschezza e originalità. I suoi sono anche testi talvolta spregiudicati, spesso contro i potenti, sempre espressione di un sentire Zen profondo. Alcune poesie sono dense di passione
erotica.
Sotto i piedi il filo rosso
Il somaro s’inchina alle regole,
l’uomo le infrange:
Innumeri come i granelli di sabbi del fiume
le sciocchezze in cui annega la mente.
Nel bimbo appena nato
già corre il filo dell’eros,
Sboccia e sfiorisce il fiore rosso
primavera dopo primavera.
(...) il filo rosso delle passioni che non si può tranciare. Esiste un solo modo per liberarsene, porvisi davanti con risolutezza. Ikkyu concorda con Songyuan sulla necessità di imparare a conoscere e a convivere con la propria sfera emotiva, piuttosto che perseguire un ideale di Buddhità “pietrificata”. Si rifiuta perciò di legittimare i precetti di un ascetismo istituzionale e imposto, considerando tali regole qualcosa di futile e sostanzialmente estraneo alla parola di Buddha, qualcosa che serve solo a molestare lo spirito e a distrarlo dalla vera Via. Lo slancio erotico è congenito all’uomo, presente fin dalla nascita, e perciò in essenza buono. Nella vita sboccia e si spegne con l’ineluttabilità di un fenomeno naturale.(...)
PIOGGIA OBLIQUA
rivista di scritture d'arte: poesia letteratura fotografia racconti interviste
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