" Chiamerò il nome tuo
a rimbalzare lungo la parete"
Patrizia Baglione, Madre che resta, 2024
Foto di copertina: Valentina Picco
Progetto grafico: Salvatore Scandura
Postfazione : Francesca Del Moro
Con quale lingua è possibile parlare di un figlio mai nato, con quali accenti dare voce alla collana di immagini e pensieri di dolorosa mancanza, di rinascita, di speranze sottaciute? Non è mai immediato offrire una narrazione riguardo all’aborto (sia accidentale o volontario non cambia la riflessione) e l’attenzione rivolta da Madre che resta è una bella e necessaria testimonianza in forma di silloge. O forse si dovrebbe considerare come un poemetto dalle plurime espressioni, sfaccettature di un prisma che contiene più luci e altrettante zone d’ombra. Patrizia Baglione ci consegna la sua esperienza, che da personale si fa straordinariamente comune ad altre donne in un cammino di continue cadute e coraggiose riprese. La parola poetica si muove intorno a nomi, desideri, amore e rifiuto, volti e nostalgie, costantemente allacciati con richiami a elementi naturali. C’è il corpo della madre e c’è il corpo del bambino mai nato, congiunti e distanti in un dialogato stretto. Non manca il tema della separazione con i suoi abbracci impossibili, né mancano gli impercettibili fili che stentano a sciogliersi. Vita e morte alla fine scorrono fluidamente insieme, soccorrono l’elaborazione del lutto e la convivenza con questo, lasciano il campo alla sincera compassione piuttosto che ad una consolazione banale. Le consonanze e le distonie nella storia di questa madre che resta riassumono un intero mondo di affetti, l’amorevole malinconia come autentico lavoro poetico.
Provo a scrivere parole
che non hanno avuto ossa,
né padri. Verbi senza cuscino
su cui posare il capo; viso
che cede al minimo gesto.
Non ha avuto terra la mia costola,
né occasione di cospargersi
nel bianco dell’ultimo occhio.
Sono senza storia le mie ferite:
uno sguardo nel vuoto, l’altro
nel petto.
Vieni e ascolta
ho da dire veli di cicale,
canti eterei di dura bellezza
— foglie e nuvole
che osservo per te.
In principio era la caverna la tua dimora.
Accogliente aspettava
di vederti crescere le gambe.
Come una sorta di parabola, le mie,
sorreggevano il mondo intero,
ma non bastava.
Serviva qualcosa di più forte.
Una matrice di ruggine o metallo che,
seppure dura, ci apparteneva.
Possiedo giorni che non sono giorni,
piuttosto un ventaglio con cui fare
i conti; tane per nascondersi,
buchi da riempire. Giorni
come finestre chiuse.
Lume lieve in direzione della sera,
un’alba timida solo al pensiero.
A restare, ricordo bagnato,
l’ecografia che attesta la tua presenza.
Tutto in frantumi sopra il tavolo.
Mio figlio è venuto a portare pietre.
Leggo in alto il suo nome:
è scritto in rosso.
Ha la pelle cadente,
una bocca
dal sapore di minerale.
Tutto in lui è cancellazione.
Prova a ricordare le giravolte
in quegli abiti troppo adulti.
Tra le pieghe delle lenzuola,
danzare ci sembrava l’unica
cosa possibile. Era come
scansare via i brutti pensieri:
con una mano a tenerti stretto,
l’altra, a varcare ogni perimetro.
Siamo madri di figli
non venuti al mondo
la terra è arrivata prima
inondando il cerchio.
La terra
ha divorato il senso
per mostrarlo, nudo
di una sola pelle,
di una sola fortuna.
Ho chiesto al porto
di ancorare a sé
ogni disgrazia,
portarsi a fondo pagine strappate:
siamo pesci di mare contratto.
Dalle ceneri
risalgono a galla
gli istanti
di ciò che eravamo.
Lische e alghe
sono cose che restano.
Cercando una stella nell’ora blu
ho visto te, bambino di sale.
Col corpo di marmo,
di stagno, di un solo strato;
muovevi le braccia in segno
di pace.
Col corpo di luce, di aria,
di pane sputato.
“Mamma mi vedi? Son fatto di buchi”.
Fammi stare nella tua notte,
dentro la mia abitano guance
che non si toccano. Lasciami
seduta sul fieno grigio,
a pregare nel silenzio di un
solo istante. Conto carcasse
come anelli di albero:
ad ogni numero superiore,
un osso rotto del mio corpo.
Chiedo di proteggere questo mio corpo:
casa delle tue acerbe preghiere.
Sopra il tetto un canto di cicala
viene a sorvegliare la mia notte.
Tu e la notte, la sola ossessione.
Madre per sempre
che non scolorisce
resta minuscola
delle sue cose. Madre
di ibisco, di giallo
impazzito, mani di culla
per ogni frastuono.
Madre che è bocca,
ombra perfetta:
occhi a guardare
ancora due eterni.