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       Poesia proposta

 

 

                                         

MARIO LAGHI PASINI

 

                                                  Dallo stupore

 

del sogno interrotto

salivano

gli eserciti della notte

a fondersi

con i segni delle cose

in coesistenza di ombre

 

Era la chiara follia

di lucenti labirinti

mille volte risolti

erano gli echi  inattesi

colti a risuonare

su ignoti percorsi

nel buio ritenuto più sordo

 

I draghi favolosi

ai piedi del nido

reso invisibile

da tante morti e resurrezioni

senza dolore

e le voci e i passi armati

e la presenza della madre

 

Nel chiarore della luna

perfetto disco di perla

le ferme ali

tese ad ogni vittoria

e l’unica falena rotante

l’unico lampione oscillante

nella brezza alito

 

Nel caldo stagno del sonno

sprofondavano poi

gli eserciti della notte

richiamati ad altre innocenti

giostre crudeli

alte croci uncinate

svanivano liquefatte

lasciando pochi cerchi tranquilli

 

                   

 

 

 

Nello sterminato paese

dove molto è possibile

che da tanto tempo percorri

è ancora sera

 

Alti brandelli di nuvole

bruciano nel sole

ma i fumi leggeri

lenti aliti della terra

salgono già azzurri nell’ombra

 

Presto verrà l’ora silenziosa

della malinconia

poi le stelle

sorvoleranno il tuo riposo

che è il mio

 

Mai come di notte

è salda la tua armatura

mai come nel sonno

sei vivo

 

Alle prime luci dell’alba

quando la morte è a un passo

e più lieve il respiro

sembrerai per un attimo

il gioco curioso

della rugiada

su complesse tele di ragno

poi tornerà la tua immagine

e riprenderai il cammino

 

Alle tue spalle

la strada è di pietra

consumata da ere

mai scorse

e nella solitudine

biancheggiano antiche rovine

ma tu non ti volgi

cavaliere

e nell’intensità vibrante

del giorno nuovo

aguzzi lo sguardo

lungo la traccia leggera

che sicura e improbabile

ti guida ad ogni meta

 

 

                   INEDITI

 

 

Immagine

 

di una stazione notturna

di passeggeri sonnolenti

in attesa

di improbabili treni

 

Ripetizione

di uomini e cose

così come

modelli

sofisticati d’incompletezza

 

Emigranti mai partiti

che non arriveranno

e giornali esposti

e mai stampati

dove si leggono

titoli

senza memoria possibile

né riscontro

 

Forse non è nata mai

Marilyn Monroe

e Kennedy vi è morto

a ottant’anni

 

Forse niente esiste

fuori della scena

ma non è facile dire

che differenza ci sia

con le cose e gli uomini

del giorno

 

In una sala appartata

sto forse sognando

e la ruvida poltrona

non mia

e chissà quali tristezze

agitano

i miei pensieri

 

Una spirale

senza fine

o l’anello chiuso

di una breve catena

 

Ma ormai il tempo

astratto signore

è trascorso

e certo qualcuno

mi cerca

per chiudere la partita

 

Così nel pericolo

piangere

per l’amore deluso

e spiare ancora

per altra via

altro sguardo

altro passaggio

il grigio cavaliere

 
Autunno s’inoltra

riporre

la lucente gorgiera

e la lancia

indossare

questo aderente mantello

e nascondervi

la misericordia

lasciare

la pianura solitaria

dove niente è possibile

e andare

 

Alte cortine

di fiamma bianca

qualche volta

intraviste

al limite degli occhi

e mai veramente

inseguite

forse il confine

del mondo vuoto

da varcare

 

E il coraggio

la pazienza

l’affetto

nonostante tutto

e la vertigine

di un attimo                                              

 

 

                                

Vertigine

 

Se come sembra

a distanze inconcepibili

una sfortunata scintilla

già domani in un attimo

potrà spengere il cosmo

tutto finirà senza risposte

sul come e sul perché

né orecchi per ascoltare

né senso per valutare

né tempo per ordinare ...

- ecco - neppure il tempo

solo un vuoto invisibile

mare ribollente di sé ...

 

... che invece si immaginava

una lunga agonia oltre

ogni nostro possibile destino

di misera caducità

con il sole già spento

le stelle svanite

nella lontananza ...

...ora guardo in alto

al grande universo

dove viviamo sperduti

con uno stupore in più

come di aver scoperto

l'interruttore di Dio...

 

... poi risvegliarsi e chiedersi

il perché di questo desiderio

e allora penso all'effimera

che ha volato stamattina

e che stasera morirà

agli alberi che docilmente

si piegano ai venti

ed ogni primavera generano

nuove foglie e semi

quasi certi di non fiorire

e agli altri ubbidienti figli

della stessa madre cieca

che ci ha plasmato...

 

... loro forse sanno

solo noi cerchiamo.               

 

                           

 

Rose

 

Un po' infreddoliti

nella città del nord

a ritrovare il locale

dove cenare liberati

forse discretamente felici

che il controllore

ancora mi avesse graziato

- ci rivediamo tra un anno -

 

l'avevamo superato

frettolosi

rilevandolo appena

con le assurde rose

che offriva ai passanti

appena sporgendole

giovane faccia nera

infagottata di lana.

 

Al ritorno era ancora lì

quasi immobile

con tutte le sue rose

mentre già noi eravamo

al viaggio di domani

con l'inquietudine

che il tempo dipinge

su cose sempre più semplici.

 

Mentre faceva il suo cenno

verso di noi

ormai solitari passanti

incontrai occhi miti e tristi

che subito abbassò

con le braccia e le rose

riconosciuti che fossimo

o no - se poi nessuno s'era fermato -

 

e così lo superammo ancora

lì per lì inavvertiti

poi lo sguardo il gesto

l'inutile attesa il freddo del futuro

il ricordo di certe cose

dette duemila anni fa circa

e l'ingratitudine stessa

per la salute prorogata

 

mi corsero dietro protestando ...

 

... ma ormai precipitavamo lontani

incapaci di ritornare

prigionieri dei troppi pensieri

anche l'occasione di un fiore

da donare inaspettato

alla compagna di sempre

consumata dalla stanchezza

e dalle luci dell'hotel.

 

E allora perché scriverne

dopo un po' di giorni grigi

di questo lungo autunno

di malumore protratto

se poi alla fine

di certo passerà?

Forse proprio perché

ne resti almeno qualcosa

 

anche piccola

come una spina di rosa.             

      

                                      

 

Settembre

 

Questo tiepido settembre

non sa nascondere

l'impigrirsi del sole

che stenta a ritornare

e più presto va a dormire.

 

Deboli segnali lì per lì sfuggiti

all'occhio e alla mente

hanno turbato qualcosa

nelle viscere misteriose

sui cui galleggia il pensiero.

 

Più frequente è la malinconia

più ferito il cuore ...

presto sarà Natale e l'anno finirà

ma resterà sulle nostre spalle

a pesare senza poterci far nulla...

 

... forse nemmeno dirlo a qualcuno

con una poesia medicina

- abbraccio e conforto -

contro il tempo veloce

che corre via come settembre ...

 

... non ai giovani ancora immortali

e ai grandi che ci compatirebbero

o ai vecchi per non incontrare

sguardi perduti o folli

e il velo di qualche lacrima.

 

Né ai cari morti da poco aggiunti

alla schiera degli scomparsi

perché di essi nulla si sa

neppure se il loro tempo

alla fine si è fermato.    

 

                                      

 

L'albatro

 

Lieve il maestrale

smuove le tue foglie aureolari

signore del mio prato

mentre offri nel pieno sole

di questo ottobre

i piccoli fiori bianchi

e i pochi frutti scampati

alla sete incessante

di una severa estate.

 

Forse sogni i tuoi fratelli

arrampicati sulle colline

da Siena al mare

dispersi nella macchia

della maremma

ne ascolti le voci

trasportate dal vento

profumi e polveri

che parlano di piogge

ancora lontane

e di astri declinanti.

 

Tortuoso e rustico

non sembri propenso

alla dilagante malinconia

che io leggo nella campagna

sospesa in attesa dell'inverno

perché tu vivi quieto

nel ciclo perfetto delle stagioni

e sai che all'intorno si muore

per ogni volta rivivere.

 

Invece io non rinascerò

ogni primavera e già sogno

il mondo dopo di me

il nuovo ospite di questo prato

che magari finirà per tagliarti

con tutti i miei ricordi

perché gli nascondi

poggi e castelli lontani

mentre non vede

la tua chioma rosseggiante

quando nell'ottobre

mostri orgoglioso

i frutti dell'anno - una vita.

 

                                         

 

 

Il bordo

 

Una pianura bianca

l'orizzonte indistinguibile

a confondersi col cielo

forse colline

forse nuvole grigie

poi una linea scura

ancora lontana

un fumo leggero

presto disperso nell'aria

a sovrastarla

e a suggerire fuoco

in lento avvicinamento

tutto intorno a me

io mi guardo le mani

sono di carta

i piedi disegnati

il respiro altrove

il cuore fermo

posso provare a gridare

chiedere aiuto

ma come

e a chi?                        

               

 

Sguardi d'insieme

 

Trascinato e immerso

nei piccoli peccati

di ogni giorno

più che altro omissioni

egoismi irriconoscenze

trascorro nel tempo

sempre più immemore...

...le parole che sfuggono

i faticosi percorsi per ritrovarle

le strade dirette cancellate

in lugubre presagio.

 

Eppure guardo il prato

e le siepi rinnovate

nel rigoglio prodigioso

di questa tarda primavera

e sento la dolcezza

che emerge in immagine

come la superficie del mare

che è solo l'inganno felice

dei sensi che non vedono

il fosco titanico ribollire

delle molecole.

 

E mi piace descriverli

la primavera e il mare

senza le parole dimenticate

né le trasformate di Laplace

e gli altri complicati saperi

che una volta articolavo

e ormai sono solo nomi...

...forse sono anche migliore

ora che non servo più a niente

al più a soffermarmi così

negli sguardi d'insieme.

 

 

La maggior parte delle poesie presentate sono estratte da Spaziotempi minori, ovvero da una produzione dispersa in almeno quaranta anni e sono comunque disposte cronologicamente. Le ultime sei sono invece inediti recenti.         

 

 

 

Mario Laghi Pasini

Dopo la laurea in Ingegneria elettronica si è occupato per tutta la sua vita lavorativa di informatica in una grande banca. Ha pubblicato una raccolta di racconti L'ospite dell'interfaccia (Polistampa, Firenze 2007) e una raccolta di poesie Spaziotempi minori (Interlinea, Novara 2016)

 

 

DIMITRI  MILLERI

 

 

 

OTTO POESIE      

(inediti)

 

 

 

 

Ragazzi, tornando a casa

 

 

Restano là, nel buio ingiallito

di un lampione

a riciclare come possono bottiglie

collolungo, proiettandole lontano,

fino ai frantumi.

 

Loro è il fondo della spesa non fatta,

l'esule dolciume che non nutre,

il vuoto in mezzo al pieno.

-filmano intanto, tentano

la gloria oltre il gesto-

 

La madre loro è il virus

a trascrizione lenta

penetrata nel terreno fertile,

il padre è la trascurata

infinita faglia nella bambagia.

 

Occorre ruminarli a lungo,

per dirli con grazia e compassione,

immaginarli finire miseri

nel privilegio,

dopo acute e superflue grida,

di colpo: come il viaggio del bucato

a fine ciclo.

 

 

 

Ritratto di famiglia

 

 

Il padre conquista

e poi scompare,

si duplica e fugge.

Si fanno oggetti le persone in lui:

se ne circonda e le maneggia

senza conoscerle affatto,

come fa col computer

o la T.V.

 

La figlia è remissiva, dolente.

Quando è lontana l'ombra,

gioca festosa, si dice autonoma;

perde il sonno al minimo accenno

di un ritorno: così si logora

nel nascondino.

 

I figli della figlia-madre

giustificano e bastonano

l'occhio che non desiste

dal dire Orrore,

dal sognare un parricidio

che investa tutto il futuro,

tutto il passato.

  

 

Nella sera si raccoglie ogni cosa

 

 

Nella sera si raccoglie ogni cosa

che non si possa fotografare

o condividere:

nere sagome di pelle nera

vestite, l'ebbro ricurvo,

l'odore di fumo e di nervoso.

Indicativo,

compare nella mano il calore

come di un saluto,

anche se ancora una sottile

superficiale estraneità riveste l'aria

e nessun contatto è avvenuto,

né avverrà.

 

 

 

A un allievo

 

 

Tu, piccolo Lapo, mi chiedi

se sia il concerto una verifica di scuola,

con quali armi e tremori

presentarsi sottintendi, se si compia

selezione naturale. Dico:

                                          "Siedi,

raggiunto l'apice del palco,

gustando gli ultimi rumori

dell’insabbiarsi della folla in te.

Racconta loro la tua storia,

e se una pagina si satura d'impaccio,

se ti appassisce il suono in mezzo ai tendini,

niente paura: è un canovaccio

questo cumulo di segni, e se ti cambia,

o se ti muore fra le dita non importa.

Scoprirai,

fra il rimostrare delle vene e i sogni

di vecchi spersi, volti nuovi,

volti nuovi più del tuo".

 

Non importa quante piaghe,

o quante lotte per la vita affronterai:

se piano piano ti rivesto

dell'aprirsi del tuo volto,

                              come adesso.

  

 

Si contraggono le tue vene azzurre,

 

 

Si contraggono le tue vene azzurre,

per riemergere nel ventre

del lenzuolo di panno grezzo,

che sembra un foglio da disegno.

 

Dalla finestra appare un pino segmentato

dal doppio vetro e dalla zanzariera.

Vorrei soltanto che il tuo respiro

prendesse il mio e poi insabbiasse il resto.

 

È un paradiso questo, un privilegio

poter restare nudi a respirare,

pochi lo sanno ed io, fin troppo,

ne percepisco l'aura.

 

Per mia fortuna tu sei molto abile:

con il tuo gas esilarante appanni

questo immergermi incauto

in colpe enormi, irrimediabili.

 

Sorridi adesso, il bus ti porta via.

Allo scarico si mesce la menta

che pesto. Sei irreale nella quiete

dei  tanti tripudi domenicali.

 

 

 

Un Padre

 

 

Una gru si erge enorme come un Cristo

contro un cielo azzurro di foglia d'oro.

 

Così te ne stavi tu, forte di sacralità

non dette né scritte, e nessuno fiatava.

 

Sotto allo stesso cielo, palme

e tardi addobbi di Natale,

decorazioni di ogni tempo e luogo.

 

Di ogni tempo e luogo tu recavi nel ventre

gli scettri con cui ci urlavi senza parlare

di aiutare nostra madre, mentre restavi a letto.

 

A fumare. Riuscivi a frantumare i pavimenti

con gli sguardi, col silenzio.

 

 

 

Ti avrei quella notte amato

 

 

Ti avrei quella notte amato

come l'acqua che inondava

lo stretto camminamento, la sabbia

di cui mi nutrivo con i piedi

e ogni cosa che era un tumulto

e una gioia inarrivabile.

 

In quella tenda solo un'orma

di sole, di sabbia solamente

una manciata e sulla mano una goccia.

Di più, perdonami, non avrei potuto,

ma tu se ma mai ti sei creduto

per gioco di quelle repentine inondazioni

argine eletto o casuale, fidati:

non fu arroganza quel tuo sguardo chiaro.

 

Senza comprendere più debole

mi ritrovai quando da te lontano,

dal quel tuo oscuro e preciso sapermi.

 

 

Coppia

 

Con quanta indifferenza

gli si prosegue

la corsa accanto,

si liberano i parcheggi intorno

per la partita. Come fossero

il bus che tarda o un'altra deviazione.

 

Ha un'altra donna.

L'ha vestita dei panni di lei-

che adesso urla e gli deforma a calci

la portiera- affinché il letto

non si turbasse troppo,

mentre la possedeva.

 

Ma la violenza è breve:

non è il momento questo in cui la lama,

che passa fra le costole

giorno per giorno, si contorni

su neri set di sinistri astanti che

prendano parte e confondano.

Adesso il magma è freddo e fino in fondo

si fa toccare.

 

Come se fosse scritto, lei

già lo riprende fra le braccia

e rientra in macchina.

Suonano come rostri i nastri in nylon

presi dal vento,

e ciò che conta è non andare soli

per questo Aprile.

 

Dimitri Milleri

Dopo aver frequentato il liceo musicale di Arezzo, si iscrive alla Scuola di Musica di Fiesole sotto la guida del Maestro Alfonso Borghese. Appassionato di letteratura fin da piccolo, compie i primi passi verso la poesia sotto la guida di Bill Dodd, saggista e docente di letteratura inglese che organizza dei gruppi di lettura poetica nella sua città. Nel 2017, la Casa Editrice Rocco Carabba pubblica la sua silloge d'esordio, Frammenti Fragili, con cui vince il primo premio ( sezione “poesia edita”) del XIX Premio Tagete. Svolge in contemporanea l’attività di librettista e scrittore di testi per musica, collaborando coi compositori Andrea Gerratana e  Riccardo Perugini.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alessandra Corbetta

 

Poesie

(inediti)

 

 

AUGUSTINE

 

Non la pioggia, né le mani.

 

Il vento

del fuoco soldato bagnava

le labbra scarne, a tratti mute,

folgori dal sapore di rosa. E quando tutto,

improvvisamente, si mosse

gli aghi dai pagliai vennero fuori,

zampillarono le tue ossa,

           Augustine,

ma tu non le vedesti

ferma com’eri a non tradire la Patria,

un ideale, una qualunque dipendenza dalle cose.

A mandrie ti sollevarono la gonna,

tua madre nella foto stava a terra per non guardare

penetrarti la speranza, l’illusione, il caduco credere,

il volere andare.

 

Non le mani, né la pioggia.

 

 

 

IL FANTASMA

 

Questo egoismo invisibile

è un fantasma che non bussa alla porta;

mi si è steso accanto nel letto,

con uno sguardo morto

e un mazzo di carte in mano,

pronto a un poker

cui ha già rubato gli assi.

 

Io giaccio viva ad invocarti

e sposto indietro le lancette:

prego che i tuoi capelli cessino di essere bianchi,

imploro una rivoluzione.

 

Questo egoismo invisibile

è una bacchetta magica,

che ha trasformato la tua seta in lana

infeltrita e macera, schiumosa

come il velo del fantasma

che, ora, lo solleva

e mi mangia.

 

Io mi alzo morta ad invocarti

e tiro avanti le lancette:

spero che le tue labbra cessino di essere cobalte,

spergiuro sulla rivoluzione.

 

 

 

QUELLO DI HANNAH

 

Parole, silenziose mute,

libere refrattarie virtù han combattuto

nelle bocche superstiti dei vivi-

morti per raccontare il male,

                                         (quello banale di Hannah)

perché qualcuno,

                                          (chissà chi)

ha detto che sono ossa le parole,

il bianco spicchio di luna sepolto

nella terra umida

accecante come sole. Scava! E comincia a parlare.

 

 

Da

Essere gli altri, Lieto colle, 2017

 

 

Acqua sporca

 

L’acqua sporca mi ha sommersa di piacere,

che disgrazia vedere la bellezza.

Ma una goccia del ricordo di rugiada

diventa pioggia di purezza
nello specchio pulito dei tuoi occhi,

in cui piange la mia felicità.

 

 

 

Alter

 

La fortuna di essere gli Altri vorrei pescare

dentro la bolla,
tra i foglietti bianchi.

 

Non essere me, per un attimo

e te neanche, ma gli Altri.

 

I passaggi tra gli orifizi nascosti
che il piacere sfiora,
o le gambe della ragazza qui da parte,

fuori da ogni tessuto, il buco del maglione:

ciò che in ogni relazione manca,

 

essere gli Altri.

 

 

 

 

Arthur e Claude

 

Aveva ragione Claude: l’amore è un frangente

breve dentro alle cose perfette,
la bellezza assoluta per un attimo solo.

 

Correre, correre, correre dietro alle scie

prima che si spengano,
nell’intervallo fugace tra noia e piacere:

aveva ragione Arthur.

 

Forse, Claude, solo lì si poteva amare
nel tuo non amare convinto,
solo lì, forse, Arthur non avrebbe avuto ragione.

 

 

 

 

Cadenza sospesa

 

Aspettami pure al varco, sto arrivando!

Dammi solo il tempo di ricontare
chi ho già visto passare da qui;

lasciami l’attimo di mettere insieme

le ossa che abbiamo perso per strada,

scivolando coi ghiaccioli in mano.

 

Quante facce bellissime e strazianti,

le immagini sfuocate
di ciò che siamo stati.

 

Attendimi al varco, amico, arrivo!

Qualche istante soltanto per accarezzare

il vento delle anime

che ho amato tanto. 

 

ALESSANDRA CORBETTA

 

Alessandra Corbetta

È dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e dei Media e collabora come Web/Social Media Master e come Content Writer con La Casa della Poesia di Como.

Ha scritto per la rivista culturale Alfabeta2.

Per Flower-ed ha pubblicato la monografia poetica L’amore non ha via e per Silele Edizioni il romanzo Oltre Enrico (Cronistoria di un Amore sul finale).

Scrive di poesia, società e cultura per il blog Tanti Pensieri e di New Media per il giornale online Gli Stati Generali. Per il blog Menti Sommerse dirige la rubrica poetico-letteraria “I Fiordalisi”.

È appena uscita, per  Lieto Colle, la sua nuova raccolta di poesie “Essere gli altri”.

 

 

 

 

Carla Malerba

                                                    poesie

 

 

 

E come potrei dimenticare

 

E come potrei dimenticare

quell’ascensore

odoroso di cera

e cigolante,

un ascensore rapido

che conduce in alto

dove si spalanca

la vallata?

Per lui, il poeta,

era l’inizio del viaggio,

ma la sua era notte di nebbia

e udiva solo, ad ogni fermata,

tintinnare i vetri dei vagoni. 

 

 

 

Che dire di passaggi di mare

 

Che dire di passaggi di mare,

ombre di niente

ormai sfocate,

di forti cose

e di quel sentire

aperto alla vita,

di inde niti suoni?

 

Occorre forse una distesa di vento

su una terra senza confini,

occorre che tutte insieme

le cornamuse suonino all’alba,

che di stelle non sia avara la notte

per dispiegare ancora le note della gioia. 

 

 

 

Quella mattina

 

Quella mattina,

pesce tra mille,

mi son trovata

sull’orlo del tempo:

giorno speciale

l’undici marzo,

l’acqua bianca

fa trasparire

i gradini del molo

e c’è il sole alto

sulla fascia di mare

dove Tripoli appare. 

 

 

Da Vita di una donna, La vita Felice, 2015.

 

BALCONE (1989)                                                          

 

L’odor salmastro

si spargeva largo

per le strade

gialle di luce.

Quella la casa,

quello il mio villaggio

e sul balcone

tu, la mamma ed io,

mentre sale

dalle vie deserte

un canto

per le sere infinite

che verranno.

 

Carla Malerba  da  “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

ERI TRISTE STANOTTE (1999)

Eri triste stanotte

sul lungosenna.

Quasi piangevi.

Scorre il fiume

e la solitudine

attanaglia l’anima.

Buio di mondi

alla deriva

che nessuna certezza

fa restare.

Ti ho circondato

d’amore,

le mie braccia

piene d’amore,

le mie mani

piene d’amore.

Tu hai appoggiato, grato,

la fronte contro la mia,

nella tristezza consapevole

di condivisi destini

e hai lasciato

che la pietà

colmasse voragini di infinito

spalancate dinanzi a noi,

perdute, sacre immagini,

divinità mortali.

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

MIO PADRE E’ COME UN FIORE DI SERRA (1999)

 

Mio padre è come un fiore di serra

Perché non teme più

Il vento

O il sole o la pioggia.

 

Io lo guardo

Ogni mattina

Per vedere

Se petali e corolla

Sono sciupati,

perché la sua pelle

è come pergamena,

con tante venature,

e il suo capo liscio

ha intorno

una lanugine infantile

che par fiorita

questa notte.

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

  

DESERTA E’ LA TERRA (1999)

 

Quando i figli restano soli

deserta è la terra.

 

Io poggiavo la fronte

sulle tue scarne ginocchia

e sentivo il tocco leggero

 della tua mano

sui miei capelli.

 

Ora la notte

scruto le stelle

per vedere

se due, almeno due,

hanno una luce diversa,

una luce fatta parola

che spezzi

il peso dell’eternità,

che mostri

il segno cercato,

il filo d’amore

mai spezzato

tra chi resta e chi parte.

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

  

PAROLE

 

Il sole che declina

trasfigura i tratti del tuo volto:

luce sono i contorni

delle guance,

luce lo sguardo.

Mi guizzano

improvvise dolcezze

alla memoria.

Albergano sensi stupefatti

nelle cose dintorno,

inesprimibili al cuore.

Si è rarefatta l’aria

e flebili sospiri

sembra portare il vento.

Ah, le parole!

Timide, incapaci di dire

tutto il tumulto trepido,

tutto il sentire.

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

  

 

 

TU DORMI (1999)

 

Pesanti ha reso

le tue mani il sonno.

tu dormi.

Si prolunga il tempo

di stagioni

che non sanno definirsi.

 

Assurdi

duelli di parole

incidono l’aria

e gli echi della vita

si rincorrono.

 

Di tutto il sentire

più forte

mi resta

la pietà.

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

 

 

 

 

 

Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”

 

 

 

 

 Carla Malerba compone poesie fin da giovanissima, ma ha cominciato a pubblicare la sua prima raccolta dal titolo Luci e ombre nel 1999, seguita nel 2001 da Creatura d’acqua e di foglie. Nel 2010 la raccolta Di terre straniere rivela in alcune liriche la nostalgia per la sua infanzia africana. In Vita di una donna riprende i temi del viaggio esistenziale e degli affetti.

ALESSANDRA MERICO

 

 

                                                        POESIE

 

 

Fosse anche

stretto tra le mie dita

io lo vedrò il tuo cuore bruciare

all’Inferno

 

 

 

 

 

ho acceso Venere

per prima

ogni sera

a fare amore

nei tuoi pruni

di ruggine

 

ma tu non guardasti mai

 

così una notte

l’ho uccisa

per te

che delle altezze

hai paura

a vedere

se a terra

l’avresti

guardata

anche solo

una volta

 

 

 

 

 

lunghi e appiccicosi l

’uno all’altro

i giorni del niente

avvenivano depositandosi a strati

 

gradini alti e marmi

all’arresto del crescere

 

le stagioni nella sfera

venivano alternate

al rimestio del vetro

e lo slancio cambiava

allo scuotere

sotto nevi di plastica

tutte uguali

 

se non fossero stati

i giorni del niente

si sarebbe potuto

sfondare dal dentro

a strapiombo cadere

dai tavoli

 

che forse rotte le ossa

avrebbero fatto

meno dolore

che piegate

 

 

 

 

 

non trattengo più

le acque del parto

sguarnita sgorgo

all’impatto

senza un vagito

a vegliare

senza libri

con le figure

 

 

 

 

 

nell’impossibilità

di avverarci

noi ci atterriamo

 

convinti

che una tenia

nascosta

ci legittimi

 

 

 

 

 

Chi berrà la mia sete

di vene aperte, le tue?

Vorrei vederle scolare

nella vertigine

rimescolate

all’eucarestia

con il sacro

e che tutte le ostie alzate

portassero anche il carnefice

assieme alla vittima

che a volte non

si distingue

l’artiglio dalle dita

nella presa

che scarna

 

inghiottire

questa sete

immergere la gola

nell’acquasantiera

della remissione

e lasciare dietro

le mani che fremono

allo stesso istinto

della bestia ferita

 

 

 

 

 

Nel dire tutto

si sono stesi

fuori all’addiaccio

i verbi

a fianco agli aggettivi

a sgocciolare via

ogni significato

nel perturbare

di un dicembre

senza nascite

 

non contò nulla

emettersi in suoni

nel racconto

delle possibili scelte

 

che il tempo non conserva

nel sotto

false testimonianze

 

il dizionario dello spergiuro

l’ho trovato stamane

alla fiera dell’est

per due soldi

lo davano

assieme

al topolino

 

 

 

 

 

vincerà su tutto

il cinismo

a inghiottire lo sforzo

di ergersi a scettro

celeste

-piccoli messia

da toilette-

 

armature in resina

agli avambracci

incitare le folle

dall’alzo del podio

 

acclamati

senza mai

pareggi

 

eroi da giardino

 

nel riflesso

di pozze

nei lastricati

si svelerà

il deforme

degli scheletri

l’incurvo nero

inciso di cartacarbone

senza doratura

 

così che Biancaneve

possa riconoscerli

stuporosa

nelle loro

reali dimensioni

 

 

 

 

 

si è licenziato

il portiere del me

 

nell’intimo c’è troppo

da rificcare dentro

le cassettiere

troppi ricordi

agganciati

alle imposte

a sfibrarsi

nelle fenditure

emotive

 

ha messo poche

cose in valigia

il portiere del me

 

ma alla stazione

dei treni

nessuna partenza

 

non lo sa che

tra le pieghe

verso mastice

a restare

 

 

 

 

 

bastasse un bacio

ad unire i mondi

convertire in credo

gli infedeli cuori 

 

 

 

 

 

 Da Contro Venere, Quaderni del Bardo, 2017.

 

 

 

 

 

 

di Alessandro Fo

 

 

Alessandra Merico, Contro Venere, prefazione di Davide Rondoni, postfazione di Marco Mattolini, Sannicola (Lecce), I Quaderni del Bardo, 2017.

 

Molti sono i modi con cui si può versare in poesia la piena degli sconforti che travolge e avvelena per un lutto d’amore. In Dresda (Viareggio, Pezzini, 2011) Francesco Bargellini si auto-raffigura come quella sventurata città dopo il bombardamento. In un suo meraviglioso e poco noto libro, Pier Antonio Quarantotti Gambini tesse con paziente e meticolosa delicatezza un lungo, malinconioso regesto dei giorni belli che furono, e poi degli errori, e della dispersione (Racconto d’amore, Milano, Mondadori, 1965). Un telegrafico «tautogramma» di Alessandra Palombo (Tautogrammi d’amore e d’amarore, Genova, Liberodiscrivere, 2005, p. 57) registra

 

Nessuna notizia,

nessuna novella,

neanche negativa.

 

Niente.

Nulla.

 

Nella notte

nasce nostalgia.

 

Stessa sospensione, altra Alessandra a ritrarre il tempo fermo della non-notizia, quello in cui secondo per secondo ci si arrampica verso un nuovo record di resistenza (sono già xy giorni, ore, minuti che mantengo le distanze…); così (p. 51):

 

quel tempo in cui non ci fu notizia

io ero fremente

il ribollio dell’intenso, del compiuto

mi teneva avvinta a sé

un darsi fuori senza centimetri

un filo al polso che portava

altrove

 

quel tempo, proprio quello e nessun altro

legava con note a margine

le vite non essenti l’una per l’altra

ma allacciate in relazione al sentire

che nulla ha a che fare col vedere.

Non ingialliva l’autunno e

quel campo con l’erba più alta era il nostro.

 

Allora mi si intimò di giudicare

quel tempo e sempre quello

in cui non ci fu notizia alcuna

e di distinguere me e poi l’altro

dall’intrusiva spinta dell’uno

attraverso il due che io facevo mia

per restare proprio in quel tempo d’ascolto

 

ma nel compiersi quel paradigma

non collimava più con quel tempo

che tendeva a un altro tempo

così smarginavo ai bordi, scalpitavo

mi si costringeva a un oggi diverso dagli altri

perché nel distinguerti tolsi da me te

e quel tempo uccise il sospendere

di me e te in qualsiasi cielo possibile.

 

Ma non inganni il tono quasi di meditazione lirica. È una minima pausa fra banchi, toghe e scranni. Perché Alessandra Merico sceglie la via della chiamata di correo per il passato partner e per Venere, quella dell’atto di accusa, dell’arringa Contro Venere, in quanto mandante, e, naturalmente, contro il di lei sicario.

E se Dresda dev’essere, sarà Alessandra stessa il bombardiere.

Questa sua eloquente e appassionata orazione è gotico fiammeggiante. Fiammeggiante, perché ogni bombardamento comporta macerie e sangue. E gotico, perché di sangue se ne versa parecchio. L’epigrafe di una sezione si rivolge a Shakespeare e mutua una battuta di Lady Macbeth: «Qui sa ancora di sangue: non varranno tutti i balsami d’Arabia a profumar questa piccola mano.” (Atto V, scena I)». Del resto (p. 37)

 

quando siamo

al solstizio

d’estate

tinteggi

la stanza

di rosso

facendo di me

la tempera.

 

Quanto alle macerie, nemmeno quelle mancano. E anzi le parole stesse si s-gretolano, in una ridda di invenzioni che capitalizzano una s– privativa, o, se si preferisce, s-membrativa, devastante: s-fibrare, s-proteggere, s-nevare, s-marginare. È solo una delle modalità escogitate da questo mare molto mosso di affetti, per spremere e torcere la materia verbale, onde ridurla a uno stato che ne consenta l’impiego quale carburante per lanciafiamme, per una lingua, più lingue di fuoco. È al convergere di «lava» e di «slavina» che sembra generarsi la «lavina che inghiotte» (p. 22); e dall’avverare all’atterrare il passo è breve (p. 67):

 

Nell’impossibilità

di avverarci

noi ci atterriamo

 

convinti

che una tenia

nascosta

ci legittimi.

 

Siamo nella sezione Fuori dalla grazia di Dio, che vale a ulteriore segnale del furor che incendia le pagine, ma soprattutto a minaccioso monito: nulla rimarrà impunito, siamo «fuori» anche da ogni possibile, santa che sia o divina, misericordia  (p. 65):

 

fuori da ogni perdono

le offese sferrate

al costato

e arcate di gole fumanti […]

 

fuori da ogni perdono

siamo noi

calcinacci

e rovine

senza domani

che sbattono

i pugni

nei sassi

a bramare

la polvere

e il piombare

dell’altro.

 

 

L’unica soluzione per riconquistare un po’ di pace sarebbe quella che già l’esperto di atarassia Epicuro aveva indicato a valere una volta per sempre: «la passione d’amore si distrugge se si toglie la vista, il conversare, la vicinanza continua» (Gnomologium Vaticanum 18, in Opere, p. 142 Arrighetti). Eliminare vista, contiguità, aggressione dell’imputato (o del co-imputato, nel processo a Venere)? Impossibile. E poi, se anche non lo imponesse la sacrosanta procedura, resterebbe impossibile comunque: pur nel suo piglio fermo, la principessa del foro è consapevole di essere il proprio primo avversario. Qualcuno si ostina a versare mastice nelle distanze, in ogni crepa che si voglia aprire (p. 45). E l’amara risultanza delle indagini è che quel qualcuno altri non è che la famosa sinistra di cui la destra non sa cosa fa.

Questo stato di disperato coinvolgimento nei riguardi della controparte determina nell’oratore d’accusa un momento di rimostranza lirica, in cui, venandosi di tenerezza, la sua parola gridata sviluppa l’allegoria del seme e della terra, e procura uno sfondo di natura alla fervente guerra verbale, la schiude a locus amoenus, prevedendo un ultimo abbandono del seme fra le braccia della terra (e forse anche un frutto che poi cade per via, pp. 58 e quindi 59):

 

Svenne d’impatto, giù giù per terra

che svelta lo accolse

nel suo caldo laccio

e in quella stretta nata dal niente

lui seminò ancora una volta

senza che nulla gli fosse più chiesto.

*

Fu complicata la gravidanza

al quarto mese le doglie costrinsero

terra nel letto

ma al freddo e all’inquieto

il feto non resistette, uscì prima

 

e forse avrebbe superato le ore

nella riconoscenza della nascita

 

per primo vide lo spacco

come per ultima cosa

 

e non trovò motivo per

ripetersi

 

la manina pavida strinse

una sola volta l’aria nel pugno

ma senza mai sferrare un colpo.

 

E dal centro del libro è Madame Bovary a spiegare tutto (epigrafe alla sezione Il tergiversare fermo):

 

«Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle».

 

E allora sia un ricorda con rabbia.

Levarsi in rivolta, muovere contro, Contro Venere in primo luogo, contro lui, e tutto e tutti: j’accuse, e invettiva, rigetto e condanna (p. 56):

 

per l’autorità che mi sono da sola conferita

io condanno terra alla deviazione del sé

alla perversione di quella pulsione che nasce

e impotente muoia nella consapevolezza del due

non più raggiungibile in altresì modi.

 

E seme non si rallegri, che sì,

conterà solo su vento che agita

ma mai poggerà un solo grammo

e sarà sempre un aborto continuo

uno sgravo perpetuo senza la luce

 

Nel turbine della requisitoria dal piglio fermo e quasi pugno sul tavolo, scocca la condanna-esecuzione in punta di stocco, per trapassare a filo di spada. Ma la tenerezza del poeta ti frega, e nel duello di ritrovi Clorinda, trafitta dal tuo Tancredi (pp. 95-96):

 

Non può più arretrare

Tancredi

né divellere quell’onta

che avvolge i due elmi

guerrieri amati

 

stringe a sé

Clorinda esangue

tra i ferri delle braccia

– senza sconficcar la spada –

a giurarle ancora amore

 

e s’accese l’Oriente

a vegliare su ciò

che fu sconfesso

 

finse la donna

di creder lui pentito

“per errore ho sferrato

 

a morte

il cuore di chi

confidavo nemico”

e finse il perdono

e la redenzione

 

nel suo ultimo spirare

era vivo in lei il castigo

solerte a ricambiar

lo sbaglio di persona

nel premere la picca

fino in fondo

al fianco di Tancredi

nel campo dell’averno

dopo aver spento la fiamma

sulla torta

il giorno di un futuro

anniversario.

 

Uscendo da questo ‘foro interiore’ resta agli astanti il dono di un libro nuovo, imprevedibile, tagliente e (paradossalmente) innamorato, anche se il processo non ha un lieto fine: Venere non risulta perseguibile, perché perennemente in contumacia, latitante in chissà quale altrui inferno. Si sa, fugge con zelo ogni mandato di comparizione, sapendosi benissimo impossibile da assolvere: perché di fatto è un male incurabile. Tant’è vero che è mortale.

 

                                               

 

 

Alessandra Merico

Ha una formazione non solo letteraria ma anche nell'ambito della recitazione teatrale. Al suo attivo molteplici esperienze in ambito cinematografico e teatrale come attrice, con affermati registi e in Rai.

 

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 

" Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della "poesia onesta" di cui scriveva Saba non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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