poesie da Il rumore dei passi, 'round midnight edizioni, 2019
I miei versi
sono fango e inverni gelidi
linea bassa della terra
vento forte e crinali che arrivano al cielo.
Sono il sangue dei miei vecchi
e le preghiere
il perdono sempre chiesto
anima che trema tra i querceti.
Ogni sillaba è una musica di passi
un blues sdentato di tassi e volpi
che si ferma quando incontra gli sguardi
e controlla le ferite.
I miei versi sono i funerali
le sagre
le panchine davanti alle chiese
il grano che cresce .
Io sono
Sono sete
Sono sudore
Sono sale
Sono ossa
Sono chi ha il corpo trafitto
da lame di parole
orgogliose e bisbetiche
funeste malinconiche.
Sono il cielo che guarda l’inferno
Il vuoto del bicchiere
il morto che celebra la danza del becchino sono
[l’inettitudine del volere e potere.
Non vedi i passi indietro
la congiura del passato
il precipizio
i piedi disfatti del viandante
l’esperienza costruita a botte e lacrime.
Torneranno a vedere gli occhi il pieno degli
[alberi estivi e le notti calde
con te abbarbicata al mio giaciglio di nuvole
la sera faremo autostop tra stelle e astronavi,
l’assenza sarà meno grave.
Quando torni al tuo paese
fai il medico:
misura la pressione alla nostalgia
prova i riflessi ai muri e agli alberi
ascolta il battito della terra.
Poesie inedite
PRIMAVERA
Sentire il dono del corpo
nella pancia degli alberi
il canto degli usignoli
la piazza vuota.
Su queste mura
ravviva il ricordo
come la fiamma del focolare
e i passi leggeri
come nuvole
arrivano dritti
al centro delle mani.
Nella vigna la primavera si prepara al parto.
LENTEZZA
Rivendica la lentezza
misura il mio torace
l'infinito del verbo restare
la calma d'essere vivo
il respiro da abitare.
Porto con me boschi aspri
sentieri
dove sorella consapevole
mi attende sempre
la radice dell'io.
CAMMINARE
Camminare come forma
incrociare sassi e muri
perdersi nelle voci dei castagni.
Ti chiedo riparo
tra i rami del costato
tra i germogli degli anni
mi faccio preghiera tenue
per parlare alle tue labbra
dirti il minimo sulle cose
il massimo sull'anima
una piccola porticina
ricca di gioia.
Ispani Luca nasce a Modena il 19 maggio 1979 . Ha 8 anni quando vince il primo premio presso un concorso giovanile in Veneto indetto da una radio locale. Vincitore e segnalato in numerosi premi nazionali e internazionali, studia da tempo da autodidatta diversi autori.
I suoi preferiti sono Whitman, Berry, Tiziano Fratus, Sinisgalli, ed è affascinato dal movimento della beat generation e il suo legame con la musica jazz di cui è appassionato assieme al rock anni '70 e '90.
Negli ultimi vent'anni si è appassionato alla paesologia ,cercando con i suoi scritti di sensibilizzare
sulla vita nei campi e sull'Appennino modenese da cui proviene. Studia Celati ,Arminio,Scoltellaro e si è appassionato da poco alla poesia di Alfonso Guida .
Inizia a fare letture poetiche nel 2004 per lo più in eventi di arte di strada dove si sente più a suo agio.
Dal 2014 al 2015 ricopre il ruolo di vice-presidente presso l'associazione culturale “i poetineranti “.
Collabora con il collettivo di poesia nazionale “Bibbia d'Asfalto” dal 2014 al 2016.
Da qualche mese segue il progetto “Grungeart” che é la creazione di un vero e proprio spettacolo basato su testi porformanti,musica e arte visiva riconducibili al movimento “grunge”dei primi anni '90.
Parecchi suoi testi sono stati tradotti negli Stati uniti ,in Messico e in Australia.
Pratica la meditazione buddista ed é appassionato della natura in ogni sua forma.
Ha pubblicato nel 2019 con Roundmidnight Edizioni la sua prima raccolta poetica “il rumore dei passi”che sta avendo numerosi riscontri positivi in termini di critica,recensioni e vendite.
Parla con gli alberi e li abbraccia.
Da “Oltre le ringhiere” (Raffaelli Editore, 2014)
Guarda gli alberi di Margaret Island
sulla foschia del fiume appena salita
fino a dissolversi, la malinconia nodosa
i tronchi sbucciati
abbiamo passato tutta la notte a sognare
qualcosa di migliore, rami d’aria rampicanti
il sole tiepido dell’est Europa
e all’improvviso sale la luce
come un desiderio antico della terra
e avresti voglia di trovare qualcuno
coi tuoi stessi occhi aperti sulla domanda
del sole all’orizzonte, la nostra solitudine
è questa alba, questo mai
perfetto assomigliarci.
Budapest, marzo 2012
Ma le prostitute a volte sono l’attesa
della pioggia su Bologna, guardale
stanche come gatti la mattina
nei viali attigui all’autostrada o puntellate
a un lampione appena spento
trecce già sfatte nascono
dai loro capelli e non c’è differenza
tra l’umido dei loro occhi e le nuvole
che passano e preannunciano la pioggia
sono la dolorosa rugiada della notte
e se ti metti a guardarle ti bagnano
senza saperlo.
ATTRAVERSO DI NOI
Cosa ha visto, quali cieli
dolorosi sono entrati nella retina
la frenesia breve delle ali, motori
impazziti prima dell’avaria, quale acerbo
destino spingevano lontano
quando è caduto e la picchiata
ha risucchiato l’aria di tutti
il petto saldato, l’arcata alare spalancata
come una porta, non c’è più morte
nella stanza, non c’è più vita
tutto è qui, il vuoto che fissa
attraverso di noi.
VERSO CESENATICO
Quando arrivava l’estate dei compiti in giardino
quando era ancora troppo presto per i baci alle ragazze
facevo le gite fuori porta con mio padre
sveglia all’alba e subito sui pedali
l’avremo fatta solo sul porto canale
la colazione, ricordo il fiato corto e l’aria aspra
dei primi raggi, la sua voce grossa
che mi incitava di stargli a pari.
Non mi abbandonava l’idea
di un me stesso ancora beato nel letto
mi chiedevo il perché di tanta fatica, solo dopo
seduto al Vecchio Lampione davanti a un cappuccino
ogni cosa sul porto era tutta una festa, le bestemmie
in dialetto dei pescatori, la confusione felice dei turisti
nel viavai delle stradine laterali, anche l’indecifrabile
ansia di mio padre, ogni bellezza creduta perduta
era allora ritrovata, esisteva già da prima
esigeva una mancanza.
SPIAGGIA DI FINE MARZO
Mi lascio cullare da questa stagione
nata da pochi giorni, su una scala
un uomo pulisce la vetrata a luna
dell’albergo davanti alla spiaggia,
tutta una luce è il mare e io sono lì
chiaro e solo nel sole che mi culla
destra e sinistra, così la sua mano
muove lo straccio pulendo, io resto
a guardarlo, mi sembra un saluto
il suo gesto che giunge
a colmare questa distanza
cristallina, destra e sinistra
ma lui pensa al vetro da pulire
la mano prosegue, appare e scompare
ai miei occhi nel repentino
baleno degli aloni – un’altra passata
e cos’altro è la vita se non un gioco
continuo di opacità e trasparenze
la fatica di lavorare per tornare limpidi
percepire chiaro un orizzonte
riconoscere l’uomo
nell’uomo di fronte.
OLTRE LE RINGHIERE
Guardo il vecchio hotel del centro
tutto scalcinato, coi vetri in frantumi
coi mattoni a vista fuori dalla calce
resiste al desiderio dei miei occhi
di voltarsi e proseguire verso altri scenari
più nuovi e rassicuranti
come fanno questi turisti di fine luglio
dal passo sciolto, lontani
da tutto quanto sta attirando il mio interesse.
Resto fermo e guardo l’hotel anch’esso immobile
nella notte chiara e afosa, come un nobile
gigante pietrificato, senza un futuro che lo accolga
senza più canoni né chance per restare
nell’inversione di bellezza del presente.
Ma oggi ho visto l’erba del suo giardino crescere
superare le ringhiere arrugginite del cancello
sono sempre più certo che la verità, anche la più piccola
idea creduta vera debba lottare contro un perimetro
ieri, passando, sarei stato forse un semplice turista
dal cuore a riposo, non avrei sentito certo
risuonare da un altro mondo la tenacia viva
di quelle pietre e un’incredibile speranza
diventare alta in me, come quell’erba
come cresce in verticale il mio verso.
L’azzurro del mare condensato nel tuo costume
spezzato, dello stesso colore, ma più denso
quasi materico, a rimarcare la falcata delle tue gambe
abbronzate verso l’acqua, resto in bilico tra questo
e l’altro azzurro che dilaga a macchia e ci ingloba
nel sogno del paesaggio, i lembi della vita
a volte hanno la forma inconsistente
di un dormiveglia estivo, si restringono
alla distanza breve che mi separa dalla tua bocca
la mezza torsione che fai col busto già bagnato
a chiedermi di seguirti là in mezzo, ho in testa mille voli
di pensieri che non partono, persi nella bonaccia
mentre l’aria ha smesso di essere vento
e semplicemente ci attraversa.
Ce ne stiamo accoccolati sotto le coperte
a contare zitti la presenza delle stelle
sul soffitto, il sonno non c’è
hai i piedi freddi, li accolgo
con un poco di pena nel tiepido
argine dei miei polpacci
ancora non dormi – preghiamo
mi dici e ti metti a sbiascicare qualcosa
che nemmeno tu sai, le mie preghiere invece
sono silenziose come le immagini dei santi
che ci guardano dal comodino
ho superato il brivido, sento i tuoi piedi
parte della mia pelle, ormai caldi
il respiro tornato lento
per un attimo penso alla felicità
che io e te ora siamo
e non riesco a dire “così sia”
prima del sonno.
IL LIMPIDO DELLE FINESTRE
Oggi diventi il limpido delle finestre
che mi riflettono nel sole, diventi qualcosa
più simile all’aria di maggio
che fa rivivere i muri, la piscina secca
le palme impacchettate dentro al cellophane
quando credo le cose inanimate
è segno che l’inverno è stato duro
e mi ha fatto dimenticare persino
che quell’uomo con la barba sono io
quando sei in me, doloroso
come una croce inchiodata ai pensieri
gli oggetti prendono vita, si alzano
dal buio, lanciano a riva il ricordo di te
dopo il lavoro in albergo – eri un sorriso
allora, eri la spiaggia della tua fronte
tornata liscia, tu mi servi
per tornare me.
Inediti
Lascio che le strade si perdano
dietro ai miei passi e gli abitanti
in chiacchiere o a rimuginare
qualche pensiero storto, per una sera
questa città è straniera solo sulla carta
mi accoglie nei crocchi di studenti in fila
per una birra a metà prezzo, piazze
calpestate di giorno finalmente in pace
il magrebino che mi offre il fumo
un ombrello rotto a metà nel cassonetto
Padova, limpida e senza inganni, che respiri
ancora l’illusione dell’estate, ti concedi
per quella che sei, vera e stanca
come la voce di mia madre
stasera – come una vera casa.
Padova, 1 ottobre 2014
Ma forse c’è davvero qualcosa nel chiarore
oltre i tetti e le antenne di Roma, un girotondo
di bambini, la giovinezza ardente del dieci agosto
mentre il vago presagio dell’amore ti apre le mani
gira nella linea della vita – un rosa tenero
sei, carne della mia carne, il soffio
pulito dell’aria cristallina, come la primavera
che è già arrivata e se ti guardo scopro
che non è mai andata via.
Roma, dicembre 2015
Essere calmo come l’acqua
che ti fascia la vita, Lugano
dama di lago, bellezza liquida
accogli tutti ma nessuno mai
a queste rive scorge il cuore
tuo segreto – tutto sta
celato nel volo degli uccelli, quel timido
ondeggiare delle barche che sgrana
la chiara visione del fondale.
Estraneo anche a me stesso
posso unicamente ammirarti
dalla superficie.
Solo il sole ci sa capire.
Lugano, marzo 2013
Mi passi il sale, ti passo l’olio
la pasta al pomodoro – “te ne do poca
devi dimagrire”, due noci sul tavolo
per il fine pasto, è un rito il nostro
pranzo di tutti i giorni che si ripete all’infinito
non riesci a mangiare senza televisione
il formaggio grattato fine
sui maccheroni. Sappiamo tutto
non ci siamo detti niente – è solo la tv
che parla “non siamo Parigi, non è ancora
la nostra guerra”, ma anche oggi non senti
come si rinnova la nostra più intima emergenza?
Ce la passiamo col sale, come sotto assedio
perché l’amore passa anche la pena – una carezza
attorno alle braci di questi pochi
gesti domestici.
Hai gli occhi tristi mi dico da solo
davanti allo specchio, come convincermi
del diverso. Ho sempre avuto questa tensione
nella retina – una specie di malinconia elettrica
proprio un delitto, diresti, contro i giorni di sole
gli amici, tutti gli amori sospesi
nel sorso di un respiro, loro esigono
occhi felici non questa mancata
dimostrazione.
E chiuderli colpevole, volere tornare
bambino, allo scuro di tutto – ti copriva la vista
la compagna delle elementari con le sue manine
a nascondere la sorpresa di compleanno
e lì al buio non era ancora tuo
l’onere, era il mondo
a spalancare gli occhi
come un bene più grande
su di te.
QUI
Qui, vinto e vincitore, arreso
alla vita spezzo il pane
friabile della focaccia e rendo grazie
a lei, al tuo sorriso estivo – ai capperi
selvatici sul balcone del forno.
Dovrei, eppure non voglio conoscermi
così bene, né chi sei tu, immerso
nella liturgia di un’isola, grato
all’immenso, dal vento sbattuto e asciugato.
Quali sono davvero i nostri peccati
non m’importa, la messa
il pane che ti passo
non finiscono mai.
Abbiamo estratto la tua trama di legno
per rifare in fretta la nuova tettoia
a sostenere la parte sporgente e indifesa
dal peso della neve – i tuoi ganci, le poche
cose appese, quelli no, non li abbiamo voluti
togliere. È così che va la vita
ci presta sempre qualche appiglio al passato
non troppi, solo il giusto
per sostenere il ricordo, qualcosa
che poi resta – una cianfrusaglia, un sogno
il dolore che ogni tanto si ritrova
e poi si dimentica di nuovo.
BIBLIOGRAFIA
Filippo Amadei
Ha pubblicato i libri di poesia La casa sul mare (Il Ponte Vecchio, 2015), Saperti a piedi nudi ( LietoColle, 2009) e Oltre le ringhiere (Raffaelli Editore, 2014).
E' il vincitore della prima edizione del Premio Rimini per la Poesia Giovane.
E' tra i fondatori dell'Associazione Culturale Poliedrica.
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua