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Poesia proposta

 

 

 

V A L E R I O       S A N Z O T T A

Fotografia di Alessia Mafficini
Fotografia di Alessia Mafficini

 

 

 

 

 

INFINITO SERENO AUTUNNALE

 

 

 

 

Premessa

 

 

 

 

di  Maurizio Campanelli

 

 

 

Custode Generale dell’Accademia dell’Arcadia

 

 

 

Valerio Sanzotta nasce come studioso di letteratura latina medievale e umanistica, e trascorre il suo primo decennio di ricerca esplorando l’universo dei manoscritti e delle biblioteche che conservano la letteratura del Quattrocento. Si orienta poi verso la poesia neolatina del Sei e del Settecento, e si dedica alle tragedie di argomento veterotestamentario scritte nel Collegio Romano durante la prima metà del XVIII secolo: sua è l’edizione critica dello Ionathas di Giuseppe Enrico Carpani, il maggior autore di quella vasta e preziosa produzione letteraria. Percorrendo le brulicanti strade della poesia latina dei Gesuiti, Sanzotta è arrivato ad occuparsi dell’Arcadia, a cui ha donato raffinati studi sulla lirica latina di tema religioso e devozionale. Questo gli è valso l’annoveramento in Arcadia, di cui è socio col nome pastorale di Callimaco Neridio. Accanto agli studi di filologia e poesia umanistica e neolatina, Sanzotta ha coltivato una lunga e appassionata attività di musicista e cantautore, intrapresa fin dagli anni della prima adolescenza. Nel 2020 è uscito il suo ultimo album, Naked, in cui compare Ho visto tutti gli occhi, una delle poesie che figurano in questa raccolta.

 

Nel loro perfetto nitore metrico, i testi di Sanzotta delineano un itinerario di vita in poesia. Si può partire dal tema delle case abitate dal poeta, che divengono luoghi dove lo spirito torna, ripercorrendo un itinerario di perdita, iniziata fin dai primi anni, quando “l’occhio raspa il muro /e non si avvede dell’infanzia / in cerca di un’opaca identità”; il trascorrere e lo sparire delle case, della vita che in esse ha preso forma, configura un “morbo irrevocabile”, articolato sullo sfondo di un tempo divoratore “con il suo plenario avvolgersi, / che fa dei lunghi secoli il suo grembo” (un tema, quello della perdita dei luoghi della vita, che torna nella bella traduzione da Kavafis, Il dio abbandona Antonio). Ciò che non si perde è la memoria, vissuta come condanna, pronta com’è “a svelare che la vita / è un cono d’ombra, un ripostiglio d’ansia”, qualcosa “da cui non mi riparo, non mi salvo” (Natale 2019). La vita è dipinta come una teoria di domande che restano senza risposte, fin quando “Si schiude all’improvviso in coincidenze / la porta misteriosa del destino / laddove l’uomo inutilmente batte”; da quella soglia non affiorano se non “echi degli strappi / dell’anima”, dei quali l’uomo resta tuttavia immemore. Ne deriva una solitaria sofferenza dell’io, che richiama altre individuali sofferenze, ritratte e scolpite nel fisico di figure lontane, in apparenza dimenticate, che riaffiorano nei versi a testimoniare una ricerca di solidarietà, di fratellanza. È il canto della sofferenza universale, sfociante in un destino di morte che accomuna tutti gli esseri viventi, il canto di Mattatoi (“Vale a suggello il dolore, / la spenta vanità del nascimento, / il polverio che tutti ci appariglia”), in cui un Dio che presiede al rinnovarsi della vita viene opposto all’iniquità della morte.  Se in Lettere dal treno il riaffiorare nella memoria di una “bambina magra / le scarpe senza lacci e braccia ossute / e il cuore senza fiato che non dura”, che crea “un discanto / di pena”, sfocia in un amaro monito (“ora soltanto morde i nostri visceri / quella muta vergogna dei suoi simili”), in Ho visto tutti gli occhi il poeta racconta una storia di sofferenza domestica subita da una donna che si indovina mater familias e anima di una comunità, la cui malattia e morte divengono una morte collettiva, estesa a “noi esclusi dal bagliore della luce”. È un plurale che di nuovo si comunica dal poeta al lettore, oltre la serie finale di ipotetiche dell’irrealtà, nel ribadire un legame che la morte non può dissolvere: “Ora che rivedrai quell’altro sole / noi rivedremo in te la nostra ombra”. Una possibilità di salvezza oltre l’ancestrale, eterna vicenda di colpe e condanne che caratterizza la vita e la storia degli uomini, è adombrata in Soteriologie, nel corto circuito tra l’eternità di tutti e l’attimo dell’individuo: “paga un debito / di vita millenaria un lampo, un palpito / nell’ipogeo e un fuoco mite dentro / e la sostanza avvinta nell’amore”. È in questa poesia che emerge con più chiarezza la vena cristiana, nutrita anche da un intenso rapporto con Mario Luzi, il poeta novecentesco a cui Sanzotta sembra più vicino, anche come tornitura del verso. La raccolta include anche un genere che si poteva credere estinto, l’epitalamio, trasformandolo nel canto di una rinascita delineata nei gesti di un bambino, la cui voce “si leva / più fertile del fuoco della terra”; donde l’augurio finale agli sposi che si estende ad abbracciare il poeta e il suo lettore e diviene conato salvifico (“Resti l’azzurro, fuga verso il chiaro / e il vostro amore (lo ignorate, forse) / che qui ci avvince e al vortice ci scampa”). È proprio all’amore che viene affidata una finale possibilità di salvezza nei versi di Silenzio, ritorno: l’uomo condannato a rimanere ignaro di un destino sentito come forza ostile, trova nell’amore la forza per disinteressarsi di questo limite e superarlo, con un paradosso solo apparente, nel destino, o meglio nel sodalizio, della coppia: “Allora, nel nostro unico destino / tutto avrà senso, vita e compimento”. La donna amata diviene così un angelo salvatore, quotidiana epifania che esorcizza la paura ineluttabile del nulla: “tu tendimi la mano sulla soglia, / salvami da quel sonno, non voltarti”.

 

 

 

M.C.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Ho visto tutti gli occhi

 

e i tuoi sono contratti in un gomitolo di pena,

 

sulla soglia all’estremo della casa.

 

Con le tue mani bianche del pane di domani,

 

senza nome, hai pregato e digiunato,

 

celando la ferita nella gola,

 

scuotendo la tovaglia, accettando la collera ed il vino,

 

per lasciare la vita di nascosto,

 

sopra le voci opache degli assenti,

 

sopra il breviario afono degli umilianti

 

e della colpa postuma, delle tardive ceneri,

 

come relitti inani sulle rive del dopo e del domani.

 

Adesso spilli e spine e vetro e chiodi, seduti sui gradini,

 

piange chi dalle tue ossa levatrici

 

hai donato all’angoscia. Avvinti dalla forma

 

e più non innocenti, beati sotto i rami del castagno,

 

ci rivedremo un giorno, in quella folta folla di reietti,

 

noi più aggrinziti, noi più morenti, noi mai più ritrovati,

 

noi esclusi dal bagliore della luce.

 

Se solo un suono, almeno, si sentisse,

 

nella casa di plastica e calcina,

 

se nuvole listate come i brani delle nostre bandiere

 

accompagnassero con inni il passo pesante delle salme,

 

se veleggiassero veloci, a riva, i cormorani,

 

tra i tuoni delle onde,

 

in questa pioggia che spavalda scroscia,

 

noi pure, cui si velano le ciglia,

 

per cui solo il pensare è riempirsi di dolore,

 

ti crederemmo ancora e bruceremmo ancora,

 

redenti dalla notte che ritorna.

 

Ora che rivedrai quell’altro sole

 

noi rivedremo in te la nostra ombra.


 

 

 

 

Lettere dal treno

 

 

 

La bocca si difende con la mano,

 

dietro la pelle che si increspa, ruvido

 

riparo delle labbra, è il corollario

 

di quanto ravvivava di rossore

 

e ora si spegne e scava e storce gli occhi

 

in cerchi di pallore immedicabile.

 

 

 

Mi viene incontro una bambina magra,

 

le scarpe senza lacci e braccia ossute,

 

e il cuore senza fiato, che non dura.

 

E non dolcezza d’ombra, ma un discanto

 

di pena ha quel ritrarsi in dormiveglia,

 

come lo sguardo a brividi, a frammenti,

 

come l’idea di lei che muore dentro.

 

 

 

Forse in un’altra vita era pudore:

 

ora soltanto morde i nostri visceri

 

quella muta vergogna dei suoi simili.

 

 

 

Già apparsa su «La Repubblica», 25 luglio 2021.


 

 

 

 

 

 

Natale 2019

 

 

 

La memoria non si rivela a salve,

 

senza lasciare crediti di piaghe,

 

di sangue nero a fiotti, senza colpi;

 

e quella mia che ancora si dirama

 

dalla scuola delle suore, da insonnie

 

siderali nelle notti d’infanzia

 

(con lacrime a presagio delle cose)

 

in che magma d’oscurità si intorba,

 

sgomina le mie difese di vivo?

 

 

 

Vedo tornare i miei ricordi a sciami

 

(mio padre con il suo cappello a lobbia

 

e i guanti gialli, la mia discesa al gorgo),

 

quasi prossimi a svelare che la vita

 

è un cono d’ombra, un ripostiglio d’ansia.

 

Si innebbiano sui transiti montani

 

le stelle opache, la luna esausta e spenta,

 

lungo le spiagge anguste del Tirreno

 

si aggrumano in ristagni di vetraglie

 

naufragi d’alghe e le stagioni tutte,

 

da cui non mi riparo, non mi salvo.


 

 

 

 

Soteriologie

 

 

 

Vaga per l’abitato avanza muta

 

la notte senza luce, tutta intrisa

 

di rotte geometrie degli occhi tesi.

 

Portiamo dentro il segno di Caino.

 

 

 

Dal duplice fluire dello strappo,

 

dal primitivo, livido albeggiare,

 

discendono ambedue le colpe a carico

 

degli avi, il moto complice del male

 

e nell’indifferente replicarsi

 

delle generazioni che dissolvono

 

la vera immagine del padre assente.

 

 

 

Poi quando a mani giunte danzeremo,

 

nemici del destino, nella cenere,

 

dietro questo spettrale fazzoletto

 

a goccia dopo goccia un acquafragio

 

esonderà sul tempo della storia

 

e il passato si rimarginerà

 

ai nostri gioghi posseduti in pegno.

 

 

 

E non si avranno enigmi per le spine

 

né il velo che si squarcia; paga un debito

 

di vita millenaria un lampo, un palpito

 

nell’ipogeo e un fuoco mite dentro

 

e la sostanza avvinta nell’amore.


 

 

Si schiude all’improvviso in coincidenze

 

la porta misteriosa del destino

 

laddove l’uomo inutilmente batte.

 

È un vento d’altopiano,

 

che viene dalla notte,

 

per noi che ci crediamo nati invano.

 

 

 

Ininterrotta pena che ci logora

 

nel mare estremo, oscuro, è il duro cambio

 

che ci impone una vita in privilegio.

 

E come il primo amore ci ha legati

 

ora ci smembra un domandare inane,

 

l’esile voce in arsi, che si lacera

 

in quello che è ingannevole comprendere.

 

Immemori restiamo

 

agli echi degli strappi

 

dell’anima che si dilava a brani:

 

è il transito servile, l’erta ripida

 

su cui si deve a forza risalire.

 

 

 

Resta il suo nome limpido tra i popoli,

 

oltre il ricatto iniquo della legge,

 

luce ai nostri passi la sua parola,

 

più forte in questo tempo, in questo fuoco. 

 

 


 

 

 

 

Silenzio, ritorno

 

 

 

A C.

 

 

 

Tu ed io, per quanto può contare

 

esperti a risalire la voragine,

 

fino a che punto d’anni attenderemo

 

che durino le braci oltre la fiamma?

 

Il sole batte a gloria sul selciato,                              

 

abbaglia gli elementi, svela gli attimi

 

che serbano per noi memorie care

 

dei luoghi dove insieme fummo assolti,

 

da subito, in amalgama e in amore.

 

 

 

Non sai se quell’oscuro che ci agguaglia

 

se quello sbranco innato delle cose

 

ci porterà negli infiniti mondi,

 

se non ci apparterrà la trasparenza

 

eterna del primissimo albeggiare,

 

quella celeste chiarità dell’anima

 

che si ripete notte dopo notte

 

e inverno dopo inverno rifiorisce

 

con la pietra scalzata dal sepolcro.

 

 

 

Mantieni vivo il filo che ci lega,

 

quando saremo a dimora nelle ombre.

 

Allora, nel nostro unico destino

 

tutto avrà senso, vita e compimento.

 

Se serreremo gli occhi nel letargo,

 

insieme, nello stesso cedimento,

 

tu tendimi la mano sulla soglia,

 

salvami da quel sonno, non voltarti.

 

 


 

 

 

 

Il dio abbandona Antonio (trad. da Costantino Kavafis)

 

 

 

A Diana Tejera

 

 

 

Quando si udrà di un tratto, a mezzanotte,

 

un invisibile tiaso passare

 

tra musiche sublimi, tra canzoni,

 

per la fortuna che oramai dilegua

 

e per le azioni votate a malasorte,

 

delusa la tua vita e i tuoi disegni

 

tutti, a lamenti inutili non cedere.

 

 

 

Come da tempo pronto, come un prode,

 

salutala Alessandria, che tu perdi.

 

Non dire è stato un sogno, non illuderti

 

che si ingannò l’udito, invano speri.

 

 

 

Come da tempo pronto, come un prode,

 

come si addice a te, che ne sei degno,

 

risoluto al davanzale accòstati,

 

e commosso alla musica del tiaso,

 

senza preghiere e vili querimonie,

 

salutala Alessandria, che tu perdi:

 

tra gli strumenti eletti del corteo

 

un’estasi suprema ti accompagni.


 

 

 

 

Mattatoi

 

 

 

Il rimosso è per tutti il non veduto.

 

Ma non per me, che da un’infanzia a grappoli

 

fa visita un ricordo – riemergendo

 

dall’infimo, a discanto, quell’anonimo

 

martirio sulla soglia del macello.

 

 

 

Come si torce e trema e scarta e impenna

 

quell’obolo di nervi, il grido estremo,

 

la vena palpitante e ingorda, prima,

 

di inconsapevole vitalità.

 

Poi resta esangue, però la sostanza

 

non muta.

 

 

 

Vale a suggello il dolore,

 

la spenta vanità del nascimento,

 

il polverio che tutti ci appariglia.

 

A prova viene il morbo che ci decima,

 

se Dio sta nella foglia, nel ruscello,

 

nell’infinito sereno autunnale,

 

nel lento replicarsi delle cose,

 

di ogni monotono avvicendamento.

 

 

 

Ora sappiamo che la legge è giusta:

 

sprizza d’iniquità chi può patire

 

 

 

che il fiume si prosciughi,

 

che il fiore si recida,

 

la tua agonia sovrana,

 

bestia che muori,

 

sorella nella carne.


 

 

 

 

La casa (da ‘Diario della pandemia’)

 

 

 

La casa che ho abitato nel rigoglio, 
nell’eccitata rotta in cui si abbrivia
il tempo, in cui si assomma sogno a sogno,
– la casa di via Norcia,
dove ho riconosciuto
nell’ombra ancora immobile la sagoma

 

dell’uomo che si lancia nella tromba
delle scale. E l’occhio raspa il muro,
e non si avvede dell’infanzia 
in cerca di un’opaca identità.

 

La brulicante ansia dell’ossimoro, 
– vicolo San Giuliano, che si stende
sul crinale di montagne di immondizie,
dove la carne mi era complice 
ma mi era nemico il seme
del medesimo male di ogni giorno.
In ogni casa c’è un giardino di mestizia 
e quella la rammento
perché è durata un po’ più a lungo
– nel mio ritrarmi obliquo – la caligine 
del mio languore limaccioso,
sempre in ritardo sul principio e sulla fine. 
Il nuovo mondo mi appariva esangue
in quel letargo, attonito, del cosmo.

 

Con fedeltà, con calcolato affetto
per l’ingiusta prigionia non risarcita 
a via Plinio sono andato sui vent’anni. 
Nei gomitoli di polvere, a parità di fuoco,
al bando di ogni mutamento, 
nella memoria ancora si sbalestrano
tracce di eternali cattività.
Ma è memoria artificiale, in cui si amalgama 
l’improvvida alchimia del non sapere 
al certosino rammendare,
al taciturno passo sopra il guano,
a ritroso nella valva della storia. 

 

Ma bella più di tutte
è la casa di campagna, 
che inverte l’alto e il basso
e scambia l’alba con la sera.
Il sole valicando i monti
con la tempra dei suoi barbagli immàcola
i labirinti della notte, è il solco
tra la morte e la vita ancora informe, 
che ridà pace al sonno degli insonni. 
Non è la sola che ho lasciato,
Olévano,

 

ma è la sola dove si incaglia il cuore
nel presagio
che dopo volti e suoni
anche di quella arretrino i ricordi.

 

 

 

Il morbo irrevocabile ci giunge 
al séguito, di strame in strame,
di altri infiniti morbi, a fare casa
questa che ancora
non comprendo, 
in via Cardano 30.
Io la destino,
come le altre, al macero e alla ruggine,
al tempo con il suo plenario avvolgersi,
che fa dei lunghi secoli il suo grembo.


 

 

 

 

Epitalamio

 

Per le nozze di Alessandra ed Emilio

 

 

 

Ora, settembre, è il mese del pensoso

 

congedo dalla noia, dalle eterne

 

canicole d’estate, un nodo d’ansia,

 

un grumo che si scioglie perché tutto

 

di nuovo ricominci. Dal giardino

 

la voce di Giovanni che si leva

 

più fertile del fuoco della terra

 

e con stupore acerbo insegue il volo

 

a guizzi delle falene al crepuscolo,

 

solo nella penombra, sotto il portico.

 

 

 

È il senso delle cose che ritorna, 

 

come sempre, in un atomo di luce,

 

nell’ora delle confidenze a cena.

 

E non è forse, benché fioca ancora,

 

quella luce una luminosa pace?

 

 

 

Vivete una felicità senz’ombra,

 

a scherno della Parca che contende

 

a noi la vita, il filo, il cielo e l’oltre.

 

Resti l’azzurro, fuga verso il chiaro

 

e il vostro amore (lo ignorate, forse)

 

che qui ci avvince e al vortice ci scampa.

 

 


 

Valerio Sanzotta nasce a Roma l’8 marzo 1979. È ricercatore presso il Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien di Innsbruck e si occupa prevalentemente di filologia medievale e umanistica e di letteratura latina di età moderna. Parallelamente all’attività di studioso, Sanzotta coltiva da molti anni un’intensa attività di musicista e cantautore. Ha pubblicato tre album: Novecento (Capitol/EMI, 2008), Prometeo liberato (VREC/Audioglobe, 2018), Naked (oltre lo specchio) (VREC/Audioglobe, 2020).

 

Fotografia di Stefano Santini
Fotografia di Stefano Santini

A N T O N I E T T A    B O C C I

Fotografia di Mauro Scagnol

 

 

Poesie inedite e edite su rivista

 

 

 

 

SEDUTA

 

 

Sarebbe altrimenti permesso

rifuggire oppur soddisfare

dell’anima un tale tumulto.

 

Ma sembra che qui sia la ‘cura’ –

sfiorare l’essenza dell’Altro

e mai afferrarla davvero.

 

In questo spazio e questo tempo,

è concesso solo sedere

con ciò che nel cuore già vive.

 

 

 

 

L’ETERNO

 

 

Per venire ad incontrarti

percorro l’arduo sentiero

dentro il giardino dei sogni –

quelli difesi e nutriti,

quelli sfioriti ed amari,

quelli lasciati a morire.

 

Canti dolorosi sulle

labbra, fra le braccia un fascio

di recise attese – In questa

pace perfetta domando

a te, terreno miraggio,

la verità sconosciuta.

 

Mele silvestri s’un cielo

di fredda purezza invitano

alla fede. Chiudo gli occhi –

Ecco che tu puoi vedere,

cogliere un pianto d’amore,

gustare il suono di un nome!

 

Poi me ne resto in silenzio,

dentro l’abbraccio pungente

d’una acquisita coscienza –

nello splendore d’aprile,

noi siamo parte del vento

che danza con la betulla.

 

 

 

IN MARE APERTO

 

 

A frotte, come esiliati

chiedenti asilo, parole

affollano una coscienza

angusta e sbracciano verso

la riva d’un senso certo,

d’un valore decisivo.

 

Benevole teorie

– o carnefici incoscienti –

vi colgono grida antiche,

inascoltati bisogni,

schemi ripetuti dentro

labirinti senza uscita.

 

In balìa di sé resta

la sincerità mortale

di quei segni, risoluti

a denunciare una smania

assordante a chi salvarli

non vuole ed ormai silente

 

li annega.

 

 

 

 

VISIONI DAL DI DENTRO

 

 

È essenza, quella voce inattesa

È palpito, l’incredulità mia

Sogno – velato, pauroso, tremante

 

È velluto, quella mano vicina

È arresto, il mio battere d’ali

Fusione – forte, arruffata, reale

 

*******

 

È amaro, l'immenso tuo strappo

È ritardo, l’ansante mio fiato

Piena – sanguigna, furiosa, bruciante

 

È grembo, quel tuo effluvio distante

È vetro, questa mia nuova casa

Chiaro – gelido, accecante, sofferto

 

*******

 

È pianto, quel cantare tuo lieve

È bacio, quel tuo sfiorarmi il piede

Miraggio – bagnato, acceso, tenace

 

È amore, il tuo abbraccio di lana

È spasmo, questo treno che mi scuote

Neve – temuta, obbligata, infinita

 

 

 

 

 

MEA CULPA

 

 

Esistevi in un’anima che ardeva freddamente

Ansimasti nell’indifferenza dell’Universo

Stretta forte ad una mano pronta alla diserzione

 

Dormivi cullata da due braccia sfiduciate

Ti avventasti contro un muro sordo al tuo furore

Inseguendo aliti d’amore foriero di lutto

 

Posavi ignara per ritratti brillanti di buio

Navigasti la guerra disperata dell’attesa

Piangendo i baci persi con conati di silenzio

 

Confidavi in un grembo dalle promesse illusorie

Svenisti a una crudeltà offensiva della Vita

Soffocata da un futuro che ti avrebbe trafitta

 

Marciavi spedita verso brucianti rimembranze

Respirasti con tenacia l’infezione del mondo

Cedendo per sempre alla mia scelta scellerata

 

 

 

MATTINI D’ATTESA

 

 

Nel buio denso il corpo è greve, come pietra al collo.

Pochi passi tra me e la scenografia disposta

per rinviare il desolante commiato dal riposo.

Tutto allestito – la cuccuma pronta al giornaliero

brontolio, la chicchera lasciata in vuoto indugio,

il cucchiaino solitario lì sul tovagliolo.

 

La luce cola dalle tende dischiuse, affettuosa

m’incoraggia a completare il transito dal pianeta

del prendere a quello del dare. Dal nulla riaffiora

un’immagine cara, il cestino del pranzo ai tempi

dell’asilo – spettatore quotidiano di giochi,

immancabile consolazione nella disfatta.

 

M’arrampico lungo la scala, illuminata adesso

d’un bagliore caldo – in cima mi aspetta una promessa.

Sedendo al margine di un letto sempre addormentato,

trovo un aroma fuggito a mia insaputa. E ancora

mi coglie l’andata gioia semplice di sfiorare

questo viso e quel grembo, sussurrando C’è il caffè…

 

 

 

POST MORTEM

 

 

Quando, afflitta dalle imboscate di coloro

avversi all’indulgenza, ritorno alla tua

targa di legno inerte e fradicio, mi piace

interrogare il mio futuro svanito –

Se domani salpassi per un’esistenza

pura, fatta di sole e di promesse, verrei

di nuovo a posare rami in fiore su questa

mia fredda, disincantata terraferma?

 

Strappando erbacce sotto il selvatico melo

in un presente ora avvizzito, mi sorprendo

capace di sognare un giorno che rituali

di quiete dall’anima più non pretenda –

Potrò mai stemperare, vivendo, la fitta

acuta che ancor mi afferra il collo e mi spezza

il respiro e mi lascia moribonda presso

la tua casa d’albero, piccola mia?

 

 

 

 

 

INCROCI OBBLIGATI

 

 

Lei è ape di sé ignara,

ali cristalline dal peso

micidiale, ventre strappato

via ancor prima dell’Errore –

Volando eterna dentro un cielo

d’aquiloni confusi, insegue

i suoi sfuggevoli E se invece...

 

Tu sei bacca di neve, fiero

grappolo di spensieratezza,

fiori bianchi concessi in dono

a chi era disposto a rischiare –

Le tue impazienti capriole

di risa son prova carnale

d'imperscrutabile destino.

 

Lei è gioia che strazia, vuoto

a cui mi aggrappo mentre affogo

nella memoria di nottate

di cemento. Tu sei splendore

che sorge verso Nord, azzurro

sguardo in un corpo eneo, figlia

d’un sogno che non mi appartiene.

 

 

 

 

INAMOVIBILE

 

 

La tua lista d’incombenze urgenti

è sbiadita ancora nel sole amaro

d’un torpore remoto, atrofizzante.

 

Sulla carta increspata da una tazza

che perde, il blu di china torna in vita

in brucianti lacrime al gelsomino.

 

Lo lascerai asciugare di nuovo,

languido bagnante di questa estate

già conclusa e spessa di nostalgia.

 

 

 

 

TRA UNA FITTA E L’ALTRA

 

 

La mia ricerca di coscienza

è un boccheggiare di continuo

cercando invano di riportarti

nell’intimo dentro ad un respiro.

E la saggezza degli altri è come

grido di mostro che non s’accorda

con la partitura dell’aiuto.

 

La mestizia di città quest’oggi

non ospita che le membra della

nostra anima, il resto ormai da tempo

s’è decomposto. Mi volgo dunque

a ricordi d’amore, sembianze

di promesse che furon credute –

Davvero l’esito ignoravamo?

 

Di tanto in tanto, l’alba ha il gusto

degli occhi che coi baci evitare

non sapemmo. Ma come previsto

non tarda il tempo in cui questo cuore

si stanca di morire e depone

le armi all’ennesima compressa

 

di buio.

 

 

 

 

NELLE CASE DEGLI ALTRI

 

 

Vagiti cantano alti

dentro culle di luce,

non sbiadiscono muti

nelle foto di un giorno.

 

Nell’aria c’è sfacciato

profumo di domani,

non polvere a valanghe

che congela l’odierno.

 

Non si resta invischiati

in resina di ieri:

c’è ronzare di Vita,

pungente ansia di gioia.

 

Nessun cerotto sulle

vesciche dell’amore:

si rompano le sacche,

ne sgorgherà coraggio.

 

Respirare è un atto

riflesso, non fatica

da compiere ogni volta

si veda un carrozzino

 

mai usato in cantina.

 

 

 

 

TANTO MIGLIORE DI ME

 

 

Respira tu, dentro questa

lana di vetro – che assorbe

una furia sacrosanta

ed un’assodata colpa

silenzia, la fame della

coscienza smorza e attutisce

il rifiuto d’ogni resa.

 

E se – con occhi infuocati,

bronchi polverosi, pelle

graffiata via – su questa

angoscia oserai posarti,

piangerai certo i confini

rassicuranti di vecchie

occasionali fatiche.

 

 

 

 

SUL LIMITARE

 

 

Per giustificare l’apatia,

di sera ripasso attentamente

le tue dubbie frequentazioni –

i malati mentali, i codardi

in comoda fuga dai doveri,

i peccatori che non potranno

sperare nell’ostia del perdono.

 

Nei frantumi di sonno alternati

alla coscienza, non sono in grado

di schivare domande moleste

come mosche intontite dal caldo –

E se invece tu fossi riprova

di saggia Indifferenza? Se fossi

somma affermazione dell’Umano?

 

Quando nel tepore del mattino –

l’anima sgualcita di rimpianto

per l’ennesima occasione persa –

fantastico sulla meraviglia

della tua voce, mi domando

in che lingua avresti sussurrato

Amore, ti aspettavo già da un po’.

 

 

 

 

UN SOGNO

 

 

Nella veglia s’insinua

una disperazione –

le lame del reale

riducono a brandelli

lo sfuggevole incontro

fra desideri umani.

 

Il volto si contrae,

le palpebre serrate,

disabili le orecchie –

tutto l’essere aspira

ad inseguire un’ombra

d’utopico ricordo.

 

È nel sonno soltanto

che dimora il senso – una

bocca che della vita

ride, mentre la mano

ricopre d'immortale

terra un’eco di figlia.

 

 

 

 

SCIVOLAMI PIANO

 

 

Non sono mie quelle gambe

che scorticandosi s’inerpicano

su per l’inespugnabile – Io

remigo in acque piatte, verso

sicure ordinarie vittorie.

 

Né più mi appartiene la mente

che serena soffoca il dubbio,

sprezzante dell’umano errare –

Oggi tremo di fronte al bivio,

fantasma dell’irreparabile.

 

Onde di mare alle caviglie

s’avvinghiano, lingue di cane

mordono le mani – La vita

non intende ancora concedermi

il riposo, tu nondimeno

 

sai già come sedermi accanto.

 

 

 

FIGLIA MIA CARISSIMA

 

 

Il pacco inviato da casa

non è mai giunto, al confine

ne avranno intercettato

l’illecito contenuto.

Accoglienza affine spetta

persino agli esseri umani.

 

Non chiamano più gli amici

da Londra, saranno stanchi

di sognare d’incontrarsi.

Respirare resta ancora

una lama puntata alla

gola reciprocamente.

 

Il quinto aborto spontaneo

è stato la settimana

scorsa. L'autunno si posa

sull'acero giapponese,

sulla tua sepoltura,

su questa voglia di vita.

 

 

 

 

 

Nota biografica

 

Linguista per passione, formazione e professione, Antonietta Bocci ha trascorso la sua vita adulta in uno spazio diasporico a cavallo fra quattro paesi e tre continenti, lavorando come insegnante, traduttrice e interprete. Scrive poesie in doppia lingua (l’italiano natio e l'elettivo inglese), seguendo un procedimento per cui le due versioni si contaminano a vicenda, anziché essere solo l’una la trasposizione dell’altra (è in corso anche un’auto-traduzione in lingua cinese, con revisione di Xu Lilong). I suoi scritti sono comparsi su riviste e blog letterari italiani (Poesia Ultracontemporanea, Carte Sensibili, Margutte, Frequenze Poetiche) e statunitensi (Coffin Bell, Snapdragon, Gyroscope Review), e sono stati finalisti o segnalati per merito in concorsi poetici in Italia, Europa e Cina.

 

 

 

 

 

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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