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Letture  oblique 3

   Esistono molteplici ragioni per volersi appropriare di questo agile libro di Giancarlo Baroni (Come lucciole nel buio, puntoacapo Editrice). Ad iniziare da quella che può parere la più futile: la intrigante bellezza della veste tipografica. La copertina, la quarta di copertina e il dorso riproducono un particolare di un quadro di Cezanne (Le mele e le pere): una densa velatura dai toni autunnali, freddamente carnali e un po’ avvolgenti, con quella luce impastata e pingue che sembra provenire dagli oggetti stessi. Quasi ti costringono, quelle tinte seducenti, ad aprire il volumetto, a perderti nella lettura, complice l’invitante filo d’Arianna delle  denominazioni dei capitoli, a partire dal sottotitolo: Dieci riflessioni sulla vita e sulla letteratura. Ma Cezanne potrebbe costituire soltanto la sontuosa porta d’accesso slegata dal resto dell’edificio. In realtà ha diffuso i suoi colori cremosi e olivastri nelle stanze della casa. Il pittore non ha forse scritto che «i colori sono l’espressione di questa profondità alla superficie, salgono su dalle radici del mondo.»? E Baroni, con questo libro, sembra proprio guardare “alle radici del mondo”, spesso negli anfratti bui dell’ontologia, in attesa che dal profondo risalga la luce fredda e intermittente di sparute lucciole a gratificare di un significato, almeno provvisorio, il nostro esistere e l’umano destino. Oppure, col medesimo atteggiamento conoscitivo, si interroga – e ci interroga - su cosa sia l’arte e che ruolo giochi tra i bisogni dell’uomo e nella società contemporanea.

 

   Baroni potrebbe condividere le parole con cui si aprono gli Essais di Montaigne: «perché è me stesso che ritraggo […] sono io stesso la materia del mio libro». Si tratta infatti di «un libro di autocoscienza laica», per dirla con Auerbach, un’opera nella quale lo scrittore, con esibizione di umiltà, ci presenta «buona parte di quello che ho imparato» in una lunga vita e che condivide col lettore quasi con pudica ritrosia e non senza  inconsci propositi catartici e di autoanalisi. Questa operazione sfida un poco le convenzioni culturali, dà importanza a quello che, in tempi di rimozione e saperi fluidi dai bordi indefiniti,  pare non importare più e riscopre un mondo, prossimo e accessibile, ma il più delle volte lasciato giacere nella penombra perché nessun raggio luminoso (fatta eccezione per la lettura fideistica) può rivelarlo intero.

   E’ appunto l’opera, lieve e densa ad un tempo, di un autore curioso dei molteplici aspetti del reale e che non si vergogna di scandagliare i misteri dell’esistenza, di tenere gli occhi bene aperti davanti alla voragine oscura della morte, di chiedersi il perché del dolore e della gioia, di indagare i limiti della conoscenza e le ragioni dell’arte. Baroni non ha alcuna verità preconfezionata da propagare, interpella se stesso, esibisce con fierezza i propri dubbi, le proprie inquietudini esistenziali, dichiara i propri amori. Emerge limpida la sua passione per la letteratura e in particolare per la poesia, la più inutile e la più indispensabile (e faticosa) delle forme d’arte, nata, come ci ricorda Fernanda Romagnoli, dal connubio tra «colomba e serpente», magari «malattia endemica e assolutamente incurabile», come sosteneva Montale, ma strumento privilegiato, per Baroni, per interrogare il mondo ed esserne interrogati. Assieme al filtro letterario che l’autore sembra utilizzare per leggere la realtà e il proprio accidentato paesaggio interiore, traspare pure, al di là della discrezione, il rimorso velato ma sentito del peccato di poetare anziché vivere.

    Inseguendo queste Lucciole, il lettore troverà una serie cospicua di ricordi letterari, citazioni di autori che vanno dall’antichità ai giorni nostri. Non si tratta di un esercizio artificioso e meramente enciclopedico, ma di un processo naturale: quelle immagini fanno parte della coscienza di Baroni, del suo panorama interiore, del giardino fiorito o riarso dei suoi ricordi e delle sue passioni  allo stesso modo dei suoi sentimenti; perciò la sua realtà intima, al momento di dichiararsi, ricorre naturalmente ai ricordi letterari. Tornano in mente le parole di Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori a proposito del rapporto con gli scrittori antichi: «dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli delle ragioni delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono». Da Omero a Caravaggio, da Conrad a Patrizia Cavalli, Baroni sembra voler stabilire un ideale contatto fraterno con artisti e letterati, persino cantautori, e interrogarli, condividere passioni, insicurezze esistenziali e comprendere come essi hanno offerto provvisorie, personali risposte agli stessi interrogativi che assillano la sua coscienza. E nel rivivere entro la consolidata impostazione di un classico – o di un autore contemporaneo - la sua esperienza interiore trova come una conferma e una legittimazione solenne e nello stesso tempo una chiarificazione e una sorta di purificazione.

  Infine, questo volume «a la gaetta pelle» sembra volerci suggerire che di questo vasto universo, del significato del nostro esistere, noi cogliamo talvolta sparute luci fredde, come quelle delle lucciole, che ci danno l’illusione di piccoli barlumi che vincano il buio. Ma quei puntini persi nell’oscurità non riscaldano, non illuminano, sono leggeri e ingannevoli al pari della bellezza. Osservati però nelle notti d’estate, accrescono il mistero incommensurabile del mondo e forse sono lì per dirci che l’intimo segreto del loro vagare  sfidando le tenebre è il volo stesso.

                                                                                                               Fabrizio Azzali

Francesca  Anselmi, Nel lento fluire delle ore, Edizioni Gazebo

Nel lento fruire delle ore è la seconda pubblicazione di Francesca Anselmi per le edizioni Gazebo.  Conosciamo bene il lavoro attento e qualificato nella scelta della poesia da parte della poetessa Mariella Bettarini. La copertina è impreziosita da una fotografia di Gabriella Maleti, fondatrice lei stessa delle edizioni.

Questa raccolta di Francesca Anselmi racchiude ed esprime un fervore e fermento di parole, attimi fugaci in cui il verso nasce da un silenzio taciuto.
La poesia dell'Anselmi, traspare un bisogno di rinascita, un desiderio di ricostruire una "nuova Francesca".
" Dalle rovine del mio essere
   ho ricostruito la mia essenza.
   senza un progetto, senza una scadenza,
   mi sono ridisegnata.
  Inconsapevole, disattenta, mutavo.
  Inconscia artigiana di me stessa,
  creavo ciò che mai ero stata. "
Un continuo lavorare nel proprio inconscio, attraverso un viaggio interiore ricco di domande, di propositi. Nella ricerca "del senso e del non senso". Un navigare nei ricordi del passato: siamo per poi/ non essere più gli stessi./ Mentiamo evolvendoci,/i gusci dei nostri cambiamenti./Ci comportiamo/ nel lento fruire delle ore/ e il gioco col tempo/ diviene inevitabile.
In queste poesie si legge un persistente bisogno di speranza, di una luce:
Fulgide stelle
siete nella notte
luce che conforta.
Se pur nascoste
la vostra eco luminosa
arriva a me.
Il bisogno di una presenza amica pronta ad illuminare, a riempire un vuoto interiore. Francesca Anselmi giuoca con le parole per gridare ad un mondo freddo, indifferente, silenzioso....
                        "amatemi per tutto quello
                          che vi trattiene dall'amarmi"
Ma c'è anche l'amore che lega in un abbraccio continuo, che si tramanda nella bella poesia dedicata alla figlia Greta. L'amore che placa l'ansia che dona forza e speranza. Una speranza che nasce dallo stupore: "Guardo il cielo/la sua vastità./Infiniti silenzi lo compongono./Resto così,/inebriata da tanta bellezza."
Una speranza che grida al mondo l'amore per il viaggio continuo di ogni uomo, nonostante le battaglie per essere migliore. Un elegante speranza di comprendere la vita diceva J. Borges.
Paolo Carnevali

 

 

                                 

Luca Pizzolitto, Il tempo fertile della solitudine, Campanotto editore, 2018

 

Ancora un canzoniere per Luca Pizzolitto, qui alla quarta raccolta pubblicata, indubbia conferma di un interessante percorso poetico. Una scrittura priva di formule manierate, dotata di un andamento e di scelte linguistiche portate ad una profonda essenzialità. Si direbbe, lodandolo, un ‘togliere’ piuttosto che aggiungere nella versificazione. Pizzolitto rimane convintamente un poeta lirico, quando traccia la ricerca di identità nella non-appartenenza del corpo e dei luoghi. Il suo sguardo è senza riserve, mai ammaestrato alle facili conclusioni, restando così sospeso in un chiedersi solo a tratti interrotto. Se si individuasse una deriva nichilista, questa sarebbe consapevole e pungente, quasi una presa di posizione minimale. Sono cantabili l’irrequietezza, l’inquietudine, la solitudine, quest’ultima sempre ‘fertile’ come recita il titolo. La solitudine, si legge qui bene, non è mai una resa, tutt’altro. Risulta necessario accudirla, farne buona compagna e buona maestra. Quel ‘naufrago e straniero’ di ungarettiana citazione, si ricongiunge a se stesso lungo strade d’amore e di vita.

 

 

 

La necessità di andare piano.

E quella di corrersi incontro.

Ruba alla notte l’essenza del vuoto

fanne collana per i tuoi seni spogli.

 

Sei partita nel vento.

 

Presto anche tu sarai sale

poi sabbia

poi niente.

 

 

*

 

La bellezza si stanca

in fretta del tentativo

di spiegarmi a parole.

 

Qui ho vissuto eppure

non sono mai stato

da me sono partito e

in questo niente ritorno

in un silenzio stellato

e trafitto, sempre troppo

lontano da me.

 

*

 

MENTRE NEL CIELO DI SARAJEVO

 

In una notte come questa Izet scriveva

poesie mentre nel cielo di Sarajevo

esplodevano stelle artificiali

e lungo le strade risuonava

il canto stridulo delle sirene.

 

Da una frattura di quiete

sale l’angoscia della terra.

Eppure anche questo

incerto sfiorarsi

è un tentativo

di sopravvivere al presente

di stare

stare vicini.

Tu stringimi

diventerò canto

tra le tue mani.

 

*

 

DOMANI, FORSE

 

Io vengo per sentieri

dove la gioia è un insulto

uno sputo

che cresce tra i rovi.

 

Sempre si sposta l’amore

un poco più in là.

 

Il mio cuore è uno spazio di terra

per l’inerzia dei gatti randagi.

 

*

È gioia irrequieta

questo tendermi

mai esistere a pieno

vivo a piccole dosi

nelle parole che scrivo.

 

Sono fuori dal tempo

non addomesticabile.

 

Selvatico.

 

 

 

 

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da quasi quindici anni si interessa e si occupa di poesia. Nel 2008 si classifica 1° al Premio Arezzo Poesia. Nel 2009 è finalista al Premio Letterario Città di Chieri. Nel 2014 vince il 1° premio al XXXV Concorso Letterario Internazionale Città di Moncallieri. Suoi testi sono apparsi sulla rivista “Tratti” e su blog e siti letterari. Tutti i suoi libri precedenti sono stati pubblicati da Ladolfi Editore e Transeuropa.

 

 

 

 

 

Henry Ariemma, Un gallone di kerosene, Transeuropa, 2019

 

Stiamo leggendo un canto lirico e riflessivo che racconta i differenti volti dell'esistere, attraverso sezioni che valgono come parentesi e tasselli di un sentito dialogato. I paesaggi urbani si alternano con una natura terrigna, più interprete che mero sfondo scenografico, e sono entrambi popolati da personaggi sinceri e perdenti. In questo parlato piano piano emergono affetti amichevoli, gli alti e bassi del vivere comune, le interrogazioni sospese di più ritorni e partenze. Alla sua terza raccolta poetica, Ariemma consolida una versificazione sempre più matura, con echi importanti della tradizione italiana.

 

 

Erano lunghe figure i tuoi disegni,

occhi ubriachi felici al sorriso

aperto un mondo,

linee decise per motore

al solo cuore, sguardo per carpire

fermezze in mani arcobaleno...

E i vestiti sono state le mie favole,

creta a stringere città per parole nuove,

indovinelli al navigare

pesce in carta di scatola blu

brillando polveri, oro ovunque

sulla pelle nella fronte e palpebre: luce

di questi sogni incollati ai tuoi,

due monete fissate insieme nel gioco di sempre.

 

 

*

Non mi hai dato tempo per incontrarti

sei andato con sorriso e sguardo alle parole

non dette, portando l'esempio mancato al togliere

mondo materiale, ornamento e gesto che ora ha fine.

 

Non mi hai dato tempo per incontrarti

sei andato con sorriso e sguardo in voce forte

senza l'aspettarti storie sbagliate, disimpegno

mancato coro parlando d'alberi, cielo e mare

ogni dove cuore al solido freddo.

 

Tolgo cento miei giorni a non essere

solo, a tradurmi tuoi sapienti libri,

capire se di interesse puoi parlare adesso

stessa indifferenza al dolore che mi libera.

 

*

 

Non avere nulla, è meglio di vivere?

Abituati a non avere niente

perpetrando non vivere,

non amore, mancato possesso

senza ragionare fede allo scopo

ultimo che premi questo dover rinascere

nuova pagina consapevole a quella scritta,

sovrascritta specchio in ombra, spento sole?

E' chiamare vetri i cristalli brillanti

perché persi inestimabili?

Henry Ariemma è nato a Los Angeles nel 1971 e vive a Roma. Suoi componimenti sono apparsi su riviste e litblog specializzati. Per Ladolfi ha pubblicato le raccolte di poesie Auruspice nelle viscere (2016) e Arimane (2017).

Antonio di Gennaro, Accadimento onirico, Nulla Die, 2019

La scrittura qui si tesse di immagini in trasparenza, portatrici significative di pensieri e riflessioni filosofiche. Come si osserva nell'introduzione alla silloge, di Gennaro scrive dal "mondo intermedio" dei poeti ed i suoi testi valgono come autentica "preghiera". Più spirituali che religiose in senso stretto, le poesie di Accadimento onirico parlano a Dio con un 'tu'  privo di risposte eppure presente e ineludibile. La lirica si pone fra  "io" e "l'altro", persone e destino, vita e morte, risentendo nell'impianto generale degli studi del poeta sull'opera di Emil Cioran. Pur dotata di un linguaggio forte e decisamente espressivo e di una interessante ricerca poetica, resta l'impressione che questa raccolta risulti 'appesantita' da eccessive citazioni da filosofi e pensatori. Se l'intento, soprattutto negli inserti in prosa, era quello di spiegare una poetica, forse è proprio lì che la creatività viene meno.

Accadimento onirico

 

Potesse la parola

estirpare alla radice

l'essere del nome tuo

confitto nell'anima,

arginando con

frangifrutti di lemmi

la mareggiata improvvisa

dei sogni.

Scarabocch-io

 

Per inventarmi la vita

aveva carta bianca

e una penna nuova di zecca.

Cominciò con tratto incerto

a tratteggiarmi un profilo.

Disegnò segni, sogni,

cancellò, riscrisse...

abbozzò per ore schizzi

senza esserne convinto.

Scarabocchiò un io-macchia....

ovunque interruzioni e niente smussi,

sprazzi d'inchiostro.

 

 

 

 

 

Lascia che noi

sia la poesia più bella

e mai scritta,

che solamente Dio conosce

e custodisce

nel regno delle possibilità

irrealizzate....

 

 

Antonio di Gennaro (1975) è saggista e studioso del pensatore romeno Emil Cioran con importanti pubblicazioni dal 2014 a oggi.

Iuri Lombardi, I Banditori della nebbia (LFA Publisher, 2019)

 

E' il sesto romanzo di Iuri Lombardi, già notoscrittore e autore poliedrico. Si tratta di una storia avvincente, a cavallo tra il romanzo di formazione e il noir, ambientata nei giorni nostri a Lucca e racconta l’avventura di un gruppo di amici – presumibilmente giovani- che vengono chiamati a lavorare presso un’emittente privata locale di proprietà di uno dei più feroci e accaniti psichiatri che ha un progetto criminale: costruire un manicomio sotto il mare tra Gibilterra e la Sicilia allo scopo di «conservare la malattia» e non guarirla mediante la sottrazione del tempo. Ma un bel giorno lo psichiatra scompare misteriosamente: cosa è accaduto al medico e magnate televisivo?
Intanto il gruppo di amici vive paradossalmente un periodo intenso e di lavoro attraverso
inchieste, campagne pubblicitarie, reportage, denunce giornalistiche e privato; la vita e i destini sembrano infatti intrecciarsi continuamente e a prevaricare sono i sentimenti, l’affetto, con risvolti di rapporti amorosi e tanto ancora...
Lombardi ancora una volta pare aver colpito nel segno, attraverso l’uso di una tecnica narrativa perfetta e avvincente, mediante il tono poetico di un «romanzo di descrizioni». Nelle pagine che si susseguono è facile rintracciare il suo tocco poetico quasi a stabilire, senza retorica o forzature, una «narrativa di parola».
Insomma si tratta di una grande prova, la sesta dello scrittore fiorentino che vive tra Firenze e Roma.

 

                                                                                   da I bandidtori della nebbia, di Iuri Lombardi

 

Hollywood del Serchio

Nella realtà dei fatti siamo pescati a canna per quanto concerne
le finanze, nel senso che abbiamo un euro in due se non in tre, e
nonostante il mestiere che facciamo, i piazzisti, perché alla fine
di quello si tratta, non abbiamo nulla e per lo stato siamo nulla
tenenti. Nonostante ciò facciamo una vita da divi del cinema e
più o meno viviamo Lucca, questa realtà ristretta contenuta da
mura, come fosse una sorta di Hollywood nostrana, di paradiso
non ancora avuto o meglio guadagnato, tutto italiano. A Lucca a
dire il vero abbiamo alloggio, dove sfamarsi, trascorrere il tem-
po e un lavoro nell’emittente del dott. Della Farina; una piccola
realtà televisiva specchio del sistema e che il Cavaliere – a con-
ti fatti è un professore, un luminare della medicina- ha voluto
creare in un luogo neutro forse per non destare tanti sospetti a
seguito dei suoi traffici non tanto onesti; proprietario di cliniche
private d’avanguardia e in Italia e in Svizzera; gran lume della
psichiatria criminale, teorico della contenzione come mezzo di
contrasto alla malattia; di recente, non proprio da adesso, forse
da qualche tempo? Investitore di TV, coproduzioni cinematogra-
fiche e giornali.

 

Iuri Lombardi, nasce a Firenze , poeta, scrittore, saggista, drammaturgo. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: i romanzi Briganti e Saltimbanchi (Siris, 1997), Contando i nostri passi (Romano,2009), La sensualità dell’erba (Biondi, 2012); le raccolte di racconti Il grande bluff (LettereAnimate, 2013), La camicia di Sardanapalo (Talos, 2013), I racconti (Poeti Kanten, 2016). Per la saggistica: L’apostolo dell’eresia; per la saggistica: L’apostolo dell’eresia (Faligi, 2015). Per il teatro: La spogliazione, Soqquadro (Poeti Kanten, 2016). Vive a Firenze. Dopo essere stato editore, approda con altri compagni nella fondazione di Yawp, per cui dirige la sezione di critica letteraria. Collabora con siti e riviste letterarie, come Carmilla. L’ultima raccolta poetica che ha dato alle stampe è Il Sarto di San Valentino (Ensemble, 2018). Da poco ha deciso di sciogliere di nuovo il silenzio, con una serie di poesie uscita sul n. 93 della rivista Atelier.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANTONIO BACCIOCCHI

 

GIL SCOTT-HERON

il Bob Dylan nero

 

VoloLibero, Milano, 2018

 

 

 

 

 

I ritratti fotografici di Gill Scott-Heron ci consegnano uno sguardo acuto, ironico e invitante, accompagnato da quella passione e sofferenza dove sono racchiuse radici e propaggini della black music. Lui giovane o lui invecchiato anzitempo, lui sul palco al piano o lui in intensi primi piani, sempre fedele a sé stesso come ai voli e alle cadute che l’hanno accompagnato. A corollario di queste immagini bastano davvero alcune sue parole un anno prima della morte, parole che valgono da manifesto di un intero percorso: La musica ha il potere di farmi sentire come niente altro. Mi dà una certa pace per un po’. Mi riporta a chi sono veramente. Il libro di Antonio Bacciocchi è un testo necessario, stesura di sequenze arte-vita e tributo all’inestimabile lascito di musica e parole. Scott-Heron nasce a Chicago e si trasferisce giovanissimo a New York, inizialmente nel Bronx e poi nel quartiere ispanico di Chelsea. Dopo l’uscita del suo primo romanzo The Vulture (cui seguiranno negli anni molti libri e raccolte di poesia) si iscrive all’Università della Pennsylvania e lì incontra Brian Jackson, per lungo tempo suo collaboratore musicale e sodale in numerose vicissitudini. Arriveranno in seguito i lavori con importanti produttori della scena jazz, tour e concerti, matrimoni e divorzi, prese di posizioni non sempre gradite, i vari progetti con l’Amnesia Band, il suo inferno sulla terra chiamato tossicodipendenza. Tutto questo per dare vita a un poeta appassionato e ad un musicista tanto rigoroso quanto esploratore. Graffiante e irridente per urlare i fatti storti nel mondo a proposito di prevaricazioni e discriminazioni. Gil Scott-Heron è stato costantemente sospeso fra lacrime e sorrisi, degna espressione del connubio storiacce-vitalità estrema, supportato da quell’ironia che gli faceva da scudo e da spada. Alle parole fondeva sonorità più disparate che vanno dal classico blues al funk, dal jazz al R&B, fino alle incursioni nell’acid jazz e nel soul. Ma anche precursore di rap e hip hop negli spoken word, poesia pura su ritmi scanditi nel solco dei Last Poets o dei losangelini Watts Prophets. Un esempio per tutti, la celeberrima The revolution will not be televised . Lui che non ha mai mancato di raccontare le sue rivoluzioni o se stesso, temi indiscutibilmente offerti per venire condivisi. La vita nel ghetto, l’essenza della cultura afroamericana, il cammino difficile dell’uomo ancora prima dell’artista, gli omaggi a Coltrane e Lady Day, il carcere come ostica dimora. Ci restano brani pieni di bellezza e fisicità, che un’accurata discografia compresa nel libro di Bacciocchi ripercorre in tutto il loro intrinseco valore. E poi la definizione contenuta nel titolo, “il Bob Dylan nero”, dalla quale Scott-Heron prese sempre le dovute distanze. Aveva ragione, e non solo per la differenza degli strumenti suonati o per le caratteristiche vocaliche, come teneva a specificare. Diremmo noi oggi che Dylan è stato uno straordinario menestrello beat, mentre Gil si è lasciato trascinare fino al limite della sua ricerca per attingere a parole che valgono un’intera poetica. Senza dubbio si può avvertire un’urgenza di scrittura e un’autenticità che non viene mai meno. Dai primi lavori ricchi di accensioni sonore degli anni ’70 all’ultimo I’m new here , così intenso e commuovente nel suol blues mesciato di elettronica, Scott-Heron ha lasciato un patrimonio artistico e ha influenzato più di una generazione di musicisti e di poeti. Grazie al libro di Antonio Bacciocchi abbiamo un motivo in più per accendere lo stereo e calarci in nuovi ascolti di Gilbert il poeta.

 

 

Elisabetta Beneforti

 

 

 

Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l'Italia, Ladolfi Editore.

 

«Se esiste in Fitzgerald una doppiezza è proprio verso Zelda Sayre: il lavoro continuo contro la pazzia, ma anche il dialogo con essa; la sublime coincidenza tra uno spirito di conservazione e uno di distruzione. Era impossibile per lui proseguire la vita senza la compiutezza dell’amore: o meglio, Fitzgerald lavora, e lavora sodo (anche fino all’infarto), ma si muove nella società da allora in poi come il fantasma di se stesso; lavora per pagare la cura ormai senza speranza di Zelda. E se tornerà a scrivere con Gli ultimi fuochi, è per cercare lei in un mondo altro: lontano dalla clinica e ancora più lontano dalla realtà».

 

F. Scott Fitzgerald e l’Italia ripercorre la storia della ricezione editoriale e critica che il nostro paese ebbe nei confronti dell'opera dello scrittore americano: dalle prime traduzioni di Tenera è la notte e Il Grande Gatsby, che vennero ignorate dal pubblico, fino alla riscoperta autoriale nel secondo dopoguerra e alle nuove edizioni italiane che ne seguirono, per arrivare alla conclusione che «dal dialogo con se stesso e con Zelda nasce cioè tutta l’opera di Fitzgerald».

 

Ma siamo davanti anche a un viaggio nella poetica americana: se infatti Elio Vittorini fu il primo a parlare espressamente di poesia come genere unico per inquadrare la letteratura statunitense nella grande antologia Americana, paradossalmente sarà al contrario il realismo di Hemingway a figurare come miglior esempio di questa visione. Sarà poi altra la critica italiana che, più avanti, parlerà della scrittura di Fitzgerald come «decisamente lirica» e del romanziere americano come «poeta».

 

F. Scott Fitzgerald e l'Italia allora non rielabora solo la sfortunata vicenda editoriale dello scrittore nel nostro paese, ma ci pone davanti una domanda importante: può un romanzo considerarsi poesia?



       Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l'Italia, Ladolfi Editore, Collana Smeraldo, 2018.

 

Luca Pizzolitto

Dove non sono mai stato

 

 

Con questa recentissima raccolta il poeta torinese Luca Pizzolitto continua il suo canzoniere in fieri, nel solco già tracciato dalla silloge precedente Il silenzio necessario (Transeuropa 2017). Come sentimento profondo detta un canzoniere, le poesie qui accolte vengono modulate sui toni dell’amore e del suo malinconico svolgersi. Ogni testo è un frammento necessario per comporre un quadro d’insieme, in cui prevale il chiaro-scuro di ambienti e sentimenti. Sono gli “amori sfuggiti di mano”, sono giorni invernali che rammentano momenti solari, sono il costante ripercorrere episodi lungo “la vertigine del vuoto”. L’io narrante e il tu interlocutorio si fondono e si confondono, alternati a un ‘noi’ che richiede un conforto continuamente sfuggente. Ricorda la messa a fuoco di un obbiettivo questa vicinanza-lontananza con la persona amata, sua presenza tanto cantata quanto dolente. Luca Pizzolitto porta nel suo canzoniere una versificazione piana e distesa, in grado di non cadere mai nella retorica ne’ in un certo manierismo. Allora questa poesia lirica si nutre di immagini e parole del quotidiano, spesso nega per affermare, sempre lascia sospese anche le immagini più narrabili per non disturbare l’incanto che ne può nascere. Personalmente non credo che sia facile scrivere versi d’amore, anzi mi accorgo quanto sia immediato scivolare in banali espressioni. Basti dare un’occhiata al dilagante proliferare di raccolte poetiche sentimentali assemblate dai social, al confine fra litanie sanremesi e incarti di cioccolatini ma benedette dall’industria libraria. Luca Pizzolitto con Dove non sono mai stato ha il grande merito di affrancarsi da questo scenario e di offrirci una nuova silloge dal timbro poetico autentico. Come testimonianze del suo buon percorso intrapreso valgano anche le epigrafi contenute nel volume (partendo da Caproni per il titolo poi Candiani, Fiori, De Angelis, Czechhowski) a svelare influenze e suggestioni, riferimenti più che onorevoli.

 

Elisabetta Beneforti

 

 

 Luca Pizzolitto, Dove non sono mai stato, Campanotto Editore, 2018

 

 

 

La nebbia si posa sull’alba

e appiccica il viso, rallenta

lo sguardo. Una donna

in pigiama passeggia col cane,

tace il cuore e quel che ne avanza,

i miei amori in salita,

naufragio nel nulla.

 

 

 

 

Nei cortili di case popolari

abbandonate, nei ritorni

sempre così insicuri,

nella voce dei miei passi

che ripetono il tuo nome.

 

Vegliare la notte e i suoi peccati

nella premura della luce.

Tendere la mano nel gesto vano

di porgere carità alla bellezza.

 

 

 

 

NELLA BREZZA

 

Gli scali aerei alle due del mattino

le stazioni vuote i muri scritti

i vagoni abbandonati sotto la neve.

 

Sono nato da poco e

dopo la notte e il vuoto

immergo il mio volto

nell’acqua fredda del fiume.

 

L’amo infilza il labbro

indifeso di chi è

destinato alla fine.

 

 

 

 

RIVEDERSI DOPO QUESTO TEMPO

 

Alle disattenzioni

ai letti distrutti

alle stanze vuote

agli amori sfuggiti di mano.

 

Guardo le tue piccole dita.

 

È per noi questo silenzio che

giace improvviso sul lavandino.

 

Noi che abitiamo

le vene della terra e

le voragini del pensiero.

 

 

 

TENERE IL TEMPO DEI SOGNI

 

Sfioro il tuo viso e ritraggo

la mano nel dilemma di un addio.

Completa la luce il buio

e nei paesaggi appena intravisti

mia madre rideva, rideva di gioia.

 

Perdonami se non ho più voce.

 

 

 

INTERMEZZO

 

Portami dove si colora il tramonto

dei colori che Sara custodisce

nel cuore. L’ultima volta

che ho spento il sole è stato

alcune lune fa.

Il mio nome era un altro,

il mio corpo chissà.

 

 

 

 

 

NOTA BIOGRAFICA

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da quasi quindici anni si interessa e si occupa di poesia. Nel 2008 si classifica 1° al Premio Arezzo Poesia. Nel 2009 è finalista al Premio Letterario Città di Chieri. Nel 2014 vince il 1° premio al XXXV Concorso Letterario Internazionale Città di Moncallieri. Suoi testi sono apparsi sulla rivista “Tratti” e su blog e siti letterari. Tutti i suoi libri precedenti sono stati pubblicati da Ladolfi Editore e Transeuropa.

 

 

 

 

CINZIA DEMI, Nel nome del mare, Messina, Carteggi Letterari, 2017, pp. 45, edizione numerata da 1 a 150. Copia 14.

 

Cominciamo con il titolo: Nel nome del mare, che subito ci porta nella dimensione religiosa, direi addirittura della preghiera. Al posto di Dio il mare e quindi in suo nome procedere per fare in modo che il ritorno alle origini non sia un atto di remissione, ma una scoperta, una rinascita, un abbraccio che trova consonanze immediate  nel liquido che va e viene e ha una voce antica e sa restare sempre uguale a se stesso mutando come il seme e il quotidiano ansare.

Grande, superba metafora che Cinzia Demi porge con il suo solito garbo, con la sua misura ormai acclarata di poeta che sa andare a fondo senza scompigliare, senza distruggere, ma ricomponendo e ricordando, servendosi perfino degli archetipi. E se il lettore non avesse voluto capirlo, lei lo dichiara e dichiara anche la scaturigine dell’opera con riferimento a Eugenio Montale nonostante che ella sia “donna che è nata sul mare”.

L’attività di Cinzia Demi è multiforme e direi anche frenetica. La sua natura esuberante le permette di muoversi senza sosta nelle varie direzioni e le permette di aderire con naturalezza alle sue scelte tematiche. In questo libro ne risaltano con evidenza due, anzi sono dichiarate, il mare e Ipazia, tutti e due argomenti trattati all’infinito, ma proprio per questo aperti al dialogo, a nuove interpretazioni, ad adesioni che esulano dalle solite e vanno a stagliarsi in un percorso inedito nel quale rifulge la parola di una poetessa che sa offrirsi e negarsi, obbediente al dettato del mare, ma ormai lontana, nella “viventia” di un quotidiano che si nutre di altre immagini.

E Ipazia? Il fascino del personaggio è straordinario ed è sempre stato una fonte d’ispirazione per i poeti, valga per tutti Mario Luzi col suo poemetto che ha avuto tanto successo. Ma l’Ipazia di Cinzia ha qualcosa di imprendibile, una modernità che è ansia e protesta, mai assuefazione e rinserramento nell’usuale e nel prestabilito.

La parola di Cinzia, sia sul mare e sia su Ipazia, è miracolosamente intatta e direi pudica. E’ come se fosse Cinzia stessa a creare quel mare che pure l’ha vista nascere, crescere e ardere d’inconsapevolezza, per dirla con Giuseppe Ungaretti, ed è come se Cinzia stessa avesse partorito Ipazia.

Facciamo degli esempi:

 

“sono viva  in questa piazza che

non è più la mia e nell’ondeggio

delle barche  in ormeggio al Porticciolo

di Marina  trovano culla tutte le volte

dei mancati approdi  dei luoghi  dove

non sono stata  dove la prua si è arenata”

 

In quale tempo siamo? In quale spazio? In quale sogno o avvertimento magico che erode la nostalgia e la rinfuoca, la crea e la nega?

Ha ragione Fabio Canessa, Cinzia sta bene attenta “a non cadere nella trappola del rimpianto della giovinezza finita” e può dunque aprirsi senza  remore allo spettacolo che la investe di una ventata magica che però recupera “certi sapori, certi odori, certe immagini”.

Per Ipazia ecco l’esempio:

 

“nel sogno che ci fa

incontrare  in cui sento

la colpa di non averti

protetta  sorretta

 

nel sogno in cui vedo

anch’io  come auspicio

di volo  sciogliere il nodo

del tuo destino

 

ti abbraccio santa e ferita

rammendo la macchia

e la piaga  la tua bellezza

ellena  ti rendo in preghiera”

 

Da notare almeno due, come chiamarli? accorgimenti della poetessa che sia nel primo che nel  secondo esempio lascia degli spazi ogni tanto tra una parola e l’altra. No, non sono dei refusi, ma le sue pause, il voler permettere al lettore di soffermarsi e meditare, di accertare una verità che sta vivendo smozzicata. Cinzia non vuole essere irriverente ed è per questo che rende in preghiera a Ipazia il suo stato di martire nel riscatto della bellezza, ed è per questo che assegna al mare la funzione demiurgica.

Sarebbe molto interessante comunque analizzare ogni verso, ogni sillaba di Cinzia, perché io sento scorrere dolcemente ma non impunemente tanto del suo sangue in questo libro che ha vibrazioni cosmiche. La poesia ha bisogno di passione, di calore, di coinvolgimento, altrimenti resta semplice e magari elegante letteratura senza trasmettere brividi ed emozioni, senza squarciare una sola briciola di conoscenza.

 

DANTE MAFFIA

 

 

Breve nota biografica

 

Cinzia Demi è nata a Piombino (LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica.

Dirige le Collane di Poesia Sibilla per la Casa Editrice Pendragon (Bologna), Collana di Poesia Contemporanea per Il Foglio (Piombino), e insieme a Giancarlo Pontiggia l’appena nata Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per il sito culturale francese Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Per l’Università di Bologna collabora con il Centro di Poesia Contemporanea, la Festa della Storia.

È inserita nell’Atlante della poesia contemporanea online “Ossigeno nascente” curata dall’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna e da Giancarlo Pontiggia, Alberto Bertoni, Marco Marangoni e Gian Mario Anselmi.

Ha pubblicato: “Incontriamoci all’Inferno” Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); “Il tratto che ci unisce” (Prova d’Autore, 2009); “Al di là dello specchio fatato. Fiabe in poesia” (Albatros, 2010); “Caterina Sforza. Una forza della natura fra mito e poesia” (FARAEditore, 2010); “Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); “Ersilia Bronzini Majno. Immaginario biografico di un’italiana tra ruolo pubblico e privato” (Pendragon, 2013); “Ero Maddalena” (Puntoacapo, 2013); l’antologia da lei curata insieme a Patrizia Garofalo “Tra Livorno e Genova: il poeta delle due città” . Omaggio a Giorgio Caproni (Il Foglio, 2013); l’antologia di racconti da lei curata “Amori dAmare” (Minerva, 2014); “Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri” (Puntoacapo 2015). Suoi testi di poesia, narrativa e saggistica sono presenti in diverse antologie nazionali.

Realizza con i suoi lavori eventi di drammaturgia con letture interpretative, musica e arti varie. Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini.

E’ organizzatrice e curatrice di diversi eventi culturali. 

E’ presidente dell’Associazione Culturale “Estroversi”.

 

 

      DAVIDE CORTESE, DARKANA, LIETO COLLE.

 

 

 

 

Davide Cortese e la poesia di luce dettata dall’oscurità.

 

In “Lettere da Eldorado”, il penultimo libro di poesie di Davide Cortese , troviamo la chiave per comprendere “DARKANA”, il nuovo, pregevole libro del poeta di Lipari, in questi versi: “La poesia di luce / è dettata dall’oscurità”. Tutto il libro è un’architettura gotica che aspira alla luce e svetta verso l’alto. Il libro si apre con questi versi: “Io sono il solo gargoyle che puoi vedere / di tutta la mia invisibile cattedrale”. E apprenderemo presto che quella di Cortese è una “cattedrale del diavolo”. Il solo gargoyle di una cattedrale:  “la punta di un iceberg sepolto dall’abisso”. L’abisso e l’oscurità sono maschere della poetica di Cortese, che è invece irrimediabilmente solare, sfavillante . “Io sono la maschera del sole”, scrive il poeta delle Eolie. Parafrasando il celebre aforisma di Oscar Wilde: “Datemi una maschera e vi dirò la verità”, la poesia di Davide Cortese ci confessa: “ Datemi una maschera di buio e vi dirò la luce”. “Il buio mi dona”, leggiamo in questa silloge colta e raffinata, e se siamo subito indotti a immaginare il poeta indossare la tenebra e dire che gli sta bene, giungiamo poi, verosimilmente, a comprendere che questo breve enunciato significa: il buio dona me, il buio mi esprime, mi porta alla luce. Il titolo di questa singolare silloge poetica, “DARKANA”, è dunque una maschera: questo libro è in realtà portatore di luce, proprio come il diavolo che spesso affiora tra le pagine di Cortese: siamo davanti a un libro lucifero, (Lux fero)portatore di luce, appunto. Nei  versi di  Davide Cortese il diavolo simboleggia l’umanità capace del male, capace di infliggere ed infliggersi  dolore, è l’umanità impotente di fronte al proprio potenziale di sofferenza. A questo povero diavolo chiamato uomo, Cortese guarda con clemenza e grande partecipazione emotiva, vi si riconosce quanto vi si riconosce il lettore. “Sono potente quando sbaglio”, scrive Davide Cortese, compiacendosi e commiserandosi a un tempo. Tutta la lettura di “DARKANA” si traduce nell’ “affondare il viso / nel petto nudo del dolore. / E sentirsene abbracciati”. E’ una lettura a volte straniante,  dalla quale riemergiamo come dall’abbraccio di un altro tempo e -a libro chiuso - ciò su cui andremo a posare lo sguardo,  avrà ai nostri occhi una nuova misteriosa consistenza, e  in  questo vi è innegabilmente  il potere della poesia autentica.   Giulio Assanti

 

 

Davide Cortese, Sette Poesie tratte da “Darkana” ( LietoColle, Como, 2017 )

Prefazione di Manuel Cohen

 

 

*

Navighi nel mio buio

tacendo la canzone antica.

Remi nel mio sogno di te.

Fendi il mio mare segreto

nell’alba tragica dei miei occhi.

Tracci il periplo del mio volto

e indugi sulla mia bocca.

Ti sento tra le labbra

bruciare come nome proibito,

come una parola celata

che tutto avvelena del suo mistero.

 

*

 

A volte la pettino

questa tristezza fiera.

Porto al guinzaglio 

un silenzio feroce.

Sorry mama.

Ogni mio sogno ha la criniera.

“Hic sunt leones”

mi tatuo sul cuore.

Il fuoco trema, io no.

Sorry mama.

Parlo la lingua del buio.

Lingua viva è l’oscurità.

Io sono il demone, temo.

Sono il fuoco, ma non tremo.

Sorry mama.

Sono potente quando sbaglio.

Io sono un bambino cattivo.

The devil.

Le diable.

Il vivo.

 

 

*

 

Le mie mani, secoli or sono

furono tatuate sul petto

di un giovane marinaio di Lisbona.

(Stringevano l’elsa di una spada.)

E’ già accaduto

nella canzone di un vecchio di Baghdad

il bacio che io e te ci siamo appena dati

dicendoci: “tu sei il mio demone”,

“il mio demone sei tu”.

Qualcuno mi ha già conosciuto

a un ballo in maschera a Dresda

nel 1723.

 

*

 

Nella lucente burrasca

apro l’ombrello nero.

Sfodero un sorriso macabro

e inizia il mio grande numero.

Si muta in giostra

il mio ombrello cangiante.

Ruota nella burrasca di luce.

Cavalco i demoni della giostra nera

nell’epica marcia dei fulmini.

La pioggia mi sferza il volto,

bagna il mio turgido sorriso.

Ruota l’ombrello,

come vortice oscuro.

Mi trascina con sé in paradiso.

Perforando nubi d’oro

squarcia un candido sipario.

Imbratto le nuvole

con piogge d’inchiostri amari.

Incendio le ali

di arcangeli nudi.

Vedo il loro volo

dare fuoco al cielo.

Una mia sola lacrima

avvelena il fiume sacro dell’Eden.

Prima che smetta di piovere

mi inchinerò alla mia ira,

ne sentirò il poderoso applauso,

mentre sugli alberi i bei frutti

marciranno lesti ad uno ad uno.

Cadrà un’ultima goccia di pioggia.

Chiuderò l’ombrello

e calerà il sipario.

Perché non giunga l’arcobaleno

ruberò ogni colore.

Al mondo non rimarrà

che il nero del mio ombrello.

Quello che adesso

mi farà da bastone.

 

*

 

Al buio non le vedo, le mie dita.

Non c’è nulla che io veda più.

E il buio, al buio, non mi vede.

C’è solo nero qui.

Nient’altro che del nero cui badare.

Ma lontano scorgo una briciola di luce.

Piano affiora nel buio

un’arcana figura di cavaliere.

Incede lento come un dio del silenzio,

cavalcando un bianco unicorno.

Si fa vicino.

Ne vedo il volto, infine.

Sono io.

“Hidalgo”, dico.

E scacciando una lacrima

sorrido.

 

*

 

Non è solo una rosa di maggio

il fiore che ti dono adesso.

Nasconde tra i petali di velluto

paesi incantati che ho abitato,

grandi un granello di sole.

Parla i profumi del mio arcano popolo

che ti dice “ti amo” da troppo lontano

perché tu lo possa sentire.

Parla il profumo di un silenzio

che è solo il lungo viaggio di una voce.

Nasconde tra petali di tenerezza

l’innocenza di paesi sospesi sul pericolo:

sullo stelo della mia rosa

guizzano mille pinne di squalo.

 

 

 

Davide Cortese, Poesie tratte da “Darkana” ( LietoColle, Como, 2017 )

Prefazione di Manuel Cohen

  

 

 

Davide Cortese

è nato nell' isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all'Università degli Studi di Messina con una tesi sulle "Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane". Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata "ES", alla quale sono seguite le sillogi: "Babylon Guest House", "Storie del bimbo ciliegia", “ANUDA”, “OSSARIO”, “MADREPERLA”, e “Lettere da Eldorado”. 

I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia” e “I fiori del male”. Le poesie di Davide Cortese nel 2004 sono state protagoniste del "Poetry Arcade" di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore di due raccolte di racconti: "Ikebana degli attimi" e “NUOVA OZ”, del romanzo “Tattoo Motel” e di un cortometraggio: “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO e all’EscaMontage Film Festival.

 

 

Paola Di Gennaro, Ancora storia, Zona Contemporanea.

 

 

 

 Immaginate cosa hanno in testa

le matrici dei maestri, le decodifiche del mondo,

circuiti smisurati di sinapsi e corde appese al collo

immaginate il silenzio che si appiana appena,

che si divora le budella e strizza gli ossi

dopo piogge giovanili, che chiodi affondano,

che troppe cene hanno imbastito e logorato insieme

immaginate pure, immaginate ora cosa tiene

a galla noi, in questo mare nullo di vuoti segni

e conti sempre in pari, e giudizi invani,

immaginate un vecchio assente mangia anime

che succhia lassi e età senza riassunti

né cominciamenti, belli o brutti, senza firme

né dimore né cervelli né coaguli di tempo;

i codici si perdono si dileguano a metà

sconfinano nel nulla della stupidità di tale

e tale e quell’altro pure, e le matrici crescono,

ma crescono da sole, crescono con altri

crescono a dismisura oltralpe oltreoceano

oltreconfine, crescono come il numero dei libri

dei morti di fame dei morti impiccati

scappano come bisce, le hai perse senza pena

finché non te ne accorgi finché non sopravvivi.


 

Pasqua

 

 

Sei morto più di tutti

sangue perso più di tutti

sorte in terra più di tutti

 

inghiotti il tempo e le paure tutte

in gola senza tempo

senz’aria, o troppa aria

 

intanto parlano di parrucchieri

evitando acqua e arruffamenti

i cristiani da macello.

 

Preghiamo insieme e diciamo:

l’ateismo è un’innocenza troppo grave.


 

Si diventa orribili

in attesa di una guerra

davanti a uno schermo.

 

Una notizia orribile la mattina e tutta la mattina

il pomeriggio e la sera in attesa davanti all’orrore

  – di sicuro altro orrore arriva –

la stasi prima della guerra cui non siamo avvezzi

l’esistere di quel tempo dilatato

ammazzato con morti altrui

davanti a uno schermo dell’orrore

con l’orrore che aspetta sulle punte delle dita

dei giornalisti ormai trepidi

nelle mani di politici perdenti in partenza

di guerriglieri che giocano a lanciarsi sassi con le armi accanto

seduti nei corridoi con vetri – ho detto vetri – rotti

da qualche parte laggiù

oltre lo schermo

oltre pure la telecamera e le televisioni

 

e aggrapparsi agli oggetti sul tavolo

– un anello, un pezzo di giornale, un orologio regalo di una zia ormai triste –

mentre guardi la guerra in tv

e la colpa di quello sguardo sviato

di quella felicità nel guardare l’anello, il pezzo di carta di giornale

(dentro, cose inutilmente adorabili)

l’orologio della zia vecchia

sentirsi vermi oltreborghesi

la vergogna di non essere sporchi di sangue e polvere

 

il nostro pezzo di Vangelo.

 

 

 

In Ancora storia 

il verso di Di Gennaro sembra saperlo, nella sua civile tensione allegorica, nel suo darsi come franta partitura di un presente in cui dilagano conflitti di ogni genere, in cui il circolo denaro-potere-denaro è sempre più follemente autoreferenziale, che erano sbagliati quel pensiero, quella filosofia che qualche tempo fa annunciavano leggerezza, fine delle contraddizioni, epoca dell’uomo finalmente umano. Per questa mediata, sofferta rifrazione (non rispecchiamento) della realtà la poeta ha dovuto sacrificare, così mi sembra, il bisogno di più associazioni di pensieri, di più immagini. Il suo potenziale “stream of conscioussness” si è fatto carsico, sperdendo l’occhio del lettore in frequenti silenzi di bianco tipografico. Ma i segmenti di scrittura che emergono sanno comunque di fenomeno di piena, di vortici, strani risucchi. Acque veloci che portano con sé, tra l’altro, i materiali di una fitta intertestualità, in cui ogni citazione vuole farsi benjaminiana vendetta dell’oblio.

 

dalla postfazione di Mariano Bàino.

 

 

 

 

Grazia Procino, Scatola di nuvole, edizioni Scatole Parlanti, 2017

 

dalla Prefazione di Vincenza Fava

 

Soffi  di nuvole è l’esordio in versi di Grazia Procino, una sorprendente commistione di ideale e reale, una prova poetica densa di riferimenti colti e letterari, un viaggio acronico nell’interiorità del sentire umano, scevro di ogni sentimentalismo o ripiegamento interiore. La narrazione in versi è finalizzata alla ricerca di una verità che appartiene a tutti e che ci pone di fronte a ciò che appare, alle maschere quotidiane, al rischio contemporaneo della non-vita, reale e incombente nel momento in cui la parola perde il suo più intimo

significato. 

[...]
intorno alle parole
costruisco istanti di verità, intorno alla verità
costruisco squarci sghembi di vita.

 

Ecco quindi lo svelamento di un’anima “ellenica”, nell’efficace e vigoroso tentativo poetico di ricreare un Eden culturale in cui la democrazia, il teatro e la poesia siano le colonne portanti di una civiltà modello come quella della Grecia antica, madre di miti, radici e simboli destinati all’eternità. Non a caso è la poesia Anche oggi, la Grecia che apre l’intera silloge, un toccante invito a ritrovare la bellezza e ad affidarsi a quel “mare color del vino” dell’Odissea omerica, annullando i numerosi secoli che si frappongono tra noi e l’indimenticabile aedo. I versi di Grazia Procino sono una finestra aperta sulla sua esistenza, inciampano in panorami mozzafiato, indugiano sul mare (“Solo il mare mi viene incontro / senza maschera- re la sua natura, / nella sua glabra essenzialità, magni co, / da togliere il respiro”), s’impreziosiscono di ricordi in uno stile delicato e al tempo stesso incisivo; la poesia Apulia, per esempio, può essere considerata come una grande dichiarazione d’amore alla sua terra ricca di arte, di storia e, al tempo stesso, di tormenti:

Astuzie ataviche costruiscono trulli, devozioni popolari elevano cattedrali, domini regali insediano castelli.
È terra di ondivaghi approdi.

 

È la mia terra rossa di afa e di tormenti (...).

 

 

 

Anche oggi, la Grecia

 

È nel vivere dentro le passioni

che i Greci emettevano luce.
È nel popolare le città,
abitarle nella civiltà democratica

che i Greci sono stati primi.

È il teatro
il loro monumento
più nobile,
il simbolo della loro
qualità di vita.
È la rinuncia all’osceno spettacolo
della violenza gratuita
il loro dono più salutare.
Noi,
i Greci dell’Occidente
guardiamo verso la terra greca,
ancora curiosi,
volgiamo lo sguardo pieno di desiderio

agli scenari sempre in allestimento,
ai colori d’oro e blu cobalto,
carichi di orizzonti sagaci,
al mare color del vino
capace di ubriacarti
di conoscenza.
Per prepararsi alla bellezza
occorre passare attraverso la Grecia.

Per procurarci linfa per il domani

occorre riandare alle spiagge assolate

di una Grecia inondata
dal sole brillante del mito.
Anche oggi.

 

 

 

Il mare greco

 

Incontro ad ogni istante
uomini e donne forti
di maschere sul volto,
come attori delle tragedie greche.

 

Solo il mare mi viene incontro
senza mascherare la sua natura,
nella sua glabra essenzialità, magnifico,

da togliere il respiro.

 

Davanti al mare si polverizzano,

gettano le armi
le ipocrisie indigeste
senza intelligenza dell’oggi.

 

Noi che non sappiamo
il suono delle parole del greco antico

ci arrampichiamo su scalate astruse

negli spiriti aspri.

 

Il mare arriva a sferzare, corrusco,

terre che riecheggiano ancora
gli accenti dei dialetti greci
che furono.

 

La militanza tenace dell’eternità.

 

 

Grazia Procino

 è nata a Gioia del Colle (BA). Laureata in Lettere classiche, insegna al Liceo Classico della sua cittadina, che ha frequentato da studentessa. Appassionata di lettura da sempre, recensisce libri di narrativa italiana e cura una rubrica di letteratura classica dal titolo Allois ophtalmois sul blog letterario “Diario di pensieri persi”. Nel febbraio del 2016 sono stati pubblicati tre suoi haiku nel volume Haiku tra meridiani e paralleli III stagione edito da Fusibilialibri. Soffi di nuvole è la sua prima raccolta di poesie.

 

 

Massimo Parolini, La via cava, Lieto Colle, 2015

 

 

 

bacio di nuvola sui tuoi capelli

e crani di petalo in fondo ai tuoi occhi

nell’ora in cui appare

tra le mura del cuore

il tuo antico profilo che sa di Provenza... 

 

 

 

 

sento il tuo volto venire adagio

lungo le piume del tempo

portare il colore

del pavone nell’alba

ed anche

le vere distanze

 

 

             -due anime arcaiche

               ancorasincontrano

nelle tiepide acque della laguna- 

 

 

 

 

è bello:

c’è un uomo che abbraccia

la pelle degli alberi

e un’ onda cocai

che permea il mio cielo... 

 

 

 

categorema

 

 

acefala sfinge dai seni di sasso

lancia lo sguardo di marmo sul mare

(e oltre di questo)...

dimmi il passaggio di arieti celesti

sul letto carnaio del sacro olocausto...

rosa fragmenta di pelle di pizia

lasciami bere il futuro dell’uomo

e le voci infinite

di altre esistenze...

sfiora le pieghe di forme scolpite

su corpi lucenti di apolli di marmo...

dimmi gli enigmi apparsi alla mente

guardando nel volto lo specchio che cambia...

ora che un muto eczema mi assale:

 

 

nulla mai passa, nulla rimane______ 

 

 

da

 

Nota dell’autore

 

Cavo, còncavo, incavo, è ciò che ha la superficie curva e rientrante. Cavo è il grembo che ci ha custodito dal concepimento alla nascita. Cava la culla che lo ha sostituito nei primi mesi di vita.

Cava è la mano che stringo in segno di relazione, cava la mano che accarezza, che accoglie l’acqua che disseta e ci sostiene, cavo il pozzo da cui attingere l’acqua, il secchio che la raccoglie, il mestolo la coppa il bicchiere che imitano la mano, cavo il vaso che contiene gli alimenti.

Cavo è il riparo che ospita l’uomo, dalla grotta- caverna alla casa certificata, cavo il riparo degli dei, l’antro della Sibilla, il luogo delle profezie, gli ipogei, le necropoli (unite negli etruschi dalle “vie cave” o”cavoni”).

Cavo è l’organismo che ospita i nostri organi vitali, cava la via che conduce i cibi di cui ci nutriamo ad essere assorbiti ed espulsi, cava la via orale della loro assunzione e la via anale della loro espulsione, cava la via dalla quale percepiamo i suoni del mondo, i suoi odori, i suoi gusti, cava la via dell’amore e del piacere.

Cavità nasali, orbitarie, cavità cranica, addominale, toracica, ascellare, pelvica, peritoneale... Cavità anatomiche, cavità geologiche. Cava la buca che ci accoglie nella terra, la bara che ci contiene, l’urna cineraria, il sarcofago, le piramidi, la tomba a tumulo, la fossa comune. Eppoi cantine, nicchie, pozzi, cunicoli, cisterne...

Cava la terra che accoglie il seme e contiene le radici della pianta, cava la buca dove si nasconde il tesoro, l’oggetto prezioso.

Cavo il tronco d’albero che il picchio ha svuotato lasciando una corteccia nubile,

cavo il pallone dello sport più amato che inchioda miliardi di uomini davanti al televisore, cavo l’etcetera che contiene un elenco di nomi di forme cave possibili (...).

 

 

 

Massimo Parolini

è nato a Castelfranco Veneto (Tv) il 7aprile 1967. 

Laureato in Filosofia presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, è stato addetto stampa del Centro Universitario Teatrale (C.U.T.) di Venezia (1993-1995). Per il C.U.T. (fondato su iniziativa di Giorgio Gaber) ha scritto e rappresentato le commedie “Il medico della peste” e “Svevo e Joyce”. In questo periodo ha concorso alla realizzazione di due convegni nazionali su Carlo Emilio Gadda (1994) e Alberto Savinio (1995).

Presso la Casa Editrice "Editoria Universitaria" ha pubblicato un libro di poesie sulla guerra nella ex-Jugoslavia (Non più martire in assenza d'ali) che ha vinto un Premio Speciale al Premio Internazionale di Poesia "San Marco-Città di Venezia".

Come giornalista ha collaborato dal 1997 alle pagine culturali dei quotidiani “Alto Adige”, “Adige”, “Corriere del Trentino” e “L’Adigetto”.

Dal 1997 è insegnante di italiano.

 

Rugìle 

 

Storie di amore, storie di sesso senza tabù e di passione, storie raccontate alla fine di una vita con la lucidità di chi non ha più nulla da perdere.

Storie di una malattia, della guarigione e di ciò che rimane, dei segni sul corpo e nello spirito.

Storie di vita fra Firenze, Detroit e Vilnius. Storie di donne italiane, giapponesi, americane e lituane.

Ma soprattutto domande. Domande per capire il senso di esistere che non è mai quello che appare in superficie perché ve n’è uno più profondo che non si vede ma prepara e organizza la realtà di questi personaggi ai limiti del normale, che vivono di sole passioni e istinti e di basso ventre.

L’istinto è il vero protagonista di questo romanzo. L’istinto che di primo acchito non è spiegabile, non si riduce a nulla di razionale, tuttavia ha una sua spiegazione che va oltre il mondo in cui viviamo, che fa parte di più universi e si origina dall’infinitamente piccolo.

E’ un libro esistenzialista che impone domande e messaggi da comunicare come erano una volta i romanzi e gli scritti degli esistenzialisti quali Camus, Sarte, Kierkegaard, Jaspers, o i film dei maestri del cinema come Bergman, Godard, Antonioni…

E’ un libro controcorrente che mette in primo piano i contenuti e che spiega l’esistenzialismo e la tragicità del vivere umano non più con l’assurdo ma con la fisica quantistica.

 

Fabrizio Ulivieri, Rugìle, L' Erudita, 2016.

 

 

Un brano tratto dal libro

 

Rientrò in casa quella notte, in cui tutto era accaduto e aveva perso la sua identità per acquistarne una più profonda.

Il giorno era stato caldo, poi mentre camminavamo per la Katedros aikštė [1] il tempo era d’improvviso cambiato.

Un freddo autunnale era arrivato rabbioso dal nord come se qualcosa di terribile stesse per accadere.

Il sole era tramontato veloce e il cielo si era fatto rosso.

Raffiche di vento, alberi irrequieti. Temperatura in diminuzione. La piazza aveva acquistato un aspetto solenne come davanti ad un’imminente tragedia.

Poi era cominciato a piovere ma in modo calmo e uniforme come da noi in novembre e non impetuoso come mi sarei aspettato.

Il vento si era calmato. E gli alberi avevano ripreso la loro staticità.

Ci eravamo rifugiati al centro commerciale Gedemino 9, che avevamo raggiunto correndo.

Chiamammo un taxi, ma sembrava che tutti quel giorno volessero un taxi e dovemmo aspettare un buon quarto d’ora prima che arrivasse.

Ci facemmo portare a casa sotto quella pioggia senza soluzione di continuità.

 

-       Stanotte voglio fare la puttana – mi disse non appena fummo rientrati in casa. Fu così che cominciò quella serata dettata da un impulso il cui fondamento ho cercato di spiegare sopra.

 

Quella frase suonava per me irresistibile perché aveva la forza dell’entanglement, una forza connettiva che agisce da profonda distanza. Io avrei voluto dolcezza quella sera ma quando diveniva così provocativa tutto in me si metteva in moto. Il sangue ribolliva, la pelle traspirava meglio, i muscoli entravano in tensione, le ossa si facevano pesanti, il pene aveva un’erezione come pietra.

Non riuscivo più a dirle di no.

Era troppo forte quella forza.

E quella era la mia ultima notte a Vilnius. L’indomani sarei ripartito.                                                         

Rugíle voleva collassare a modo suo. Voleva farmi sentire quella forza che in lei era incontenibile. Voleva trasmettermela.

 



[1] Piazza della cattedrale  di Vilnius, Lituania

 

 

 

Fabrizio Ulivieri

Biografia

 

Scrittore fiorentino per elezione, Fabrizio predilige un tipo di scrittura riflessiva, provocante, urtante talora, ma ritmica, scorrevole e che prende il lettore e lo obbliga a seguire il suo stile composito. Si ostina a sorprendere con i contenuti anziché con le trame vuote.
Ha pubblicato "L'eterno ritorno" (Akkuaria), "Storia di Pelo il ragazzo che vinse la Milano- Sanremo" in Dizionario del ciclismo italiano (Bradipolibri), "Albert Richter un'aquila fra le svastiche -  Il ciclismo tedesco tra nazismo ed esoterismo (1919 – 1939)" (Bradipolibri), "Il culo e la riduzione fenomenologica" (Montag Edizioni), "Il Ritorno che non volevo" (Amazon), "Il sorriso della meretrice" (David e Matthaus). 
Ha pubblicato alcuni articoli di linguistica e grammatica sul prestigioso Studi di grammatica Italiana edito dall’Accademia della Crusca e sulla rivista tedesca Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur. E’stato inoltre apprezzato collaboratore de ilciclismo.it, per cui ha scritto racconti, cronache, storie, pezzi satirici.
Durante gli anni 2011-2013 anche seguìto critico cinematografico per ilpolitico.it

 

 

Partita (Penelope)

di Simone di Biasio, monologo in versi (Fusibilia, 2015, con dipinti di Stefania Romagna e traduzione in greco di Evangelia Polymou)

Dalla nota dell’autore nel libro:

Ripartiamo da Partita; ma sì, in fondo non è mica solo un match calcistico, è anche il participio passato di “partire”. Però è al femminile, la partita è una donna. Penelope. Penelope? Che ci facciamo con la pappetta pronta della donna/nonna (sarà pure invecchiata in vent’anni…) che fa la tela a forma di calza e addirittura fa e disfa, il giorno e la notte. Pazza. E partita. Penelope “partita”. Penelope è mai partita? Nel mio caso sì. E non vuole nemmeno tornare, o almeno così scrive a Ulisse. (...) Penelope vuole soltanto partire, mica abbandonarlo. Come la differenza tra dimenticare e scordare, dove quest’ultimo deriva dal latino “cuore”: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore…”. Pure Ulisse voleva soltanto conoscere, mica abbandonarla. Tant’è vero che torna. Certo, ci mette un pochino di più del previsto, ma torna. Penelope gli prepara una cenetta? No, Penelope prepara una scenetta. Lo accoglie, come tradizione c’insegna, le si sciolgono le ginocchia. Alt: emozionatissima? Certo, ma mi suggeriscono che in greco quel verbo significa anche “uccidere il guerriero in battaglia”.

 

 

4 movimenti estratti dal libro.

 

Voce (Penelope)

Lascio la terra dell’ulivo,/ la grande casa che accolse le mie pene/ lo spazio che mi fu uomo, compagno e destino:/ ho combattuto anch’io la mia guerra/ e senza inganni ho trionfato sul campo/ che fa più schiavi della morte/ ed è più nero delle notti in cui mi lasciasti sola – sola./ Mi riprendo il mare e il tempo,/ la vastità m’attende oltre la gabbia.

  

*

a quale fine ti condannano?

quale spettacolo indegno di nota

per cui inventare ancora una tessitura?

almeno in questo intervallo minimo

sàlvati da tanta ignominia

sugli spalti del grande stadio del mondo

dove gli ultimi avanzi dei Proci

stanno formando una squadra imbattibile

e tu, tu... a fare e disfare la rete

nella infinita partita del tempo

nella infinita partita del tuo eroe...

 

 

*

il viaggio indicasti a me lanciando ogni giorno

un grido un filo la voce come tela

io tuo burattino aprivo golfi come le tue cosce

ammaravo nelle insenature del tuo petto

col ventre a favore approdavo dentro le case

ho sfondato porte che credevo tue

entravo sempre in parti annunciate da acque rotte

non sapevo quali figli stessi mettendo al mondo

 

*

al ritorno ti mostrai i talismani potenti

la pozione che mi fece porzione d’uomo

e i miei compagni tutti perduti

tu ascoltasti in silenzio inginocchiata

questa foltissima storia dell’assenza

ad una ad una le donne che mi porsero un giaciglio

i re e le terre che mi resero il favore del viaggio

e io che non avevo più inganni da dire

restavo attonito, ospite assente:

ogni calice che cingevo era la vita tua

l’ampiezza del nettare era la tua vita

tutta cinta di lacci e di spilli insidiosi

 

la strinsi e si sciolsero le ginocchia

sciolsi la vita e mi si strinsero le ginocchia

così non ho più gambe per andare

sono albero solo io, adesso, storto

eppure ho scelto ancora la tua terra

 

Penelope è partita il giorno dopo aver rincontrato quell'Ulisse che attendeva ad Itaca. E' lei a lasciarlo solo e io ho voluto dare voce ad un eroe che non è più omerico, ma è semplicemente debole e disperato - forse più umano.

 

Simone di Biasio

 

AURORA COPPOLA

 

ALLA PANCHINA –UNA STORIA D’AMICIZIA

 

Aletti editore, 2016

 

 

Tempi moderni, tempi moderni. Quelli che sembrano non risparmiare nessun promettente personaggio, età e ceto sociale azzerati in un faticoso destino condiviso. Aurora Coppola racconta i tempi moderni nelle loro emarginazioni e riscatti semplicemente umani nel romanzo Alla panchina, cadute e riprese che cesellano il quotidiano. Vale per Andrea, adolescente in balia delle sue ansie e delle incapacità di chi lo circonda nel nome di scuola e famiglia. Vale per Vincenzo, barbone per scelta dopo il fallimento di una brillante carriera di avvocato. Turbamenti e ricordi dei due si incontrano per caso sulla panchina di giardini metropolitani. Sarà questo il palcoscenico d’elezione per le conversazioni fra il ragazzo e l’uomo, sarà questa la stazione di scambio delle vicende che condividono. La saggezza offuscata e tossica di Vincenzo incontra le inquietudini declinate al suicidio di Andrea, e proprio su questi fili si tesse la loro amicizia senza filtri ne’ etichette. Il loro continuo cercarsi e venirsi in aiuto corrisponde alla ricerca di una identità da mettere a fuoco, tanto più difficile per le vicende da cui entrambi provengono. Sono due outsider di differente estrazione, ma accomunati dal segno di un fallimento che altro non è se non il primo passo per prendere coraggio e proseguire a rotta di collo. Fra incidenti e atti folli si snoda un dialogo popolato di annotazioni, rimandi, sogni , apparizioni. Aurora Coppola ha scritto un romanzo di formazione e di approdo al tempo stesso, lasciandoci indelebile il senso compiuto di un incontro umano anzi umanissimo. Così esemplare in questi tempi moderni.

 

Elisabetta Beneforti

FERNANDO LENA

 

LA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI

 

 

 

siete il nulla

sotto il sole apatico

di questa trincea

 

 

 

Lungo i movimenti di questo poemetto,in parte edito in parte ancora inedito, Fernando Lena ci offre il documento di un’esperienza umana prima ancora che letteraria. I mesi da lui passati nel manicomio criminale di Aversa – in un padiglione concesso per la riabilitazione  dalle tossicodipendenze – vengono ripercorsi più che raccontati con le istantanee di volti, di nomi, di oggetti. La parola poetica si aggira fra celle e corridoi, attraverso circostanze sia personali che impersonali. Perché in questi luoghi il tempo si è fermato, le ore equivalgono ad anni così come i minuti si allargano in vite intere. Ne La quiete dei respiri fondati non c’è bisogno di alludere o di rincorrere simbologie. Ogni metafora della statica poesia “di scuola” è subito allontanata per far posto a un’elegiaca consapevolezza di sbandamenti e di allucinazioni, che non mendica compassione ma si consegna all’affrancamento, al rispetto. Si segue allora l’urgenza del dettato, le parole che ci dicono di un’umanità appiattita e sfumata tuttavia ancora umana nei suoi sentimenti o in quello che ne resta. Quella di Lena è poesia lirica perché manifestazione dell’io narrante, e al contempo poesia civile in quanto espressione e testimonianza di un sociale lasciato ai margini. Un’autenticità che ci ricorda l’esperienza poetica di Eros Alesi, per il quale Antonio Porta scrisse “…la poesia ha interagito con la nostra storia, senza diaframmi. Va detto che un tributo necessario al fare poesia lo paga sempre anche il corpo di chi scrive.” 

 

Fernando Lena, LA QUIETE DEI RESPIRI FONDATI, I quaderni dell'Ussero, 2014

 

 

E. Beneforti

 

 

I

 

 

siete il nulla

 

sotto il sole apatico

 

di questa trincea.

 

Chiusi come bestie

 

ogni giorno

 

ascoltate i passi

 

per capire dov’è

 

l’inizio dell’abisso…

 

a volte è una certezza

 

essere domati dalla follia

 

o solo un incubo

 

che vi abbraccia

 

con camice interdette

 

stritolandovi di silenzio.

 

 

VII

 

 

Milena fissa il sole

 

come se lo stesse invocando

 

per una scottatura esilarante

 

vuole essere cenere

 

sperando che il vento

 

la soffi fuori..

 

superata la cinta

 

pensa… che ci sia

 

un mondo emozionato ad attenderla

 

fuggire vorrebbe

 

o vivere volando

 

come un’affascinante strega

 

risucchiata da una vertigine

 

                                      di diossina…

 

ma quel diritto di sognare

 

la opprime già

 

nei minuti in cui si dà

 

come una ninfa…funebre

 

nell’apice di ogni orgasmo.

 

 

VI

 

 

La notte scrive vite disordinate.

 

Tra gli incubi delle pareti

 

qualcuno cerca la parola per il disgusto,

 

c’è chi l’attende dal viaggio

 

melmoso di uno scarafaggio

 

o chi fissando la didascalia di un ragno:

 

lei però rimane

 

soffocata dalle bestemmie

 

non va oltre la sacralità

 

di un paesaggio picchiato.

 

 

 

XI

 

 

 

Un paradiso indecente

 

lo immagino adesso

 

questo cuore di cinta

 

con le emozioni

 

alte a gridare

 

mura che non ci fanno

 

vedere altrove la morte

 

conquistata ogni giorno:

 

 

 

 

 

qui tra di voi e la mente

 

spinta alla sonnolenza

 

la logica dei potenti

 

numera i corpi in terapie

 

e questi escrementi

 

sono l’ambizione certa

 

dell’orrore che da sempre

 

abitate sanguinando.

 

 

 

XII

 

 

(scatta foto Eusebio

 

con una macchina senza rullino

 

lo fa per essere quello che è stato

 

moltissimi anni fa,quasi un ottimo fotografo

 

che a forza di guardare la realtà

 

è inciampato sui confini del caos.

 

Ora sorridente immortala

 

un lago in una chiazza di piscio,

 

poi offre giovinezza

 

con un primo piano di rughe

 

dimostrandoci un nuovo punto d’estasi.

 

Per lui ci mettiamo in posa

 

confusi di tanta immortalità)

 

Fernando Lena è nato a Comiso in Sicilia nel 1969. Diplomato all'Istituto d'arte, vive e lavora nella stessa città. Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra i quali il più importante è l'ultimo dal titolo Nel rigore di una memoria infetta (Edizioni Archi Libri, Comiso). Quest'opera arriva dopo un silenzio editoriale di quasi dieci anni.

 

 

 

 

Annamaria Ferramosca, Trittici, il segno e la parola, Dot. com Press.

Trittici

 

di

 

Annamaria Ferramosca

 

 

A volte, all’improvviso, sulla linea pura dell’orizzonte si aprono fenditure. Il poeta si avvicina: il respiro si allarga, le palpebre si stringono nella percezione di un precipizio ancora inesplorato. È un viaggio senza garanzie. Biglietto di sola andata. Al ritorno, se ciò avverrà, si sarà diventati altro.

 

Annamaria Ferramosca, ciclicamente, riparte.

 

Lei lo capisce quando il tempo dell’attesa è compiuto, il tempo che è stato necessario per ricomporre le novità dell’ultima faticosa conquista in un sistema di senso sottilmente rinnovato, intimamente arricchito. Nulla di codificato o determinato dalle mode letterarie. Annamaria  sa che la sofferenza dell’impresa si giustifica solo se la vita è in pericolo.

 

Allora il suo viaggio ricomincia, lì dove il focus della visione si appanna ed è necessario cercare nuovi punti di osservazione. Le approssimazioni si susseguono nell’ipotesi di quel punto dove la solitudine della ricerca si coniuga miracolosamente con l’incontro.

 

 

 

Non è stato facile, nella babele delle immagini che rende la nostra cultura un folle labirinto, non è stato facile distinguere il richiamo di quell’opera d’arte figurativa- quel segno, quindi – che, pur profondamente compiuto, ancora offra spazio a nuove relazioni. Annamaria Ferramosca si accende alla suggestione di figure antiche e nuove per dialogare con esse, attraverso di esse. Un gioco già giocato, si può osservare. Certamente è lunga la tradizione della scrittura legata all’opera figurativa e viceversa. Ma è appunto questa la sfida: esporre il proprio io al contagio di un altro io perché scaturisca un noi senza precedenti, una pluralità umana solo transitoriamente oggettivata nella figura creata dagli artisti.

 

Nella cornice i volti attraversano il tempo, indifferenti. La loro vita è legata allo sguardo di chi passando si lascia catturare. I rapporti falliscono … perché abbiamo smesso di immaginare dice James Hillman (in La forza del carattere). E Annamaria non smette di immaginare, rilancia sulla relazione e fa rivivere il segreto dei volti dipinti, lo coglie nella vibrazione silenziosa che si propaga da quei corpi e precipita nella sua esperienza di donna e di artista. I percorsi si sovrappongono, si confondono. L’arbitrio regna sovrano. Ma non c’è ricostruzione biografica o filologica che possa creare quella verità di cui solo la parola poetica si fa portatrice.

 

Con Trittici l’incontro tra le due arti genera un terzo vertice, una tridimensionalità nata necessaria da quel bisogno di circolarità, contiguità tra le forme del dire, del fare, dell’essere. La ricerca delle co-incidenze, tanto cara ad Annamaria, la natura visionaria dell’impasto verbo visivo  si esprimono nel dono e nel rischio di quel testo poetico che espande le primitive istanze in una dimensione imprevista. Il terzo vertice è saldo appoggio a un nuovo possibile piano mitopoietico.

 

Le donne di Cristina Bove, Antonio Laglia, Amedeo Modigliani, gli autoritratti di Frida Kahlo sopravvivono al loro autore. L’intenzionalità dell’artista è quasi sempre ipotesi remota, ma la loro vitalità si riaccende nelle storie di nuove donne, nuovi esseri umani che con loro si relazionano in un rapporto di complicità quasi animale, come fa Annamaria Ferramosca.

 

Il tradimento è rivelazione.

 

La dislocazione è rischio necessario per non appassire sui territori friabili che la critica di mestiere o la poesia d’occasione hanno già troppo a lungo dissodato.

 

Le donne in cornice, per bocca di Annamaria parlano e raccontano ciò che le donne reali forse non hanno detto mai: pudore, vergogna, desideri, rassegnazione, forse solo per impossibilità di dire, o incapacità di capire.

 

O forse sono solo fantasie, vere anche se irreali, come sono veri i romanzi che danno un nome alle cose della vita.

 

E poi nulla è più come prima.

 

È un biglietto di sola andata.

 

Maria Teresa Ciammaruconi

  

 

 

FRIDA KAHLO

Autoritratto con scimmie* (1943)   Olio su tela. The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel  Foundation   (immagine per concessione Archivi Alinari)
Autoritratto con scimmie* (1943) Olio su tela. The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation (immagine per concessione Archivi Alinari)

 

 

 

capitano son capitano

 

in bianca livrea    una dea

 

e la ciurma è

 

ipnotizzata invaghita

 

mi assorbe mi brancica

 

occhi carbone all’unisono persi

 

sul mio profilo  irriducibile

 

 

 

non si replica un visoabisso 

 

labbra serrate sul non detto

 

nell’umore di foresta nel

 

fogliame largo che mi sfolgora

 

la bella carne e l’effimero

 

che tormenta    vela

 

di lontananza  le pupille 

 

 

 

negra corona sul capo  intrecciata

 

 in forma d’infinito schiavo amore 

 

 negro tetto di ciglia sovrappensiero  

 

occhiuragano  impenetrabili

 

 

 

 

 

* probabilmente le scimmie simboleggiano i suoi  allievi

 

 

 

 

 

 

 

minuscola ma    ferocemente centrale

               una donna

in cammino sul pianeta sfigurato

- quiete dopo l’apocalisse -

la terra le sta chiedendo una rinascita

ora che la luce è tornata a splendere

 

lei risponde come fa una madre

che cerca un riparo per il parto

ripete la sua marcia preistorica

dal cerchio di Stonehenge verso

il fulgido che squarcia gli orizzonti

 

lei cammina verso un futuro antico

-  intorno le voci risuonano nuove

il cuore sempre uguale -

lei dimentica

ogni colpa ogni miseria

ho ancora semi da salvare

bestiame da ricoverare

ricomincerò con le sorgenti con i boschi

e il lago ai suoi piedi gorgoglia vita

racconta di come acqua e terra si amano

disegnando anse lungo i fiumi

 

lei sente l’erba che nel bere trema

sapendo che al rigoglio seguirà la fine

eppure sorride dell’effimero

so di vivere solo per rinascere

filo d’erba o forse gazzella o tortora

fino a che s’alterneranno giorno e notte

lei continua a lasciar traccia dei rifugi

 ponti passaggi tagli

testimone testarda di albe nuove   possibili

 

              

 

  © Annamaria Ferramosca, ® vietata ogni riproduzione e/o uso del testo

                                                                se non previa autorizzazione dell’autore

              ANNAMARIA FERRAMOSCA

 

Nata aTricase, da molti anni vive a Roma, dove, in contemporanea con la dedizione alla scrittura poetica,

ha lavorato come biologa nutrizionista nella ricerca. Ha ricoperto l’incarico di cultrice di Letteratura italiana

all’Università Roma3. Fa parte della redazione del portale poesia2punto0.com, dove cura la rubrica Poesia Condivisa,

di cui è ideatrice. Ha pubblicato nove raccolte di poesia, tra cui la più recente è la plaquette d’arte

Trittici—Il segno e la parola, Edizioni dotcomPress.

E’ del 2014 Ciclica, La Vita Felice, collana Le voci Italiane,  con introduzione di Manuel Cohen.

Nel 2009 le è stato pubblicato, da Chelsea Editions di New York, il volume antologico bilingue

Other Signs, Other Circles –Selected Poems 1990-2009, per la collana Poeti Italiani ContemporaneiTradotti,

con introduzione e traduzione di Anamaría Crowe Serrano.

          Altre sue raccolte edite: Curve di livello, Marsilio, collana Elleffe, a cura  di Cesare Ruffato, 2006, riedito

in ebook nel 2014; Paso Doble, dual poems a quattro mani in italiano e inglese, coautrice Anamaría Crowe Serrano,

Empiria, 2006, traduzione di Riccardo Duranti; Porte / Doors, Edizioni del Leone, con prefazione di Paolo

 Ruffilli e traduzione di A. C. Serrano e Riccardo Duranti, 2002; Porte di terra dormo, plaquette, Dialogo Libri, 2001;

 Il versante vero, Fermenti, con introduzione di Plinio Perilli, 1999, riedito in ebook nel 2015.

Nel 2011 Gianmario Lucini cura per le edizioni puntoacapo  il quaderno monografico La Poesia Anima Mundi,

con la silloge Canti della prossimità e con cd di letture dell’autrice.

       Inclusa in numerose antologie, Annamaria Ferramosca è presente nel portale di poesia poesia2punto0.com con il

Quaderno di Poesia n.67. 

       Numerosi suoi testi sono apparsi in siti web di settore, come la dimora del tempo sospeso, blancdetanuque,

poetry-wave-senecio, carte allineate, la poesia e lo spirito, arcipelagoitaca, l’estroverso, fili d’aquilone e su riviste italiane

(Poesia, LaClessidra, La Mosca di Milano, Le voci della Luna) e, tradotti, su riviste straniere( Gradiva, Italian Poetry Revue, Fire,

Salzburg Revue, Poezia, Poiein)

       E’ voce registrata e inclusa nell’Archivio delle voci dei Poeti di Firenze. Nel 2015 ha partecipato, su invito della

Fondazione Roma, alla 9^edizione dell’evento internazionale Ritratti di Poesia 2015.

      Finalista ai Premi Camaiore, LericiPea e Pascoli., è vincitrice, tra gli altri, dei premi Astrolabio, Guido Gozzano

e Renato Giorgi.

       Suoi testi sono stati  tradotti oltre che in inglese, in romeno, greco, francese, tedesco e albanese.

      Ha curato di recente la versione poetica italiana di testi del poeta romeno Gheorghe Vidican nel libro

3D – Gheorghe Vidican—poesie 2003-2013, CFR, 2015. Per quest’opera è stata insignita del Diploma di

Eccellenza dal Ministero della Cultura di Romania.

 

         

 

 

 

L U C A   A R I A N O

 

ERO ALTROVE

 

 

I luoghi sono vivissimi, se ne sentono gli odori di benzina e caffè come i rumori quotidiani appena percettibili. Campagne e colline hanno la presenza di un momento di vita e bellezza, poi si dileguano in altri paesaggi in altre parole. Con il suo ultimo lavoro Luca Ariano ci consegna ben più di una raccolta  come  semplice insieme di poesie datate entro un certo periodo. Ero altrove racchiude persone e personaggi nel corso delle loro storie, che sono storie reali e presenti. Anna e Teresa come l’Emilio e l’Enrico, Fiulin e altri volti che senza nome si affacciano nei dintorni. Non si raccontano dei fatti in versi, quanto si illuminano dei momenti colti in tutta la loro gioia o in frammenti  più dolorosi. Saranno forse questi tasselli a ricomporre delle vicende, ma non sembra essere l’elemento che maggiormente colpisce noi lettori. Ha più rilevanza la sospensione poetica del narrato, quei vuoti che restano fra un testo e il successivo. Ariano accosta certi gesti e certi sguardi per presentare un mondo senza nostalgie, senza sbavature. Documenta le voci come fossero registrate - esplicite o mormorate fra le righe – cui aggiunge alcuni “fermo immagine” che valgono un’intera narrazione. Prima ancora che poesia civile, questa è poesia dell’uomo che racconta di cadute e riprese, di smacchi inevitabili e destini assuefatti, di scommesse e di sogni. Un’affabulazione documentaria che si fa canto e che  a lettura conclusa ci fa ripartire  di nuovo dalla prima pagina.

 

 

E.B.

 

 

 

 

                                   

Passeggi sul lungomare

 

con sguardo forestiero

 

ma da lì viene il tuo sangue:

 

c’è ancora  l’addore’e mare,

 

di cordami nell’acqua

 

dove si sedimentano civiltà,

 

tracce di epoche sfumate.

 

Tuo padre volto di fame

 

da dopoguerra e un sorriso

 

ragazzino mangiando frutti di mare;

 

li vedi ora contaminati gettati

 

sulla panchina con malagrazia

 

tra munnezza e navi in partenza.

 

Dici che lui rinnega la sua terra

 

ma anche l’Andrea vorrebbe un figlio

 

con stipendi da sottoproletario…

 

non ci fossero mamma e papà…

 

Anche Teresa non lo crescerebbe qui

 

senza lo stesso sapore di salso,

 

di macchia mediterranea,

 

mentre spedisci cartoline

 

come un gesto antico.

 

 

 

 

 

 

Da una collina, accanto al cimitero,

 

un poeta osservava il mare…

 

case di pescatori e scriveva…

 

scriveva… scriveva.

 

Ora quelle case sono una selva

 

di paraboliche,

 

un xiringuito vicino a bianche mura;

 

chi abiterà palazzi su palazzi

 

sfitti in una calda estate?

 

Teresa e Fiulin di treno in treno

 

Tra dimore un tempo splendenti:

 

ora odore di soffritto e rumore di stoviglie.

 

Di notte urla ubriache in bar disoccupati:

 

dello sguardo del poeta rimangono

 

solo impressioni… parole…versi.

 

 

 

El lent record dels dies

 

Que son passats per sempre.*

 

 

 

*Il lento ricordo dei giorni/che sono passati per sempre (Salvator Espriu)

 

 

 

 

 

 

 

Un giorno di papaveri nei campi,

 

di pappi nell’aria di neve

 

e Anna – nome da partigiana Rosa –

 

non voleva essere una donna

 

della famiglia fascista:

 

balzando tra i castagni ha visto

 

montagne abbandonate e boschi

 

dimenticati anche dai funghi.

 

Non più cascine, solo agriturismi…

 

Buffalo Grill e Road House:

 

periferie come Togliattigrad

 

e puttane alle stazioni di servizio.

 

Fiulin s’è sporcato le scarpe di fango

 

Senza un passo che consume le suole

 

In un’epoca da Basso Evo

 

-senza esser stato Impero-

 

Teresa come in Georgia

 

e la nostalgia dei capelli:

 

l’odore delle margherite la domenica

 

si confonde tra crema e aroma.

 

 

 

LUCA ARIANO, ERO ALTROVE, Dot.com Press, 2015

 

 

 

 

 

Paola  Ballerini

 

Nell'arcipelago cresce l'isola

 

Raffaelli Editore, 2009

 

 

 

 

Questa prima raccolta di Paola Ballerini ( vincitrice del premio ClanDestino opera prima) è scandita da epifanie e sospensioni del tempo, incanti silenziosi di paesaggi . Il corpo gioca un ruolo importante sia nella sua forza che nelle sue debolezze e la natura lo accompagna fedele come una carezza. Un bel percorso di 'fermo immagine' lirico per decifrare gli oggetti come le parole.

 

L'ospite

 

Sono io l'ospite

 

di queste sotterranee dimore,

 

di questo tempo

 

opaco,sconosciuto,

 

che arriva nebbioso

 

a confondere le carte.

 

Dopo l'esitazione che mi accorcia

 

il respiro mi risveglio

 

sprovvista di pronostici.

 

Nelle direzioni

 

cardinali e secondarie però

 

la vita continua a soffiare

 

le sue raffiche

 

di noncurante bellezza.

 

 

 

Ora

 

é un esercizio così elementare

 

stare bene.

 

Lo sanno fare gli animali,

 

anche i più piccoli

 

e inarticolati organismi.

 

Mentre noi soffriamo

 

la mancata presenza,

 

senza cogliere l'abbondanza

 

elargita adesso.

 

Alimentiamo l'impulso

 

a respingere con dolore

 

il dolore,

 

come fosse l'ultima parola,

 

moltiplicando

 

la pena di essere vivi,

 

dissipando

 

la trasparenza del presente,

 

istante che non replica.

 

 

 

La ritirata

 

 

Il corpo refrattario,

 

messo al bando

 

non si dipana più

 

matassa viva.

 

 

 

Da troppo tempo

 

non giunge l'onda

 

a lambire la carne,

 

disseminata ora

 

di invisibili interstizi di assenza

 

e ineluttabile caparbietà.

 

 

 

Il corpo cede solo

 

all'avanzare del tempo,

 

altrimenti resiste

 

muro del pianto,

 

stele in memoria dei caduti,

 

casa evacuata,

 

inutile recinto

 

dopo la fuga

 

dell'animale più mite.

 

 

 

Dentro l'iride radici

 

CoazinzolaPress,2014

 

 

La lirica pura a asciutta di Paola Ballerini riavvia il suo percorso dove si era fermato in Nell'arcipelago cresce l'isola. L'epigrafe di Paul Celan è più che un'indicazione per procedere, vera suggestione per la versificazione. Si guarda alla natura per cercare e conservare le radici, accudirle nella vita e nella parola. Il corpo compie un passo oltre per arrivare ad altre voci che si mescolano composte. é una ricerca di arcani in divenire con rimandi alla Bibbia nella prima parte della raccolta, rimandi più simbolici della condizione umana che afflati religiosi.

 

GIOVANNA  FRENE

 

TECNICHE DI SOPRAVVIVENZA PER L’OCCIDENTE CHE AFFONDA

 

Con sei immagini di Orlando Myxx

 

Arcipelago Itaca,2015

 

 

 

L’occhio guarda dritto in faccia il passato, sa che il futuro lo attende alle spalle. Non c’è modo che l’osservazione sia chiusa in se stessa perché è polarizzata sulla lettura di ciò che è stato, di quanto è avvenuto. Noi e i nostri giorni siamo assolutamente determinati da questo e se non sfuggiamo almeno possiamo cercare di capire. Giovanna Frene esplora tracce di eventi di uno ieri più o meno lontano per dare avvio a un percorso tutto quotidiano, necessariamente in fieri e continuo. C’è conoscenza, c’è ricerca, c’è desiderio di comprendere e agire. Tecniche di sopravvivenza per l’occidente che affonda è una raccolta poetica singolare composta da poesie e sestine che delineano il primo corpus di un lavoro più completo a venire. Ma già qui si possono vedere ben delineate le coordinate del suo personale dialogo con la Storia. A farlo scaturire è la figura del nonno soldato nella Prima Guerra Mondiale, idea poi dilatata al secondo conflitto dove protagonisti sono stati i suoi genitori. Allora la Storia si fa allegoria della storia individuale della Frene e la scrittura diviene il mezzo ineludibile per aprire cartelle di immagini e per reperire riflessioni utili. Tutto questo vale per raccogliere testimonianze, ora frammentarie ora centrate e messe a fuoco. Allora la Storia “è il luogo dove si esprime la massima presenza del nulla che ci assedia” e la poesia stessa prende la forma di rappresentazione storica. Se l’orientamento nel presente è difficile, tanto ricordare e decifrare il passato accompagna i giorni. La poesia civile si contamina con andamenti lirici e evocativi, ma rimane asciutta e ferma. La sostanza è dentro l’occhio / ma l’occhio è di vetro.

 

E. B. 

 

 

 

 

I.

 

 

 

si sovrappongono, sembrano a tratti coincidere, si proiettano

 

a poco a poco, in tutta la perfezione si curvano

 

mattoni di fumo, o colpe riversate

 

per non essere proprie, crollate

 

perché alte e gonfie. piove nero, ad arco.

 

ma non è così.

 

 

 

 

IV.

 

 

 

perché nemico germogli a nemico, di notte si sostituisce

 

si condensa in alto, appare come scuro cavaliere che cavalca

 

se stesso: fabbrica bene chi fabbrica per ultimo, approfittando

 

del cambio di azione, lo scopo non cambia mai, se piove

 

se dio vuole, invece non piove, no, ma la terra

 

non è salvata, la carta, sfigurata.

 

 

 

 

VI.

 

 

 

:che si solleva da sola, per la testa e

 

che è un arrovellarsi di cerchi, con scarsi

 

risultati, che è una impotenza tolta

 

e rimessa per sempre, come un peccato, che è

 

infinita sete, che è pioggia che non piove

 

piovuta una volta per tutte

 

                                    in odio

 

 

 

 

 

 

STENDITI A TERRA – SESTINA DI CRIMEA

 

 

 

tutto ciò che si sapeva

 

rimarrà come eredità

 

 

 

 

……come spesso gli uomini singolarmente intelligenti, aveva un numero limitato di idee

 

un numero limitato di supposizioni,per ogni singolo soldato steso a terra:

 

rifare il campo di battaglia,se non si può proprio tutta la guerra,girare

 

al largo da queste vere carogne repellenti,ricreare da vicino se non il morbo

 

del vero il vaccino del veritiero:fare la carogna per intero,in sostanza,

 

dare la notizia non della mattanza,ma della “bellavista”:

 

vedi che il braccio non sia fuori linea retta con la testa rotta,assesta

 

il colpo definitivo al cavallo centrale,centra la vera carne

 

malata,prima che infetta:una degenerazione veramente battagliera

 

di una schiera di inermi frantumati,a sfondo perduto,una quinta di fondamento

 

per una storia fotografica del genere umano davvero alla mano:

 

quello che raccolto ora,sanguina,dal bordo della scena

 

 

 

[su come nell’Ottocento si ricreavano a posteriori i campi di battaglia per fotografarli]

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Randazzo

Tu non sai da dove vengo

Meridiano Zero editore – collana MZlab

 

 

“Devo andare a casa in via Canfora,91.Mi ci porta?”. Da qui ha inizio lo scontro-incontro fra un anziano fortemente confuso e il giovane che gli dà un passaggio. Nel suggestivo arco temporale che va dal pomeriggio all’alba si snoda questo particolare on the road in una Catania dai contorni vivissimi e surreali insieme. Tu non sai da dove vengo è un romanzo che vale come un atto unico teatrale, in cui storia pubblica e storie private si incrociano continuamente. Luci-ombre nel gioco intrigante fra dialoghi e monologhi dei due protagonisti, l’anziano in fuga verso la morte il giovane inaspettatamente catapultato in una ricerca di identità. Francesco Randazzo intreccia le loro vicende parallele in alcuni luoghi deputati che da soli valgono un’intera narrazione – la tangenziale,il cimitero,il mare, l’Etna… tutti variamente interpuntati da testi di canzoni e poesie. Un intero immaginario collettivo che vale  tanto come una sorta di colonna sonora  ai fatti raccontati quanto maggiore coinvolgimento del lettore. Immancabili riferimenti eccellenti ,insomma, per una storia sospesa nel tempo e nei luoghi che sembra non trovare una conclusione nemmeno all’ultima riga. Anzi, oniricamente è pronta a riavviarsi. Una lingua quotidiana al limite del gergo e del dialetto, insieme alla scansione piana dello stile, ci accompagnano in questo viaggio realistico e sognante. La vera vita è altrove?

 

© 2015 Meridiano Zero di Odoya srl Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-8237-347-4

Copertina: Mauro Cremonini

Meridiano Zero
via Benedetto Marcello 7 40141 – Bologna www.meridianozero.it


GUGLIELMO APRILE

Alcune pagine del libro

 

 

Guglielmo Aprile vede nella poesia un grido profetico, un

gesto di ribellione, un manifesto per una paligenesi spirituale.(...)

 

L'uomo (...) è un figlio dell'universo, di un universo visto nel suo misterioso essere in perenne movimento e mutamento, come lo vide Williamson Blake, con una mano remota che comanda alla vita di schiudersi e perpetuarsi.

 

(...) Questa è una poesia epica. Di un visionario che sogna un mondo diverso, che capisce che soltanto una utopia sconvolgente e ancora inconoscibile sarà la salvezza della Madre Terra e di una umanità discesa verso l'inferno del non senso, del nichilismo, del distacco dalla natura, dal mistero, dalla sacralità, dalla bellezza.(...)

 

 

Giuseppe Conte

 Dalla prefazione a Nessun mattino sarà mai l'ultimo.










 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 

" Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della "poesia onesta" di cui scriveva Saba non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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  • Poesia proposta: Angelo Santangelo, Giulio Mazzali, Marco Bini
  • Poesia Proposta: Canaletti, Pataro, Di Meco
  • Poesia proposta: Cunial, Viti, Viotto
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  • Poesia proposta: Antonio Bux
  • Poesia proposta: Mirra, Allo, Strinati, Ciampalini, Carnevali, Peralta, Casulli, Bresciani, Marrone
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