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INTERVISTA  A  SARA  COMUZZO

IN OCCASIONE DELL'USCITA DELLA SUA ULTIMA RACCOLTA POETICA

Dove i clown vanno quando sono tristi, Brè Edizioni

 

a cura di Elisabetta Beneforti

Pioggia Obliqua : 

Cominciamo questo dialogo dal titolo suggestivo della tua ultima raccolta di poesie Dove I Clown Vanno Quando Sono Tristi… contiene un richiamo simbolico oppure nasce da un’occasione?

 

Sara Comuzzo : 

Entrambi. I clown, nell’immaginario letterario e cinematografico, al circo o per strada, mi hanno sempre affascinata. È iniziato tutto con un verso, uscito come una sorta di richiesta/imperativo: “Portami dove i clown vanno quando sono tristi”. Da qui è partita la ricerca di una coordinata geografica ideale che possa accogliere i superstiti, le persone tristi, quelle dimenticate dalla società o quelle che semplicemente hanno avuto una brutta giornata. Vivevo a Dublino a quel tempo, e la città è piena di senzatetto, che sono spesso tossici, per le strade. Lavoravo in una sorta di centro accoglienza per loro e la metafora del clown mi è parsa adatta alla parte di umanità con cui avevo a che fare, e al mondo in generale. Dov’è che i clown vanno quando sono tristi? E prima ancora: può un clown, che dovrebbe sempre far ridere (tralasciando ovviamente l’immaginario kingiano di It, in cui clown equivale a mostro) avere una giornata no? E se sì, dove si rifugia?

 

In questo libro, i clown sono una metafora altamente simbolica, nonostante il trucco, pretendono una certa forma di giustizia, cercano un qualsiasi legame relazionale, una soluzione alla solitudine in una società postmoderna piena di contraddizioni e problemi interpersonali. Nella raccolta, la poesia intitolata Innocenza porta quel verso e descrive la casa dei clown come “Un luogo in cui poter essere se stessi,/ stare al caldo, tornare bambini./ Non essere mai numeri/ ma solo trattini/ sempre legati a qualcos’altro.” Ecco, è questo il messaggio ultimo che credo sia l’essenza dell’opera: l’esistenza di un legame continuo tra cose, luoghi e persone.

 

 

PO : 

L’autobiografia è imprescindibile nella tua scrittura che racconta il tuo sguardo sul mondo… è cambiato qualcosa dalle precedenti raccolte?

SC :

 Sicuramente le mie prime due raccolte (grazie a Dio fuori stampa oramai!) erano molto immature, a livello di stile, linguaggi ed equilibrio interno. Sono più consapevole nelle mie ultime tre raccolte: vi è un lavoro di editing più profondo, una maggiore precisione formale. Ma ci tengo a precisare che non sono e non sarò mai una poeta lirica, canonica e formalmente perfetta. Sono amante della beat generation, del surrealismo, dell’in yer face theatre, e del postmodernismo; e non sono interessata a leggere né a scrivere di altro.

Nella mia scrittura c’è sempre molta autobiografia, ma forse ho imparato a nasconderlo meglio negli ultimi libri e spostare il baricentro da qualcosa di troppo personale alle sue declinazioni nella vita degli altri. Per esempio, la sofferenza per una sorta di perdita che può essere la fine di una relazione o la morte di una persona cara, se prima era qualcosa di puramente legato al mio vissuto, ora cerco di esternarmene e raccontarlo come fosse esperito da altri. Ma in soldoni, parlo sempre di quello che vivo e sperimento, pur cambiando il punto di vista.

 

Forse il fil rouge della mia poetica (e della poca narrativa che ho scritto) è l’interesse per le storie ai margini, per gli outsiders, per le emozioni vissute al massimo, di stomaco. Mi piacciono gli estremi, non le vie di mezzo. Ciò è in parte dovuto al mio lavoro: per anni ho lavorato come educatore con tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, autistici, o minori difficili. Credo sia importante portare alla luce alcune voci fuori dal coro. Nelle mie raccolte, ho parlato di bambini di strada incontrati nelle baraccopoli di Nairobi; personaggi strani incrociati a Vancouver; tossici con cui ho lavorato a Dublino o Brighton; e ovviamente anche persone “normali”, uomini d’affari che tradiscono le mogli, bambine che giocano in cortile e poi vengono investite, e gente che si incontra tutti i giorni nella quotidianità. Ho parlato spesso di perdite, tristezza e dolore, ma solo perché, quando sono felice, generalmente, mi godo la felicità e non ne scrivo. Ma questa cosa forse deve cambiare.

 

 

PO : 

Penso al film di Jarmush, Paterson, che narra la poesia nel suo realizzarsi nel quotidiano… per te è urgente o piuttosto una sorta di epifania?

SC : Ho dovuto guardare il film, prima di poter rispondere a questa domanda. Tra l’altro: pellicola stupenda. Mi è piaciuto un sacco. Grazie duemila per il suggerimento cinematografico!

 

Diciamo che era sicuramente qualcosa di urgente in passato. Ci sono scene, nel film, in cui il protagonista scrive al lavoro, sull’autobus, prima di iniziare il suo turno o durante le pause. Questo capitava anche a me fino a qualche anno fa. E nello stesso tempo erano comunque sempre presenti delle epifanie, delle ondate creative, come fari nella notte. Al giorno d’oggi, la vita mi ha certamente reso meno sognatrice e forse anche meno creativa, vedo e sento meno poesia in giro; la freneticità degli impegni quotidiani, i turni di lavoro, le relazioni, le giornate in sé e la stanchezza che ne deriva, nonché l’età che avanza, mi hanno resa forse meno ricettiva e meno produttiva verso la poesia. Ora come ora rimango in attesa delle ondate di creatività e cerco di usarle al meglio.

Alla fine dei conti, il mio processo creativo e poetico è rimasto sostanzialmente uguale: è tutto sempre caotico e urgente inizialmente e poi viene messo (vagamente) in ordine durante la fase di editing. Le mie poesie sono sempre nate e nascono tutt’ora come collage di frasi spesso scritte in momenti diversi, spesso addirittura versi presi da poesie diverse e poi assemblati, tagliati e ricuciti in una poesia finale. Una sorta di uso della tecnica del cut-up, in cui urgenza ed epifania si incontrano e si bevono un whisky affumicato scozzese insieme.

 

 

PO : 

Dove I Clown Vanno Quando Sono Tristi contiene epigrafi di Frank O’Hara, Dylan Thomas, Issa… sono rimandi importanti che parlano delle tue ‘radici’ letterarie…

 

SC :

Sì, assolutamente: questi nomi possono senza dubbio considerarsi linfa vitale delle mie radici letterarie. Frank O’Hara e Dylan Thomas vivono sul mio comodino, praticamente. I miei gusti personali spaziano in una costellazione di scritture molto diverse, il cui unico punto in comune sono la loro unicità e originalità.

Alcuni nomi indicativi di questa diversità, che mi vengono in mente a livello poetico e che ritengo fondamentali, sono: Ferlinghetti e Kerouac della Beat Generation; l’immenso postpostmodernista Ben Lerner; la poetessa nera, attivista lesbica e teorica dell'intersezionalità Audre Lorde; la  spoken word lgbtq+ di Andrea Gibson; la poesia di strada della scozzese  Claire Askew; la semplicità e brutalità dei versi di Bukowski; l'immediatezza dei componimenti delle poliglotte Natalia Bondarenko e Ariane Castelo Cipriano, entrambe amiche e artiste che stimo profondamente. Adoro poi la poesia contemporanea russa, in particolare Boris Rhyzy e Vasilij Filippov, entrambi mentalmente instabili, ma talentuosi all’inverosimile. 

 

Non ho una ricca conoscenza della letteratura italiana, ma nel panorama della poesia contemporanea stimo molto Isabella Leardini, Francesca Genti, Dario Bertini, Vincenzo Costantino Chinaski, Pierre Lepori, Fabrizio Bajec, Antonio Merola, Simone Cattaneo, Luca Pizzolitto, Massimiliano Bardotti e, naturalmente, Elisabetta Beneforti.

 

L’ispirazione viene però anche da altri campi, poiché se una scrittura mi colpisce, per forza di cose ne risentirà anche quello che scrivo io: il teatro di Sarah Kane è sicuramente ciò 

che mi ha influenzato di più su ogni livello. In narrativa leggo quasi solo ed esclusivamente: James Frey, Jeanette Winterson e Cynan Jones.

 

Infine, un grande ascendente proviene anche dalla musica che ascolto. Vado spesso a correre e ascolto canzoni nel mentre, rituale che ha molto a che fare con il mio processo creativo. Perciò, artisti come Vasco Brondi, Calcutta, Conor Oberst, Kyle Morton, Phoebe Bridgers, Bon Iver, Lady Lamb, Sufjan Stevens, Iron and Wine, Keaton Henson e Julien Baker sono per me a tutti gli effetti dei poeti e delle vere e proprie fonti di letteratura. Ascoltandoli spesso, indubbiamente, la loro unicità e il loro storytelling suggestionano in qualche modo anche i miei scritti.

 

Scusa, questa risposta sembra una lista della spesa (e per me lo è, senza dubbio! Una lista i cui acquisti vivono nella mia libreria o nel mio lettore mp3), ma per riassumere posso dire che sono attratta da scritture viscerali, la cui sensibilità estrema si traduce in una voce unica e diretta.

 

 

 

 

 

PO :  

Al tuo lavoro poetico affianchi quello di traduzione di poeti inglesi… come se si nutrissero l’uno dell’altro, una questione di idiomi e di linguaggi…

 

SC :

 Le mie letture e di conseguenza le mie traduzioni propendono verso i gusti personali che privilegiano una letteratura anglo-americana. Mi piace molto l’immediatezza della lingua inglese e il suo essere costituita da frasi generalmente brevi e poco arzigogolate, contrariamente all’italiano, più prolisso e ricco di subordinate. Inoltre, l’inglese è l’unica altra lingua che conosco decentemente e a cui posso accedere per scoprire nuove scritture.

 

Una cosa che mi piace molto è tradurre poeti che ho conosciuto, dando vita a collaborazioni geograficamente itineranti e potenzialmente senza confini. Avendo vissuto all’estero per molti anni, ho avuto la fortuna e l’onore di partecipare a festival teatrali, poetici e letterari, dove ho incontrato artisti che stimo molto. Anche la vita di tutti i giorni o i viaggi on the road mi hanno permesso di incontrare alcuni dei poeti che sto traducendo: Ariane Castelo Cipriano (collega di lavoro; brasiliana poliglotta), Jeremy Page (professore universitario; inglese), Robert August Smith (compagno di viaggio, incontrato sulla strada; americano).

 

Senza dubbio sono interessata a tradurre solo e unicamente artisti che sento vicini alla mia poetica, non sarei in grado di lavorare su testi che non mi piacciono. Non ho studiato traduzione o altro, quindi i componimenti devono arrivarmi addosso, investirmi come un autotreno.

 

Per esempio, per Yawp, una delle riviste con cui collaboro, ho scoperto e tradotto Craig Czury ed è stata una vera e propria esperienza. Mi hanno proposto di tradurlo ma io non lo conoscevo, quindi ho risposto “Forse, ma devo dargli un’occhiata prima”. Ho letto quello che mi era stato mandato e mi ha completamente folgorata: è un poeta estremamente beat, con un flusso di pensiero pazzesco, una grammatica anarchica, un immaginario postmoderno, una lente di ingrandimento sulla quotidianità di strada, esattamente come piace a me, esattamente quello che cerco dalla letteratura. Allora ho detto sì.

 

 

 

PO : 

Vivere in altri territori rispetto al tuo di origine… dal Friuli all’Irlanda e all’Inghilterra, i tuoi grandi viaggi come specchio e punto di arrivo per la tua scrittura…

 

SC : 

Forse la risposta a questa domanda si ricollega alla precedente. Ho vissuto e lavorato in diverse parti del mondo (tra cui Canada, Australia, Nuova Zelanda, Kenya, Scozia; e infine, Inghilterra e Irlanda, che sono i posti in cui mi sono fermata più a lungo). C’è sempre stata un’urgenza di visitare altri mondi, entrare in contatto con culture diverse, sperimentare qualcosa di lontano.

Udine e il territorio friulano mi sono sempre stati stretti. A posteriori, posso dire che, inconsciamente ma anche fisicamente, ho sempre cercato di scappare dal Friuli, prendermi una pausa dalla sua immobilità e poca originalità.

Sarà divertente vedere come questa fuga, ora bruscamente interrotta dalla pandemia, si evolverà nella mia vita personale e nella scrittura, poiché abbiamo parlato di come esse siano strettamente legate.

 

Per riprendere la tua domanda, sono sicuramente in cerca del punto di arrivo, dedico tempo più sano e preciso alla scrittura, non più vissuta solo come un’urgenza, e di certo non intesa come un lavoro, ma come uno spazio specifico e personale in cui concentrarsi e buttare nero su bianco. Un po' come la stanza nel seminterrato in cui Paterson va nel film. Se prima mi ritrovavo più in lui che scrive sul bus, ora la mia scrittura è decisamente a uno stadio in cui vi è una stanza dedicata all’azione; forse, la stanza tutta per sé di cui parlava la nostra amata Virginia Woolf. O almeno così mi piace pensare.

 

 

 

poesie edite da Dove i clown vanno quando sono tristi

Innocenza

 

Le ultime parole prima della fine dell'alfabeto.

Un tentativo di amare senza aspettative finito male:

 

Portami dove i clown vanno quando sono tristi.

Un luogo in cui poter essere sé stessi,

stare al caldo, tornare bambini.

Non essere mai numeri

ma solo trattini

sempre legati a qualcos'altro.

 

L'innocenza di un insetto che sta per morire e lo sa,

la sua dignità.

 

 

 

Colombe

 

Io sull'acqua ho pattinato sicura.

 

Le notti svaniscono

si dilatano come una crepa sul muro

esplosa dopo anni

di avvertimenti

dalle porte sbattute.

 

Andare a casa per guardare una soap-opera

in cui gli attori si sono ammazzati

pur di non far più parte del gioco.

 

Il satellite del pianto

ruota attorno agli occhi

che però restano asciutti

almeno quanto Londra.

 

Si apre ai lati il vestito da sposa

di diciassette taglie più piccole:

il corpo che dovevi avere

la moglie che volevi essere.

 

Le colombe sanno tutto

lasciate in fin di vita

sui tetti dell'inverno.

 

 

 

Turno di notte

 

Mentre morivi

io facevo il turno di notte

in un supermercato

a riempire scaffali,

svuotare le scatole, sistemare la carne nel frigo.

 

Non posso fare a meno di pensare

ai pezzi di corpo, i residui dei muscoli,

e quel che rimane. I ricordi indelebili.

 

Chiunque ha detto che il turno di notte lo fanno le stelle,

mentiva.

 

 

Fermarsi

 

Clessidre capovolte

invece di rubare il tempo lo regalano.

 

Scrivere poesie dolcissime

e poi trovarsi senza zucchero in casa

quando gli ospiti vengono a bere il caffè.

 

Rincorrere il sole prima che faccia buio.

 

Adesso, le rughe sul volto crescono più profonde,

solcano un terreno chiamato età,

preannunciano, sussurrando, che è tempo di andare.

 

Anche fermarsi dopotutto è un viaggio.

 

 

Sara Comuzzo (Udine,1988) ha pubblicato cinque raccolte di poesie e una di racconti. Sue poesie appaiono su siti, riviste e blog letterari in Italia e all'estero e sono state tradotte in portoghese, spagnolo, russo e inglese. Ha studiato letteratura moderna e studi di genere alla Sussex University con una tesi sul teatro di Sarah Kane. Collabora con YAWP nel reparto "Poesia", come critica e traduttrice. Vive e lavora fra Italia e Inghilterra.

Dove i clown vanno quando sono tristi  ha vinto il Premio Letterario Kerasion e si è classificato al terzo posto del Premio Internazionale Navarro.

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 

" Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della "poesia onesta" di cui scriveva Saba non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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