EVARISTO SEGHETTA ANDREOLI
POESIE INEDITE
Sedici gennaio
Eppure questo sarà un giorno da ricordare,
mentre piove su Firenze, su San Miniato
che severo attende la mia conversione
desiderata, rimandata, forse incipiente.
Sul ponte sfilano i lampioni,
si accenderanno tra poco, illumineranno
la giusta direzione. Attendo così
rintanato in questo caffè, dove
la barista filippina non mi sopporta più,
non può tollerare che qualcuno scriva
per ore su un taccuino, tutto al prezzo di un tè.
Vorrebbe chiedere cosa ci sia da raccontare,
nel grigiore di questa sera in cui
nessuno spende una lira.
Vinsanto
Non so chi mi abbia regalato
questa bottiglia di vinsanto,
era lì tra i regali di Natale
nell’anonimato delle ombre.
Ora senza tappo, senza filtri, essa
profonde l’aroma imprigionato
e sparge il profumo di un settembre
di qualche anno fa. Già, è vero,
ho dimenticato il mio settembre,
i miei mesi tutti uguali e confusi in un
magma incolore, ma qualcuno riaffiora
per sapore, qualche altro per amore.
Stasera la pioggia
Ho sempre sperato che piovesse così,
fitto fitto, le gocce a migliaia sotto
i lampioni, atomi umidi nel clinamen
del precipitare dell’esistenza.
Come ho bisogno di speranza,
come vorrei avere coraggio, quello
di Teseo o di Ulisse, quello di Enrico
il mio amico metalmeccanico
che non fa filosofia perché si alza
alle cinque, e cammina, cammina
per le vie alberate che già sanno
di ruggine e di nero.
Ma ora piove dal cielo e piove fitto
fitto, tanto che le radici di questi
ippocastani invecchiati con me,
con le mie mani dalle vene sporgenti,
spaccano l’asfalto e il mio cuore.
Gatti
È un nodo nel legno quello che compare
al centro dell’architrave, quello che
sorregge la volta celeste, in questa
sera piovosa e disarmante,
è il nodo imperforabile
della malinconia. Ora lungo la via
fuggono i gatti più veloci del vento
al mio passare, forse è il terrore
cupo della mia ombra, che si espande
tra i lampioni e gli ippocastani.
Ma domani prometto sarò migliore,
libererò il mio cuore da ogni dolore
e dalle foglie di platano, salirò
sui tetti, tra comignoli e antenne,
lì dove i gatti sprigionano luce
dagli occhi, luce propria come le stelle.
La stanza
Poi dicono che io pecchi di serietà,
eppure sto seduto come un giudice
su questa poltrona scarna, bici
senza ruote, unico superstite
dopo l'epurazione della necessità.
In questa stanza, tra soffitto e pavimento,
ricerco l'archetipo della notte, oltre
la finestra aperta sul buio del non io.
Eppure, a modo mio, aspetto
Il diradarsi delle nuvole silenziose.
Arezzo 5/10/2017
La chiglia
La tua presenza, la mia memoria esterna,
il mio coraggio finito in esilio.
Ci sarà sempre un foro nella stiva,
un occhio di luce, uno spiraglio di vita.
Ci sarà anche quando la chiglia Incagliata
mi ricorderà che tutto diviene,
che il fermarsi è un'illusione.
QUESTO SONO IO
Questo cervello insano
dove risuona incessante
la musica dei ricordi,
dei rimorsi radici,
testardo e fragile,
di sensibile anomala comprensione,
che spinge il corpo per salite immani
nella speranza dell’autopunizione,
che porta a leggere e scrivere poesie.
Questa persona
che mi ritrovo sempre davanti
e mi delude e mi esalta
urla, canta e piange.
Questi occhi che guardano lontano,
guardano il mondo in un modo strano
in modo direi del tutto mio.
Questa testa che stringo forte tra le mani:
tra esse stringo di me stesso l’involucro,
ma lo spirito non si può toccare
mi limito così a immaginare
di che colore sia il mio “io”.
Questo sono io.
(Da I semi del Poeta - Polistampa 2013)
Inquietudine da imperfezione
Oltre i tuoni notturni, sicari del cielo,
la mente fugge spazio e tempo,
supera la luce, i suoni
e, dei sensi
l’ opprimente peso
sull’Io passato, futuro,
presente.
Assurda aspirazione
portare il pensiero alla fonte
dell’ essenza assoluta,
disciolto ogni quesito,
nell’ infinito tutto.
E sogna l’incontro supremo
tra l’essere e il nulla,
della stasi col moto,
tra la materia e il vuoto,
dentro e fuori dall’ Io,
perché è sottile
questa inquietudine
da imperfezione
che avvolge i fiori
prediletti di Dio.
(Da Inquietudine da Imperfezione-Passigli 2015)
Dicembre
Quest’albero,
in cui vive la mia essenza,
è come ciliegio fiorito a dicembre:
attrae il perplesso sguardo
di uomini e di uccelli
che giustificano il tutto
coi capricci del caso.
È illogico accettare
che un vecchio parli d’amore,
ormai che sono scorse
gran parte delle ore
da quell’aprile in cui fervida
è la danza della specie
e Venere e le Grazie
trastullano il cuore.
Io, solitario e tardivo, invece,
attendo che la voce,
che cova nella notte,
esploda in fioritura innaturale,
in questo corso strano
dell’esistenza, dov’è inaccettabile
lo sgarbo all’esperienza.
Io fiorisco a dicembre,
quando ormai le foglie sono cadute,
opponendomi
alla comune convinzione
che nel dicembre della vita
fioriscano soltanto
mute parole.
(Da Inquietudine da Imperfezione-Passigli 2015)
Di flauto e tamburo
Di flauto e tamburo
una secca armonia
colpisce la via,
giostra di gatti,
teatro di venti,
sul saliscendi che porta
al confine,
di primule e crochi
miraggio.
Ma al ritmo marziale
di provati soldati,
nei campi fioriti
il passo sprofonda.
È colmo d’attesa
il cerchio del buio,
quando la scheggia di fuoco,
nell’odore di sparo,
s’affaccia sul bosco,
arrossa il torrente
e la pallida ghiaia.
Di flauto e tamburo
risuona il dolore
di padre,
al tramonto.
(Da Inquietudine da Imperfezione-Passigli 2015)
I°
Io sono le mie parole,
sono la traduzione puntuale
del dolore ancestrale,
epifania affissa
alla porta dell’esistenza
e l’inchiostro a delinearne
lo spazio, fra titolo
e prezzo.
La risposta cartesiana
al quesito originale
è solo il dolore,
frutto dell’esposizione
a prove, prove, prove…
Io sono in questa cantilena
che permette al mio udito
di passare il messaggio al cervello,
di rinchiudere nell’anello
del prima e del dopo
il ronzio dell’eternità.
(Da Morfologia del Dolore - Interlinea 2015)
X
Su questa spaccatura
profonda, dove fanno
da sponda le pareti
dell’anima,
dove opaca rimbalza
la luce della coscienza
che giudica e si giudica
mi affaccio.
È in questo crepaccio
che precipitano i sassi
del tempo, fino a toccare
il fondo e lasciano
onde concentriche
dal suono oscuro
che vibrano di rimpianto.
Ma fugge
il mio gatto
tra la legna e l’olivo:
teme i botti improvvisi
i botti del cuore.
(Da Morfologia del Dolore - Interlinea 2015)
XVI
Mettiamo in scena l’ennesimo atto
di questa farsa antica,
allestita al passaggio a livello
della vita, per riempire il vuoto
dell’attesa, nelle comparse a turno
del normale e dell’assurdo.
Scritturati dalla Sorte,
recitiamo alla meglio la parte
assegnata, letta e provata
nel teatro della nausea,
temendo l’errore fatale,
il fallimento totale della strana
commedia imbrattata d’amore.
Accettiamo così ruoli esagerati,
ferrovieri e soldati,
ammucchiati i bagagli
in questa stazione isolata.
Prima o poi il treno passerà.
(Da Morfologia del Dolore - Interlinea 2015)
Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione (TR) dove attualmente vive. Di formazione classica-umanistica (Liceo Ginnasio Gualterio Orvieto), è stato per quarant’anni funzionario di un primario istituto di credito vivendo, per esigenze di servizio, in molte città italiane. Ha pubblicato: I semi del poeta (prefazione di Patrizia Fazzi, Firenze, Polistampa Editore, 2013); Inquietudine da imperfezione (presentazione di Franco Manescalchi e prefazione di Giuseppe Panella, Passigli Editori, Bagno a Ripoli, 2015); Morfologia del dolore ( presentazione di Carlo Fini, Interlinea Editore, Novara, 2015); Paradigma di esse (presentazione di Franco Manescalchi e prefazione di Carlo Fini, Passigli Editori, Bagno a Ripoli, 2017). Fa parte dell’Associazione Culturale Pianeta Poesia di Firenze e dell’Associazione Tagete di Arezzo. Alcune sue poesie e recensioni sulle sue opere sono apparse su riviste letterarie tra cui : La lettura del Corriere della Sera, La Gazzetta di Parma, La Nazione, Il Resto del Carlino, Erba d’Arno, Retroguardia, Feeria, ecc. Egli ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra i quali i primi premi assoluti ai seguenti concorsi: Premio Firenze Mario Conti Fiorino D’Oro ( 2015); Premio Giovanni Pascoli - Barga (2016); Premio La Locanda Del Doge- Rovigo (2016); Premio Tagete – Arezzo (2016); Premio Internazionale 2016/17 “ Mario Luzi”- Roma; Certamen Apollinare Poeticum Pontificia Università Salesiana di Roma (2018). Hanno scritto di lui, tra gli altri, Franco Manescalchi, Carlo Fini, Carmelo Mezzasalma,Giuseppe Panella, Patrizia Fazzi, Alberta Bigagli, Camillo Bacchini, Michele Brancale, Valeria Serofilli, Franco Manzoni, Giuseppe Manitta, Eleonora Rimolo, Luigi Oldani.
ALESSIA D'ERRIGO
Se mai più parlerò
sopravvissuta al caso
con la pelle rosa in quarantena
PASTO VERGINE
di Alessia D'Errigo
E cosa ti racconto ora, se le creature vengono a me
se le sento strillare e raggrumarsi nel sotto sterno
in preda ad un richiamo naturale, quello per cui combatto
e difendo Dio, e cosa ti racconto ora che la luna è diventata acqua per abbeverare i morti, i passi grevi della terra ed i passi miei. Potrei mentirti, calare i veli, tirare giù le
coltri, imbrogliarti
ma qualcuno strilla, uno dei tanti, l'altro parla, uno dei muti
ed io rido parlo e sto muta. Forse sono pazza.
Bisognerà pur farlo uscire questo dolore, l'urlo del parto, del cuore, l'efferatezza blasfema della ghiandola animale. Bisognerà pur sfaldarsi e ricomporsi, come i castelli di sabbia nelle mani dei bambini, del mare, castelli ad illuderci, bambini, nel mare. Bisognerà calare sì, nelle coltri, il vestito bianco, affogarlo nella sozzura, nel limbo delle ceneri purché ne venga una grande luce fuori, ad accecarci, lasciandoci informi e plasmabili, sciolti verso l'avvenire, purché venga a noi questo avvenire, come la piuma di un angelo ad accarezzarci nella bolla del ventre.
Io voglio sì, una carezza, nella bolla del ventre.
Remunerami il pianto, biglia del basso ventre che caracolla al sole, remunerami le prestazioni a cui affido
l'addio e il ritorno
una dispersione afona d'intenti (comprese queste parole). Remunerami l'afflato del vento, che mi schiaffeggia giorno e notte circondandomi d'amore e morte.
Per queste strade che non vedo, per i prati che si aprono
cingiti lieve, dimenticami in un bacio, nelle fluorescenze dei corpi
purché si sfaldi la parte di me che teme l'orrore, il disperato eco di ritorno della vita, per la vita, del suo sale, fuliggine dei morti su tombe di cemento. Io piango, tu piangi,
la terra trema, Dio trema.
Potremmo perdonarci domani, affiancarci spalle a spalle
per questa grande notte nera, sognare lo stesso sogno,
un luogo nuovo che s'apre, lasciar salire lo stesso canto.
Anche io sono avversa alla mia forma, alla tua forma, alla mia. Io sono avversa sì, a questa morte, al lutto dei giorni senza fiori e rammendo nel cuore un biancospino per ricordarmi del nome e rammento il tuo nome ch'è il biancospino ricamato nel petto. Il profumo dei fiori, l'inevitabile profumo dei fiori.
Perché è notte? Cos'ho oscurato senza ricordare? C'era un
davanzale una stanza e poi la coltre scura di qualche oblio, in sordina,
una memoria vicina alla pelle, l'ortica dei tuoi occhi.
Viene l'acqua breve, dai flutti carnefici a spezzare il grembo. Viene l'acqua breve a scavare le rive.
Che tu sia libero o legato alla sua foce, passa ed abbevera, lasciando lo scolo alle mandrie dal pascolo brado:
Il clone mio Dio, intro la pelle, la stessa pelle,
la parte di cuore che non crede più,
la parte di cuore che s'annida alle spalle dell'inverno seno tuo Gesù. Bastino le pietre a salvarci, gli stagni bastino
purché si taccia questo pensiero eretto e doppio;
l'eredità dell'uomo verso l'uomo, la guerra e l'eucaristia.
I corpi mangiano e bevono dalla foce dei Tuoi occhi sghembi prostrati a nocciola lungo la terra, il sacrificio dei tuoi sensi
è un tutt'uno con la croce. Ti guardi e guardi, uno morrà.
Ti guardi e guardi, uno morrà.
Viene l'acqua breve, dai flutti carnefici a spezzare il grembo. Viene l'acqua breve a scavare le rive.
Il giglio aperto si schiude, addio.
Il giglio aperto ha vesti esangui, il nudo grembo
madre di ricordo, madre di pancia, addio.
Madonna madre chiedi alla figlia,
Madonna madre che nel silenzio bianco, chiedi. Non ti somiglio per forma e grazia, non ti somiglio. Pulsione di carne senza lacrime sante,
di me dentro te, un giorno fu.
Madre Madonna figlia, non ti somiglio per grazia e pallore,
ho cosce sode, sguardo al mondo, l'uovo pronto a sacrificare dalla tua testa. L'indice e il medio tra gli occhi ho spostato, per accecare il tuo martirio di donna, il fuoco del tuo
cuore è una prigione di preghiere.
Madre sposa del nulla, il tuo vacuo sguardo porgi sulla terra,
l'imene del seme tuo Gesù.
Donna avvinta all'amore, alla carne senza peccato, all'amore,
alla carne senza peccato.
Figlia madre Madonna sposa, porgi l'imene del seme tuo Gesù.
Noi, animali da terra in avanscoperta
dalle coronarie inesplose come fossimo parto maturo in perenne ventre, una lotta di placenta appesa tra il calvario di questo e l'altro mondo,
il nostro pianto T'arrivi greve a spostarti gli occhi,
un'emergenza d'angeli a prenderci in caduta, nel giorno del sangue
ove la grande fessura s'aprirà, pronta, a far uscire i nostri corpi.(...)
E' possibile leggere tutto il libro, vedi le informazioni pubblicate in calce a questa pagina.
Alessia D'Errigo
Ricercatrice in campo teatrale e cinematografico. Scrittrice, interprete e regista di varie opere teatrali.
Dopo un percorso classico come attrice inizia una ricerca personale sull'atto scenico e
sulla reale necessità del suo manifestarsi.
Nel 2004 apre, insieme al suo compagno, l'artista e regista Antonio Bilo Canella, il “CineTeatro di Roma” (www.cineteatro.it) centro di ricerca formazione e produzione
in campo teatrale e cinematografico.
Proprio al CineTeatro inizia un lungo percorso sull'improvvisazione totale (la
Performazione: www.performazione.com) e porta avanti una ricerca personale sull'Improvvisazione Poetica.
Da questa ricerca - nel 2011 - Alessia D'Errigo apre il progetto IMPROMPTU THEATRE (http://impromptutheatre.jimdo.com/ ) l'intento è
quello di voler fondere varie arti (musica, poesia, danza, pittura e teatro) in uno scenario d'improvvisazione totale. Progetto sancito dall'omonimo spettacolo “Impromptu” con il
pittore-performer Orodè Deoro, e da altre due performance “Variazioni Belliche (LamentAzione)” e “Per i tuoi occhi bianchissimi”
(vedi video: http://www.youtube.com/watch?v=h9WManvZMwA )
Nel 2012 ritorna a lavorare con Antonio Bilo Canella sulla Performazione, aprendo insieme a lui il “Collettivo Performativo” e collaborando con vari artisti, scrittori,
danzatori, musicisti e pittori.
Nel 2011 ha pubblicato la sua prima silloge poetica 'Carne d'aquiloni' con l'editrice Zona
Contemporanea.
I suoi testi sono presenti in numerosi blog, riviste web e in alcune antologie.
Tra il 2011 e il 2012 Ha curato la rubrica di poesia “Rediviva Donna (classica e contemporanea)” sulla fanzine Versante Ripido.
A dicembre 2013 una ventina di suoi testi inediti, della raccolta 'Pasto Vergine', escono sulla rivista Poesia di Crocetti editore con un'introduzione di Maria Grazia Calandrone.
DIRITTI D'AUTORE
Per volontà dell'autrice questo libro è gratuito e non ha alcuno scopo di lucro.
Il libro è stato pubblicato sul web dal Collettivo 'Bibbia D'Asfalto' al seguente indirizzo:
STEFANO COLLI
Poesie da Non lasciate che uccidano i poeti, Edizioni Tracce 2014
Il fiore che non c’è
Nel sepolcro ardente della sera
sale
tremante
l’esile canto del Muezzin.
A fargli eco
furente
il boato dell’ennesima
autobomba su Baghdad.
Quando è sbocciato l’ultimo fiore
nei giardini pensili di Babilonia?
Senza risposta
è la domanda sgomenta nella notte.
Attende una madre nell’Ohio
la bara avvolta dalla bandiera
che una delle sue stelle ha perduto
nel più inutile macello mai compiuto.
E intanto l’ultima petroliera
è salpata verso la terra della sera
orfana di quel fiore che non c’è.
Gli occhi della notte
La parola scruta gli occhi della notte
e fa rumore quando sfida la luna
che sbircia discreta i nostri sogni.
Ignara è la sorte
che solo alcune approderanno alla meta
a comporre lo spartito della gioia
o la grammatica dell’estrema perdizione.
Le altre
abortite nell’oblio dell’origine
sosteranno sulla soglia dell’attesa
per ricevere il bacio della notte
finché usciranno da quel limbo
labile confine con la morte
per esser convocate dai poeti
all’appello di una nuova epifania.
Perché immensa è la pietà dell’aurora
dinnanzi all’eterno domandare.
Sonata da camera
Non dà tregua la notte quando avvolge
con tentacoli di buio e spirali di emozioni.
Crea illusioni sospese nel tempo
la sua infìda e magica atmosfera
come quella sera di fine luglio.
Due vite sul filo dell’attimo
sguardi che si incrociano e sensazioni
che gravitano sulle note di Bach.
Il tuo fascino delicato e provocante
con garbo accavallate le gambe
l’occhio consapevole ma distante.
Sei lì, con il tuo battito di mani a scandire
il ritmo di due anime in attesa
a carpire il mio sguardo penetrante
che vaga tra i tuoi fianchi
e l’oboe dell’artista sfiorato con mirabile grazia
a sfidare le pieghe
seducenti dei tuoi capelli ondulati
a placare il mio anelito nascente
che lambisce il tuo grembo in ascolto.
Poi le note si dissolvono
il tuo uscire furtiva
il mio seguirti circospetto
il dubbio, il timore, la probabile rinuncia;
ma ecco, improvviso, il lampo, l’occasione
che fende il tuo sbirciare discreto
tra le vetrine luccicanti dei negozi,
le parole che faticano a uscire.
E ricordi l’incontro, due strade che si uniscono
il nostro cammino cadenzato nella notte
il conversare fin sotto le tue scale,
tu seduta poco sopra di me
che il vestito ti aggiusti tenera e pudica
salito impertinente ben sopra il ginocchio
la tua risata leggera avida della vita
che come aprìco ventaglio si dona
a sfiorare morbida l’intero firmamento.
Solo contatti tecnologici e virtuali
è per adesso ciò che resta
a legare la trama dei nostri itinerari
il labirinto delle tue insicurezze
l’ansia ardente che mi pervade.
In attesa di nuove note nella notte
a dissolvere il velo delle tue paure
a coinvolgere i nostri palpiti nascosti
mentre una nuova luna gioca sul letto delle stelle.
Sorriso di bambina
(A Yara Gambirasio)
In quella notte avara di stelle
come un angelo sei volata via
con l’innocenza tremante dei tuoi anni.
Quest’evento ci segnerà per sempre
come il marchio di un sole malato
simbolo di labirinti indecifrabili
che abitano volti vuoti, senza nome
in un tempo di uomini soli
piccole monadi prive di perché.
Solitario il tuo corpo nelle tenebre
chissà dove la tua anima leggera
magari a chiedere pietà
per chi forse non ne merita alcuna
perché chiunque uccide un bambino
fa rivivere due volte la Shoah.
Lo so che l’ignoto ci separa
labile come un respiro nell’inverno
ma di certo il tuo simpatico sorriso
rimarrà impresso nella volta celeste
a squarciare il buio di ogni notte
per apparire come in sogno a qualcuno
quando giocherà a dadi con la morte
per saldare un debito inaudito.
Noi che sfidammo la notte
Navigammo verso orizzonti inauditi
noi che sfidammo la notte
in attesa della sua fine imminente
certi che la nuova alba a picco sulla vita
fosse il primo cenno
di luce sul mondo.
Ci svegliammo come in un giorno qualunque
e vedemmo giovani entusiasti
scambiati quasi per messi celesti
scrivere daccapo la storia
squarciando di meraviglia la cortina del cielo.
E fu giorno, abbacinante giorno
al di là di ogni immaginare
e parve che dal nulla volasse
una carezza, un sussurro a disperdere
le foglie, nel segno
di una presenza sconosciuta
di coloro che per l’Impero
era come se non fossero mai nati.
Fine della storia, tramonto delle tenebre
parole pronunciate al crepuscolo
di un secolo spietato e un urlo
immenso, che sale da dentro
in un orgia di sofferta libertà.
Come il mare quando vomita i suoi ospiti
e riprende il suo viaggio eterno
la storia ha issato le reti
libera dal superfluo che la ingombra.
E noi qui muti alla finestra
con più rughe e molto disincanto
ad assecondare il compiersi del giorno
persuasi che ogni ‘89
sconta sempre il proprio Termidoro.
Dunque vivere fu questo
assistere all’eclissi dell’aurora
passare impotenti
da un permanente teatro dei sospetti
ad un labirinto tecno paranoico?
Fu sapere che i muri più coriacei
sono impressi sulle nostre ombre
tra noi e quell’essenza remota
che si chiama Europa?
La sentenza attende il suo verdetto
purché si faccia in fretta:
l’imputato è ormai moribondo.
Tra gli spazi bianchi (a Ghiannis Ritsos)
La poesia ci guarda tra gli spazi bianchi
nella limpida notte silenziosa.
Si affacceranno le parole
a interrogare le nostre vite
e parleranno per noi anche quando
verrà un tempo in cui non ci saremo.
Forse non verremo dimenticati
noi che possediamo solo le parole
se un giovane sguardo, una sera d’inverno
accarezzato da un raggio di luna
leggerà i nostri timidi versi
e scruterà, come noi stanotte
il firmamento immenso
a tratti angosciante
come quei nudi spazi bianchi
dove schivi si nascondono i poeti.
I n e d i t i
Venne la morte e aveva occhi di follia
(Alle vittime dell’11 settembre)
Venne la morte e aveva occhi di follia
quel mattino di settembre, che rese
il mondo un manicomio a mani tese
verso l’ignoto e inchiodato all’agonia
di attimi pesanti come secoli
da un nemico invisibile e vigliacco,
la normalità costretta allo scacco.
Venne la morte, coi suoi tentacoli
non più scientifica come in passato
ma ugualmente persuasa allo sterminio
in un’epoca priva d’innocenza
dove la poesia si fa urlo strozzato
se nuovi muri innalzano un dominio
che merita Divina Indifferenza.
Noi che viviamo dentro le parole
Quando la sera si veste di silenzio
e si sottrae al naufragio del giorno
dove scontiamo, storditi, la danza
impazzita delle ore, si allenta
per i profughi del tempo l’estenuante
purgatorio della vita e una pace
immensa a poco a poco ci coglie
noi che viviamo dentro le parole
ogni giorno, sopraffatti dal presente
e consacrati alla vertigine stupita
dell’eterno valzer delle sillabe.
E il loro vagito
accennato sulla soglia del dicibile
si concede all’abbraccio della notte
l’azzurra notte nuda come il suono
dei versi rapiti dal vento dell’estate.
Ragazza di Kobane
Nella sera che ghermisce le sue prede
vorrei per poco tenermi al riparo
da un’epoca impazzita che ci assale
con il suo voyeurismo feroce
ma la TV è una sirena ammaliatrice
che nell’aria effonde le sue note
ed eccoti, come per incanto,
ragazza di Kobane. Non capisco
il tuo nome, preso dalla bruciante
intensità dei tuoi occhi, fissi
sull’obiettivo e fermi
nel difendere la città oltraggiata
dall’assedio di gente senza onore.
Hai l’età dei miei alunni,
ragazza di Kobane, loro così fragili
nell’ansia della routine scolastica
e tanto lontani dai colpi di mortaio
che violentano la tua giovinezza smarrita.
Loro non immaginano, per fortuna, la smorfia
che deforma il volto di un coetaneo
e cosa significa al riparo di un muro
aspirare una rara sigaretta
da noi segno di ‘così fan tutti’
per te soffio libero che sfida
un destino a scandire minuti
senza la certezza del domani.
Tristezza non noto nel tuo sguardo
ma un piglio fiero e un fuoco che sfida
l’ignavia del libero occidente
la viltà di schiavisti frustrati.
Il vento scompiglia i tuoi capelli
che agili brindano alla vita
e a chissà quando un’altra sigaretta
perché adesso è ora di combattere
in questo mondo consumato così in fretta.
Ogni mattina pregherò per rivedere
quel bagliore nello sguardo di ragazzi
ignari del tempo che impiega
una sigaretta a consumarsi, lenta
tra le rovine di una città assediata
e la vita che scorre, indomita
con il fumo confuso tra i capelli
e in tasca soltanto la speranza.
In fondo alla notte
(a Sebastiano Vassalli)
Forse assomiglia al nulla la solitudine
il ritrarsi dell’animo in disparte
alla ricerca del silenzio e di immensi
spazi in cui potersi sprofondare
obliando il tarlo del tempo
al cospetto di ciò che sfugge alle parole.
Se sia mare o montagna non importa
il paesaggio è soltanto ciò che ospita
nel cammino che conduce all’erranza
lasciandoci il mondo oltre la porta
a gridare e sopraffarsi nel rumore.
I soli stanno soli e fanno luce
in attesa di approssimarsi alla soglia
liberi da chimere di ogni tipo
per giungere fino in fondo alla notte
che annulla la fine nell’inizio.
E ci ingoierà la pace come il ventre della notte.
Lungo la spiaggia
Se la notte ingoiasse le parole
lungo la spiaggia che il tuo corpo accolse
alla nuda mercé del mondo
solo il silenzio potremmo opporre
allo sdegno della natura spettatrice
di uno strazio che ci inchioda all’istante
come se il tempo si fosse fermato
per guardare in faccia sgomento
un’umanità assuefatta alla morte.
Ma se di parole si nutrono i poeti
è per dirti quanto è svanita la gioia
per sempre da quell’arida spiaggia
che scrivo questi versi spalancati
piccolo Aylan
sull’abisso di un’epoca bastarda.
In attesa di una parola che accolga
l’imperfetta pietà di una carezza
o diradi la nebbia tremante
squarciata dalla luce dell’inizio.
Oppure che ci inghiottisca il silenzio
e che la notte ci giudichi al cospetto delle stelle
noi figli di una colpa innominabile
e di un’ignavia più fredda della tomba.
Tre cose solamente
Tre cose solamente riempiono l’animo
di orgoglio e rinnovata meraviglia
a chi vive esule nel mondo
senza profeti né facili certezze:
la dignità di guardarsi allo specchio
la speranza di non aver fatto del male
e quell’urgenza che ti sale dentro
dando forza a chi ha smarrito il tempo
ancorato nelle zavorre quotidiane
di un non senso in cui sguazzano i potenti
come predatori di lungo corso.
Quando la goccia cinese dei minuti
ti inchioda togliendoti il respiro
la crisi d’astinenza dei poeti
si affaccia per salvarti e incombe
senza che ti abbia dato appuntamento
come puntello che scardina la croce del presente.
E tu ringrazi col sospiro
di chi temeva di aver perso l’anima.
Sulla soglia del mondo
Il mondo scorre sul filo dell’acqua
mentre sbircio le vite degli altri
nella loro costante evoluzione
tra nuove unioni e figli generati
nelle finte pause di un’epoca barbara.
Con disincanto le osservo dal balcone
della mia dimora identica negli anni
scolpita dal vigore del silenzio
compagno di una fiera solitudine.
All’improvviso l’edizione straordinaria
di una Parigi incendiata di follia
sotto lo sguardo
di una storia che trama e gira a vuoto.
E affacciato sulla soglia del mondo
scrivo versi che graffiano la notte
di un secolo abortito troppo in fretta.
L’assassinio dei poeti
(A Pierpaolo Pasolini)
Novembre è il mese più crudele, piomba
impassibile sulle spoglie dell’estate
e un vento amaro tormenta la battigia.
Mese custode di un silenzio avaro
ti appresti ad accogliere il corpo
straziato di un poeta irregolare
in una feroce e matrigna terra
chissà dove l’anima irrequieta.
Perfino le scavatrici sembrano più vere
del teatrino che si leva in coro
ieri come oggi
a elevarlo a mito consumato
o a negarne d’improvviso i meriti
perché si sa, è strano
il destino dei poeti solitari
in questo paese ipocrita e accattone.
Ogni giorno ostinato si consuma
l’assassinio silenzioso dei poeti
uccisi nell’indifferenza generale
di una stupenda e misera nazione.
Nessun rammarico, nessuna meraviglia
è tutto già visto e assimilato
perché i poeti non muoiono mai per davvero
se i loro versi intonano un canto
che lambisce le dimore del sacro
e rompe il silenzio della notte
per giungere all’orecchio di ragazzi
destinati a restar giovani dentro.
E si dirada la foschia nel lungomare assonnato.
L’ignoranza dei poeti
Scrivono molte cose belle
ma nulla sanno di ciò che scrivono
sosteneva Platone sui poeti
vedendo in ciò un difetto di coscienza.
In effetti ignorano gli artefici
la fonte arcana dei loro versi
e l’oscurità che avvolgeva le parole
prima ch’esse varcassero il ponte
tra il crepuscolo e la luce dell’aurora.
Magari Platone non sapeva
che appartenere alla città ideale
non è l’aspirazione dei poeti
a disagio nell’umbratile caverna
in quanto stirpe di eterni esuli
o cittadini di una comune patria
che in questo mondo non potranno mai vantare.
Forse accade come per i figli
dove il nascere non è questione di scelta
ma del brivido che trasmette il caso
o la stupenda imperfezione dell’inizio.
Altrimenti sarà notte
Diamo un senso a questa sera
tra cinema stipati e sguardi persi
nell’oceano di una notte consacrata
al credo imperante del non autentico.
Questo mi sussurrano le anime
dei bambini affogati nell’inerzia
di un’Europa cinica e buonista
ridotta al suo misero fantasma.
Le loro voci giungono lontane
attraverso il mare che rantola nel gorgo
in cui sprofonda carne da macello.
È per dare un senso a questa sera
che scrivo versi sull’orlo dell’abisso
affacciato su di un nero senza fondo
in ascolto di gente senza voce.
Solo così esorcizzo il maleficio
sperando che ci sia davvero
da qualche parte un Dio che prende appunti
altrimenti sarà davvero notte
notte su tutto ciò che avremo amato.
NOTA BIO – BIBLIOGRAFICA DELL’AUTORE
Stefano Colli nasce a Grosseto l’11-10-1970. Si laurea in filosofia all’Università di Siena il 24-2-1998 con 110/110 e lode con una tesi sulla fase mediana della Dottrina della Scienza di Fichte. È docente di ruolo di filosofia e storia al liceo scientifico di Grosseto. Scrive poesie dal 2005 e al momento, oltre ad alcune liriche inserite in varie antologie di altrettanti concorsi di poesia, ha conseguito i seguenti risultati: premio speciale della Giuria (4° posto ex aequo) al premio Penna d’autore 2006 di Torino (sez. silloge inedita); premio riservato ai poeti della provincia di Grosseto per il Dino Bavona di Montepescali, ed. 2007 e 2014; terzo posto al premio “G. Pascoli” 2011, sez. silloge inedita; 2° posto al premio di poesia Il Litorale 2013, sez. silloge inedita; menzione di merito al premio Lorenzo Montano 2015, sez. silloge inedita. Sue poesie figurano nel sito www.aphorism.it. Stefano Colli ha pubblicato due romanzi: L’estate di Emma, uscito ai primi di Marzo 2013 con la casa editrice Europa Edizioni; Qualcosa di insolito, I Libri di Emil, Bologna 2014, che ha ottenuto il Premio speciale della giuria al concorso San Domenichino di Massa. Alla fine di novembre 2014 è uscita la prima raccolta di poesie con le Edizioni Tracce di Pescara, dal titolo Non lasciate che uccidano i poeti, segnalata al concorso Il Litorale 2015. Sono in attesa di pubblicazione un romanzo e una raccolta di poesie.
blog: www.stefanocolli1970.it
FRANCESCO GIUSTI
POESIE
TORNA IL SOLE
Il campanile parte
fora il cielo, Dalla cupola della chiesa formato famiglia
sale il caffè, la luna sbadiglia finestra aperta sulla città
e contagia le case che rispondono
con un'impressionante salve di imposte che sbattono
spaccando biscotti d'intonaco. Gli alberi si svegliano,
prendono la vita dagli antichi eroi sottoterra,
ne succhiano la bellezza con le loro
corali aspettative fittonanti. Amiamo
questi risvegli nella segretezza di una gioia
paracadutata dall'infinito quando il ricordo dello zio
che attraverso mezzo secolo profuma di pane la cucina
si aggiunge all'elenco. Lasciavamo d'un fiato
l'incalzante toneggiare dei cartocci del granturco
sotto il notturno torcersi dei sogni. Sull'aia
il cane Bobby viveva la sua vita
fin dove lo frenava la catena: una dentiera
di taglia nana che non riusciva a sfogare
su di noi precoci urlanti pellerossa
delle prime ore le mattutine voglie.
°°
SEGRETO PER SEGRETO (al vecchio Ezra)
La mappa dei tetti in mano agli uccelli
lanciati sopra la prima linea delle altane, Ci sono
due livelli di vita nella città di melma e marmo sorta dalle acque
e guizzata pesce nell'ornato di smerlettati palazzi
ebbe a dire il forgiatore di canti che riposa dove fa bovolo
il fischiettare del barcaiolo avvitandosi sul buio verde scolpito
dei cipressi. Passò dalla tortura delle gabbie a Pisa
prima di avere una carezza di liquido oblio
dalla zampa del leone tra Marco e Todaro. Siluette aspra
fatta pietra squadrata dalla bora, essenziale trono
del NO USURA per chi viene e si apre all'oro
delle musive parabole o ventose note. Magici, in carne,
i gatti ammalianti e sinuosi come cicisbei,
su quello basso, livello, il primo. Il secondo,
a quelli disincarnati, tenuti su dagli angeli
accorpati giganti sui frontoni delle chiese,
quattro miagolii di tromba e moine
di violino, schizzando, gamba sollevata, su ogni camino.
Conosce Goldoni? Vivaldi? Sa... Vede..., preferisco altro
per il momento, appoggiandosi nobile al suo bastone,
sembra proferire:
due suoni in croce e mille silenzi,
in gola, sciolti in uno flebile ed eterno, la nuvola di barba
all'occaso dal tramonto sospinta, il pensiero
dall'altro lato rivolto, attraverso
la dolcezza amara di Monteverdi ai Frari
e il Bellini della sagrestia nella cui sospensione
lasciò tra le panche il linguaggio dei saperi, e giù, via,
di nuovo pietoso davanti al cuore di Canova,
per poi fuori, dove sempre c'è, virgola nera, una gondola,
incrociare, sbaragliante, del Kublai khan lo sguardo
di fianco al ponte, là sulla riva con dietro, guardiano,
dell'Archivio il vecchio cedro, la fronda più alta
data in sposa al cielo della città
che sa e non vuol vedere.
QUELLO CHE DELLE OSSA
NON SCOMPARE FA LA DIFFERENZA.
C'è stata, ieri,
la possibilità che un paio di scalini si frantumassero
raggiunti dal rumore che dietro la luna
fa a ogni ormeggio la risacca dell'eterno
e interrotta risultasse l'intenzione, la possibilità
del contatto. Oggi, in una penombra di tela grossa,
aiutandomi con le mani davanti al volto,
trovo sulla rastrelliera del tempo la tessitura attenta
dell'immagine precedente al fatto,
i peli che nella postura definitiva crescono per,
se un giorno spostato l'epitaffio tornassimo,
lasciare a chi più non ci aspetta il gioco
del riconoscerci, la forma minuta del seme
con cui l'uccello, defecando, mette in cantiere
l'orma fresca, l'indizio e petali, quattro,
di ragguardevole cosa.
aprile 2015
FACCIO UNA POESIA
Un oggi, oggi, addensato nei cieli
che di luce elettrica sovrastano i bianchi
dei libri e di cui nemmeno inizio l'elenco
oppure ve ne do un piccolo assaggio
bianco latte (classico) bianco calcina bianco innocenza
(assai rara sfumatura). Da questi permeata, in essi
la poesia convoca le celesti potenze della natura
tra un profilo che mi conosce e il nido sull'albero
dove amandosi i colombi tubano senza misura. In mezzo
la finestra fa da frontiera. Di qua
l'incipit che non trova slancio, di là l'angelo
che conta tocchi di vecchia campana
verificando le ali di scorta.
Fatto sta che la poesia non ha sorta
di possibilità così divisa: abbandono la postazione,
salto la tavola, faccio un blitz e spalanco la finestra
ed è questo che capisco, è senz'altro senza confini
che la poesia s'invola cercando lidi chiari
sotto magari anche una sola fetta di luna. Un giorno
se ne troverà orma, il suono avvoltolato
nella conchiglia.
maggio 2015
HAIKU
Suona la campana
scrivo tristi haiku
di dicembre.
°°
Un dito va a sincerarsi
di dente in dente. Non un canto
sull'albero morto.
°°
Sulla tettoia divelta
il tip tap della pioggia -
muri con il muso lungo.
°°
Lacrima il cielo -
a mille a mille fioriscono occhi
sul nero fico in coma.
°°
Le vocine morte nei tubi,
ma le calze sul termosifone
due simpatici gnomi.
°°
Vecchia prostata -
le rattrappite dite del fico
oh se vorrebbero muoversi.
°°
I vetri come occhi
un capovolto corpo di luce -
per un istante c'avevo creduto.
°°
Ben altra pioggia stanotte -
sul cornicione lontano, gli occhi,
mi ci portano.
Luna: schiena o fronte?
Alla finestra pensarti con solo
luce addosso.
°°
Sotto la pallida
signora insonne anche
un solo passo scava la pietra.
°°
L'afa incappuccia
la luna: io e la stanza
un solo vibrante orecchio.
°°
Luna in piena. Grande
il suo sbadiglio. In rotta
anche la più piccola ombra.
°°
Plenilunio. Foglio
immacolato. Che sia esso
il più bel haiku sulla luna?
°°
Sveglio a quest'ora -
e luna luna dice l'argento fuso
su ogni sedia della casa.
°°
Millepiedi ragni scorpioni:
pure loro si interessano
alla luna del mattino.
(1998)
Francesco Giusti.
E' nato a Venezia nel 1952. Si definisce poeta frequentatore e amico di poeti. Scrive
poesia dagli inizi delgi anni '80. E' stato protagonista di mostre, performances,
letture pubbliche. Molte le riviste con cui ha collaborato: L'assioma infranto, ZETA,
Prometeo Fuoco, MGUR, STEVE, Anterm, Esodo, DHARMA, La rosa di Belgrado, Il primo amore,
Lo Straniero (Italia), Coyote's Journal (USA), mini, Orte, e-vento-obiquo (Svizzera),
Infolio (inghilterra), Zeitschrift Fur Alles (Germania), AIOU, DOC(k)S (Francia),
Ilandron (Cipro). Ultimamente però, ha favorito la pubblicazione dei suoi lavori in
NUOVI ARGOMENTI e SMERILLIANA di cui è redattore. Il suo primo libro, INDICE NATURALE,
risale al 1988 (versi che ripercorrono in forma di diario la geografia di un amore
friulano), pubblicato da Campanotto (Udine), alla cui attività artistica e letteraria ha
partecipato per quasi un decennio. L'ultimo, ACCANTO AI DENTI DELL'ETERNO, dicembre 2012
(una selezione di testi che copre un arco di tredici anni di lavoro), è uscito per De
Felice edizioni nella collana i poeti di Smerilliana, curata da Enrico D'Angelo. Con
Rita Degli Esposti e John Gian, è stato redattore di VENEZIAUNDERTIDE, rivista di poesia
e immagini completamene fatta a mano.