Poesia proposta
MARIO LAGHI PASINI
del sogno interrotto
salivano
gli eserciti della notte
a fondersi
con i segni delle cose
in coesistenza di ombre
Era la chiara follia
di lucenti labirinti
mille volte risolti
erano gli echi inattesi
colti a risuonare
su ignoti percorsi
nel buio ritenuto più sordo
I draghi favolosi
ai piedi del nido
reso invisibile
da tante morti e resurrezioni
senza dolore
e le voci e i passi armati
e la presenza della madre
Nel chiarore della luna
perfetto disco di perla
le ferme ali
tese ad ogni vittoria
e l’unica falena rotante
l’unico lampione oscillante
nella brezza alito
Nel caldo stagno del sonno
sprofondavano poi
gli eserciti della notte
richiamati ad altre innocenti
giostre crudeli
alte croci uncinate
svanivano liquefatte
lasciando pochi cerchi tranquilli
Nello sterminato paese
dove molto è possibile
che da tanto tempo percorri
è ancora sera
Alti brandelli di nuvole
bruciano nel sole
ma i fumi leggeri
lenti aliti della terra
salgono già azzurri nell’ombra
Presto verrà l’ora silenziosa
della malinconia
poi le stelle
sorvoleranno il tuo riposo
che è il mio
Mai come di notte
è salda la tua armatura
mai come nel sonno
sei vivo
Alle prime luci dell’alba
quando la morte è a un passo
e più lieve il respiro
sembrerai per un attimo
il gioco curioso
della rugiada
su complesse tele di ragno
poi tornerà la tua immagine
e riprenderai il cammino
Alle tue spalle
la strada è di pietra
consumata da ere
mai scorse
e nella solitudine
biancheggiano antiche rovine
ma tu non ti volgi
cavaliere
e nell’intensità vibrante
del giorno nuovo
aguzzi lo sguardo
lungo la traccia leggera
che sicura e improbabile
ti guida ad ogni meta
INEDITI
di una stazione notturna
di passeggeri sonnolenti
in attesa
di improbabili treni
Ripetizione
di uomini e cose
così come
modelli
sofisticati d’incompletezza
Emigranti mai partiti
che non arriveranno
e giornali esposti
e mai stampati
dove si leggono
titoli
senza memoria possibile
né riscontro
Forse non è nata mai
Marilyn Monroe
e Kennedy vi è morto
a ottant’anni
Forse niente esiste
fuori della scena
ma non è facile dire
che differenza ci sia
con le cose e gli uomini
del giorno
In una sala appartata
sto forse sognando
e la ruvida poltrona
non mia
e chissà quali tristezze
agitano
i miei pensieri
Una spirale
senza fine
o l’anello chiuso
di una breve catena
Ma ormai il tempo
astratto signore
è trascorso
e certo qualcuno
mi cerca
per chiudere la partita
Così nel pericolo
piangere
per l’amore deluso
e spiare ancora
per altra via
altro sguardo
altro passaggio
il grigio cavaliere
riporre
la lucente gorgiera
e la lancia
indossare
questo aderente mantello
e nascondervi
la misericordia
lasciare
la pianura solitaria
dove niente è possibile
e andare
Alte cortine
di fiamma bianca
qualche volta
intraviste
al limite degli occhi
e mai veramente
inseguite
forse il confine
del mondo vuoto
da varcare
E il coraggio
la pazienza
l’affetto
nonostante tutto
e la vertigine
di un attimo
Vertigine
Se come sembra
a distanze inconcepibili
una sfortunata scintilla
già domani in un attimo
potrà spengere il cosmo
tutto finirà senza risposte
sul come e sul perché
né orecchi per ascoltare
né senso per valutare
né tempo per ordinare ...
- ecco - neppure il tempo
solo un vuoto invisibile
mare ribollente di sé ...
... che invece si immaginava
una lunga agonia oltre
ogni nostro possibile destino
di misera caducità
con il sole già spento
le stelle svanite
nella lontananza ...
...ora guardo in alto
al grande universo
dove viviamo sperduti
con uno stupore in più
come di aver scoperto
l'interruttore di Dio...
... poi risvegliarsi e chiedersi
il perché di questo desiderio
e allora penso all'effimera
che ha volato stamattina
e che stasera morirà
agli alberi che docilmente
si piegano ai venti
ed ogni primavera generano
nuove foglie e semi
quasi certi di non fiorire
e agli altri ubbidienti figli
della stessa madre cieca
che ci ha plasmato...
... loro forse sanno
solo noi cerchiamo.
Rose
Un po' infreddoliti
nella città del nord
a ritrovare il locale
dove cenare liberati
forse discretamente felici
che il controllore
ancora mi avesse graziato
- ci rivediamo tra un anno -
l'avevamo superato
frettolosi
rilevandolo appena
con le assurde rose
che offriva ai passanti
appena sporgendole
giovane faccia nera
infagottata di lana.
Al ritorno era ancora lì
quasi immobile
con tutte le sue rose
mentre già noi eravamo
al viaggio di domani
con l'inquietudine
che il tempo dipinge
su cose sempre più semplici.
Mentre faceva il suo cenno
verso di noi
ormai solitari passanti
incontrai occhi miti e tristi
che subito abbassò
con le braccia e le rose
riconosciuti che fossimo
o no - se poi nessuno s'era fermato -
e così lo superammo ancora
lì per lì inavvertiti
poi lo sguardo il gesto
l'inutile attesa il freddo del futuro
il ricordo di certe cose
dette duemila anni fa circa
e l'ingratitudine stessa
per la salute prorogata
mi corsero dietro protestando ...
... ma ormai precipitavamo lontani
incapaci di ritornare
prigionieri dei troppi pensieri
anche l'occasione di un fiore
da donare inaspettato
alla compagna di sempre
consumata dalla stanchezza
e dalle luci dell'hotel.
E allora perché scriverne
dopo un po' di giorni grigi
di questo lungo autunno
di malumore protratto
se poi alla fine
di certo passerà?
Forse proprio perché
ne resti almeno qualcosa
anche piccola
come una spina di rosa.
Questo tiepido settembre
non sa nascondere
l'impigrirsi del sole
che stenta a ritornare
e più presto va a dormire.
Deboli segnali lì per lì sfuggiti
all'occhio e alla mente
hanno turbato qualcosa
nelle viscere misteriose
sui cui galleggia il pensiero.
Più frequente è la malinconia
più ferito il cuore ...
presto sarà Natale e l'anno finirà
ma resterà sulle nostre spalle
a pesare senza poterci far nulla...
... forse nemmeno dirlo a qualcuno
con una poesia medicina
- abbraccio e conforto -
contro il tempo veloce
che corre via come settembre ...
... non ai giovani ancora immortali
e ai grandi che ci compatirebbero
o ai vecchi per non incontrare
sguardi perduti o folli
e il velo di qualche lacrima.
Né ai cari morti da poco aggiunti
alla schiera degli scomparsi
perché di essi nulla si sa
neppure se il loro tempo
alla fine si è fermato.
Lieve il maestrale
smuove le tue foglie aureolari
signore del mio prato
mentre offri nel pieno sole
di questo ottobre
i piccoli fiori bianchi
e i pochi frutti scampati
alla sete incessante
di una severa estate.
Forse sogni i tuoi fratelli
arrampicati sulle colline
da Siena al mare
dispersi nella macchia
della maremma
ne ascolti le voci
trasportate dal vento
profumi e polveri
che parlano di piogge
ancora lontane
e di astri declinanti.
Tortuoso e rustico
non sembri propenso
alla dilagante malinconia
che io leggo nella campagna
sospesa in attesa dell'inverno
perché tu vivi quieto
nel ciclo perfetto delle stagioni
e sai che all'intorno si muore
per ogni volta rivivere.
Invece io non rinascerò
ogni primavera e già sogno
il mondo dopo di me
il nuovo ospite di questo prato
che magari finirà per tagliarti
con tutti i miei ricordi
perché gli nascondi
poggi e castelli lontani
mentre non vede
la tua chioma rosseggiante
quando nell'ottobre
mostri orgoglioso
i frutti dell'anno - una vita.
Il bordo
Una pianura bianca
l'orizzonte indistinguibile
a confondersi col cielo
forse colline
forse nuvole grigie
poi una linea scura
ancora lontana
un fumo leggero
presto disperso nell'aria
a sovrastarla
e a suggerire fuoco
in lento avvicinamento
tutto intorno a me
io mi guardo le mani
sono di carta
i piedi disegnati
il respiro altrove
il cuore fermo
posso provare a gridare
chiedere aiuto
ma come
e a chi?
Sguardi d'insieme
Trascinato e immerso
nei piccoli peccati
di ogni giorno
più che altro omissioni
egoismi irriconoscenze
trascorro nel tempo
sempre più immemore...
...le parole che sfuggono
i faticosi percorsi per ritrovarle
le strade dirette cancellate
in lugubre presagio.
Eppure guardo il prato
e le siepi rinnovate
nel rigoglio prodigioso
di questa tarda primavera
e sento la dolcezza
che emerge in immagine
come la superficie del mare
che è solo l'inganno felice
dei sensi che non vedono
il fosco titanico ribollire
delle molecole.
E mi piace descriverli
la primavera e il mare
senza le parole dimenticate
né le trasformate di Laplace
e gli altri complicati saperi
che una volta articolavo
e ormai sono solo nomi...
...forse sono anche migliore
ora che non servo più a niente
al più a soffermarmi così
negli sguardi d'insieme.
La maggior parte delle poesie presentate sono estratte da Spaziotempi minori, ovvero da una produzione dispersa in almeno quaranta anni e sono comunque disposte cronologicamente. Le ultime sei sono invece inediti recenti.
Mario Laghi Pasini
Dopo la laurea in Ingegneria elettronica si è occupato per tutta la sua vita lavorativa di informatica in una grande banca. Ha pubblicato una raccolta di racconti L'ospite dell'interfaccia (Polistampa, Firenze 2007) e una raccolta di poesie Spaziotempi minori (Interlinea, Novara 2016)
DIMITRI MILLERI
OTTO POESIE
(inediti)
Ragazzi, tornando a casa
Restano là, nel buio ingiallito
di un lampione
a riciclare come possono bottiglie
collolungo, proiettandole lontano,
fino ai frantumi.
Loro è il fondo della spesa non fatta,
l'esule dolciume che non nutre,
il vuoto in mezzo al pieno.
-filmano intanto, tentano
la gloria oltre il gesto-
La madre loro è il virus
a trascrizione lenta
penetrata nel terreno fertile,
il padre è la trascurata
infinita faglia nella bambagia.
Occorre ruminarli a lungo,
per dirli con grazia e compassione,
immaginarli finire miseri
nel privilegio,
dopo acute e superflue grida,
di colpo: come il viaggio del bucato
a fine ciclo.
Ritratto di famiglia
Il padre conquista
e poi scompare,
si duplica e fugge.
Si fanno oggetti le persone in lui:
se ne circonda e le maneggia
senza conoscerle affatto,
come fa col computer
o la T.V.
La figlia è remissiva, dolente.
Quando è lontana l'ombra,
gioca festosa, si dice autonoma;
perde il sonno al minimo accenno
di un ritorno: così si logora
nel nascondino.
I figli della figlia-madre
giustificano e bastonano
l'occhio che non desiste
dal dire Orrore,
dal sognare un parricidio
che investa tutto il futuro,
tutto il passato.
Nella sera si raccoglie ogni cosa
Nella sera si raccoglie ogni cosa
che non si possa fotografare
o condividere:
nere sagome di pelle nera
vestite, l'ebbro ricurvo,
l'odore di fumo e di nervoso.
Indicativo,
compare nella mano il calore
come di un saluto,
anche se ancora una sottile
superficiale estraneità riveste l'aria
e nessun contatto è avvenuto,
né avverrà.
A un allievo
Tu, piccolo Lapo, mi chiedi
se sia il concerto una verifica di scuola,
con quali armi e tremori
presentarsi sottintendi, se si compia
selezione naturale. Dico:
"Siedi,
raggiunto l'apice del palco,
gustando gli ultimi rumori
dell’insabbiarsi della folla in te.
Racconta loro la tua storia,
e se una pagina si satura d'impaccio,
se ti appassisce il suono in mezzo ai tendini,
niente paura: è un canovaccio
questo cumulo di segni, e se ti cambia,
o se ti muore fra le dita non importa.
Scoprirai,
fra il rimostrare delle vene e i sogni
di vecchi spersi, volti nuovi,
volti nuovi più del tuo".
Non importa quante piaghe,
o quante lotte per la vita affronterai:
se piano piano ti rivesto
dell'aprirsi del tuo volto,
come adesso.
Si contraggono le tue vene azzurre,
Si contraggono le tue vene azzurre,
per riemergere nel ventre
del lenzuolo di panno grezzo,
che sembra un foglio da disegno.
Dalla finestra appare un pino segmentato
dal doppio vetro e dalla zanzariera.
Vorrei soltanto che il tuo respiro
prendesse il mio e poi insabbiasse il resto.
È un paradiso questo, un privilegio
poter restare nudi a respirare,
pochi lo sanno ed io, fin troppo,
ne percepisco l'aura.
Per mia fortuna tu sei molto abile:
con il tuo gas esilarante appanni
questo immergermi incauto
in colpe enormi, irrimediabili.
Sorridi adesso, il bus ti porta via.
Allo scarico si mesce la menta
che pesto. Sei irreale nella quiete
dei tanti tripudi domenicali.
Un Padre
Una gru si erge enorme come un Cristo
contro un cielo azzurro di foglia d'oro.
Così te ne stavi tu, forte di sacralità
non dette né scritte, e nessuno fiatava.
Sotto allo stesso cielo, palme
e tardi addobbi di Natale,
decorazioni di ogni tempo e luogo.
Di ogni tempo e luogo tu recavi nel ventre
gli scettri con cui ci urlavi senza parlare
di aiutare nostra madre, mentre restavi a letto.
A fumare. Riuscivi a frantumare i pavimenti
con gli sguardi, col silenzio.
Ti avrei quella notte amato
Ti avrei quella notte amato
come l'acqua che inondava
lo stretto camminamento, la sabbia
di cui mi nutrivo con i piedi
e ogni cosa che era un tumulto
e una gioia inarrivabile.
In quella tenda solo un'orma
di sole, di sabbia solamente
una manciata e sulla mano una goccia.
Di più, perdonami, non avrei potuto,
ma tu se ma mai ti sei creduto
per gioco di quelle repentine inondazioni
argine eletto o casuale, fidati:
non fu arroganza quel tuo sguardo chiaro.
Senza comprendere più debole
mi ritrovai quando da te lontano,
dal quel tuo oscuro e preciso sapermi.
Coppia
Con quanta indifferenza
gli si prosegue
la corsa accanto,
si liberano i parcheggi intorno
per la partita. Come fossero
il bus che tarda o un'altra deviazione.
Ha un'altra donna.
L'ha vestita dei panni di lei-
che adesso urla e gli deforma a calci
la portiera- affinché il letto
non si turbasse troppo,
mentre la possedeva.
Ma la violenza è breve:
non è il momento questo in cui la lama,
che passa fra le costole
giorno per giorno, si contorni
su neri set di sinistri astanti che
prendano parte e confondano.
Adesso il magma è freddo e fino in fondo
si fa toccare.
Come se fosse scritto, lei
già lo riprende fra le braccia
e rientra in macchina.
Suonano come rostri i nastri in nylon
presi dal vento,
e ciò che conta è non andare soli
per questo Aprile.
Dimitri Milleri
Dopo aver frequentato il liceo musicale di Arezzo, si iscrive alla Scuola di Musica di Fiesole sotto la guida del Maestro Alfonso Borghese. Appassionato di letteratura fin da piccolo, compie i primi passi verso la poesia sotto la guida di Bill Dodd, saggista e docente di letteratura inglese che organizza dei gruppi di lettura poetica nella sua città. Nel 2017, la Casa Editrice Rocco Carabba pubblica la sua silloge d'esordio, Frammenti Fragili, con cui vince il primo premio ( sezione “poesia edita”) del XIX Premio Tagete. Svolge in contemporanea l’attività di librettista e scrittore di testi per musica, collaborando coi compositori Andrea Gerratana e Riccardo Perugini.
Alessandra Corbetta
Poesie
(inediti)
AUGUSTINE
Non la pioggia, né le mani.
Il vento
del fuoco soldato bagnava
le labbra scarne, a tratti mute,
folgori dal sapore di rosa. E quando tutto,
improvvisamente, si mosse
gli aghi dai pagliai vennero fuori,
zampillarono le tue ossa,
Augustine,
ma tu non le vedesti
ferma com’eri a non tradire la Patria,
un ideale, una qualunque dipendenza dalle cose.
A mandrie ti sollevarono la gonna,
tua madre nella foto stava a terra per non guardare
penetrarti la speranza, l’illusione, il caduco credere,
il volere andare.
Non le mani, né la pioggia.
IL FANTASMA
Questo egoismo invisibile
è un fantasma che non bussa alla porta;
mi si è steso accanto nel letto,
con uno sguardo morto
e un mazzo di carte in mano,
pronto a un poker
cui ha già rubato gli assi.
Io giaccio viva ad invocarti
e sposto indietro le lancette:
prego che i tuoi capelli cessino di essere bianchi,
imploro una rivoluzione.
Questo egoismo invisibile
è una bacchetta magica,
che ha trasformato la tua seta in lana
infeltrita e macera, schiumosa
come il velo del fantasma
che, ora, lo solleva
e mi mangia.
Io mi alzo morta ad invocarti
e tiro avanti le lancette:
spero che le tue labbra cessino di essere cobalte,
spergiuro sulla rivoluzione.
QUELLO DI HANNAH
Parole, silenziose mute,
libere refrattarie virtù han combattuto
nelle bocche superstiti dei vivi-
morti per raccontare il male,
(quello banale di Hannah)
perché qualcuno,
(chissà chi)
ha detto che sono ossa le parole,
il bianco spicchio di luna sepolto
nella terra umida
accecante come sole. Scava! E comincia a parlare.
Da
Essere gli altri, Lieto colle, 2017
Acqua sporca
L’acqua sporca mi ha sommersa di piacere,
che disgrazia vedere la bellezza.
Ma una goccia del ricordo di rugiada
diventa pioggia di purezza
nello specchio pulito dei tuoi occhi,
in cui piange la mia felicità.
Alter
La fortuna di essere gli Altri vorrei pescare
dentro la bolla,
tra i foglietti bianchi.
Non essere me, per un attimo
e te neanche, ma gli Altri.
I passaggi tra gli orifizi nascosti
che il piacere sfiora,
o le gambe della ragazza qui da parte,
fuori da ogni tessuto, il buco del maglione:
ciò che in ogni relazione manca,
essere gli Altri.
Arthur e Claude
Aveva ragione Claude: l’amore è un frangente
breve dentro alle cose perfette,
la bellezza assoluta per un attimo solo.
Correre, correre, correre dietro alle scie
prima che si spengano,
nell’intervallo
fugace tra noia e piacere:
aveva ragione Arthur.
Forse, Claude, solo lì si poteva amare
nel tuo non amare convinto,
solo lì, forse, Arthur non avrebbe avuto ragione.
Cadenza sospesa
Aspettami pure al varco, sto arrivando!
Dammi solo il tempo di ricontare
chi ho già visto passare da qui;
lasciami l’attimo di mettere insieme
le ossa che abbiamo perso per strada,
scivolando coi ghiaccioli in mano.
Quante facce bellissime e strazianti,
le immagini sfuocate
di ciò che siamo stati.
Attendimi al varco, amico, arrivo!
Qualche istante soltanto per accarezzare
il vento delle anime
che ho amato tanto.
ALESSANDRA CORBETTA
Alessandra Corbetta
È dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e dei Media e collabora come Web/Social Media Master e come Content Writer con La Casa della Poesia di Como.
Ha scritto per la rivista culturale Alfabeta2.
Per Flower-ed ha pubblicato la monografia poetica L’amore non ha via e per Silele Edizioni il romanzo Oltre Enrico (Cronistoria di un Amore sul finale).
Scrive di poesia, società e cultura per il blog Tanti Pensieri e di New Media per il giornale online Gli Stati Generali. Per il blog Menti Sommerse dirige la rubrica poetico-letteraria “I Fiordalisi”.
È appena uscita, per Lieto Colle, la sua nuova raccolta di poesie “Essere gli altri”.
Carla Malerba
poesie
E come potrei dimenticare
E come potrei dimenticare
quell’ascensore
odoroso di cera
e cigolante,
un ascensore rapido
che conduce in alto
dove si spalanca
la vallata?
Per lui, il poeta,
era l’inizio del viaggio,
ma la sua era notte di nebbia
e udiva solo, ad ogni fermata,
tintinnare i vetri dei vagoni.
Che dire di passaggi di mare
Che dire di passaggi di mare,
ombre di niente
ormai sfocate,
di forti cose
e di quel sentire
aperto alla vita,
di inde niti suoni?
Occorre forse una distesa di vento
su una terra senza confini,
occorre che tutte insieme
le cornamuse suonino all’alba,
che di stelle non sia avara la notte
per dispiegare ancora le note della gioia.
Quella mattina
Quella mattina,
pesce tra mille,
mi son trovata
sull’orlo del tempo:
giorno speciale
l’undici marzo,
l’acqua bianca
fa trasparire
i gradini del molo
e c’è il sole alto
sulla fascia di mare
dove Tripoli appare.
Da Vita di una donna, La vita Felice, 2015.
BALCONE (1989)
L’odor salmastro
si spargeva largo
per le strade
gialle di luce.
Quella la casa,
quello il mio villaggio
e sul balcone
tu, la mamma ed io,
mentre sale
dalle vie deserte
un canto
per le sere infinite
che verranno.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
ERI TRISTE STANOTTE (1999)
Eri triste stanotte
sul lungosenna.
Quasi piangevi.
Scorre il fiume
e la solitudine
attanaglia l’anima.
Buio di mondi
alla deriva
che nessuna certezza
fa restare.
Ti ho circondato
d’amore,
le mie braccia
piene d’amore,
le mie mani
piene d’amore.
Tu hai appoggiato, grato,
la fronte contro la mia,
nella tristezza consapevole
di condivisi destini
e hai lasciato
che la pietà
colmasse voragini di infinito
spalancate dinanzi a noi,
perdute, sacre immagini,
divinità mortali.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
MIO PADRE E’ COME UN FIORE DI SERRA (1999)
Mio padre è come un fiore di serra
Perché non teme più
Il vento
O il sole o la pioggia.
Io lo guardo
Ogni mattina
Per vedere
Se petali e corolla
Sono sciupati,
perché la sua pelle
è come pergamena,
con tante venature,
e il suo capo liscio
ha intorno
una lanugine infantile
che par fiorita
questa notte.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
DESERTA E’ LA TERRA (1999)
Quando i figli restano soli
deserta è la terra.
Io poggiavo la fronte
sulle tue scarne ginocchia
e sentivo il tocco leggero
della tua mano
sui miei capelli.
Ora la notte
scruto le stelle
per vedere
se due, almeno due,
hanno una luce diversa,
una luce fatta parola
che spezzi
il peso dell’eternità,
che mostri
il segno cercato,
il filo d’amore
mai spezzato
tra chi resta e chi parte.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
PAROLE
Il sole che declina
trasfigura i tratti del tuo volto:
luce sono i contorni
delle guance,
luce lo sguardo.
Mi guizzano
improvvise dolcezze
alla memoria.
Albergano sensi stupefatti
nelle cose dintorno,
inesprimibili al cuore.
Si è rarefatta l’aria
e flebili sospiri
sembra portare il vento.
Ah, le parole!
Timide, incapaci di dire
tutto il tumulto trepido,
tutto il sentire.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
TU DORMI (1999)
Pesanti ha reso
le tue mani il sonno.
tu dormi.
Si prolunga il tempo
di stagioni
che non sanno definirsi.
Assurdi
duelli di parole
incidono l’aria
e gli echi della vita
si rincorrono.
Di tutto il sentire
più forte
mi resta
la pietà.
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
Carla Malerba da “Creatura d’acqua e di foglie”
Carla Malerba compone poesie fin da giovanissima, ma ha cominciato a pubblicare la sua prima raccolta dal titolo Luci e ombre nel 1999, seguita nel 2001 da Creatura d’acqua e di foglie. Nel 2010 la raccolta Di terre straniere rivela in alcune liriche la nostalgia per la sua infanzia africana. In Vita di una donna riprende i temi del viaggio esistenziale e degli affetti.
ALESSANDRA MERICO
POESIE
Fosse anche
stretto tra le mie dita
io lo vedrò il tuo cuore bruciare
all’Inferno
ho acceso Venere
per prima
ogni sera
a fare amore
nei tuoi pruni
di ruggine
ma tu non guardasti mai
così una notte
l’ho uccisa
per te
che delle altezze
hai paura
a vedere
se a terra
l’avresti
guardata
anche solo
una volta
lunghi e appiccicosi l
’uno all’altro
i giorni del niente
avvenivano depositandosi a strati
gradini alti e marmi
all’arresto del crescere
le stagioni nella sfera
venivano alternate
al rimestio del vetro
e lo slancio cambiava
allo scuotere
sotto nevi di plastica
tutte uguali
se non fossero stati
i giorni del niente
si sarebbe potuto
sfondare dal dentro
a strapiombo cadere
dai tavoli
che forse rotte le ossa
avrebbero fatto
meno dolore
che piegate
non trattengo più
le acque del parto
sguarnita sgorgo
all’impatto
senza un vagito
a vegliare
senza libri
con le figure
nell’impossibilità
di avverarci
noi ci atterriamo
convinti
che una tenia
nascosta
ci legittimi
Chi berrà la mia sete
di vene aperte, le tue?
Vorrei vederle scolare
nella vertigine
rimescolate
all’eucarestia
con il sacro
e che tutte le ostie alzate
portassero anche il carnefice
assieme alla vittima
che a volte non
si distingue
l’artiglio dalle dita
nella presa
che scarna
inghiottire
questa sete
immergere la gola
nell’acquasantiera
della remissione
e lasciare dietro
le mani che fremono
allo stesso istinto
della bestia ferita
Nel dire tutto
si sono stesi
fuori all’addiaccio
i verbi
a fianco agli aggettivi
a sgocciolare via
ogni significato
nel perturbare
di un dicembre
senza nascite
non contò nulla
emettersi in suoni
nel racconto
delle possibili scelte
che il tempo non conserva
nel sotto
false testimonianze
il dizionario dello spergiuro
l’ho trovato stamane
alla fiera dell’est
per due soldi
lo davano
assieme
al topolino
vincerà su tutto
il cinismo
a inghiottire lo sforzo
di ergersi a scettro
celeste
-piccoli messia
da toilette-
armature in resina
agli avambracci
incitare le folle
dall’alzo del podio
acclamati
senza mai
pareggi
eroi da giardino
nel riflesso
di pozze
nei lastricati
si svelerà
il deforme
degli scheletri
l’incurvo nero
inciso di cartacarbone
senza doratura
così che Biancaneve
possa riconoscerli
stuporosa
nelle loro
reali dimensioni
si è licenziato
il portiere del me
nell’intimo c’è troppo
da rificcare dentro
le cassettiere
troppi ricordi
agganciati
alle imposte
a sfibrarsi
nelle fenditure
emotive
ha messo poche
cose in valigia
il portiere del me
ma alla stazione
dei treni
nessuna partenza
non lo sa che
tra le pieghe
verso mastice
a restare
bastasse un bacio
ad unire i mondi
convertire in credo
gli infedeli cuori
Da Contro Venere, Quaderni del Bardo, 2017.
di Alessandro Fo
Alessandra Merico, Contro Venere, prefazione di Davide Rondoni, postfazione di Marco Mattolini, Sannicola (Lecce), I Quaderni del Bardo, 2017.
Molti sono i modi con cui si può versare in poesia la piena degli sconforti che travolge e avvelena per un lutto d’amore. In Dresda (Viareggio, Pezzini, 2011) Francesco Bargellini si auto-raffigura come quella sventurata città dopo il bombardamento. In un suo meraviglioso e poco noto libro, Pier Antonio Quarantotti Gambini tesse con paziente e meticolosa delicatezza un lungo, malinconioso regesto dei giorni belli che furono, e poi degli errori, e della dispersione (Racconto d’amore, Milano, Mondadori, 1965). Un telegrafico «tautogramma» di Alessandra Palombo (Tautogrammi d’amore e d’amarore, Genova, Liberodiscrivere, 2005, p. 57) registra
Nessuna notizia,
nessuna novella,
neanche negativa.
Niente.
Nulla.
Nella notte
nasce nostalgia.
Stessa sospensione, altra Alessandra a ritrarre il tempo fermo della non-notizia, quello in cui secondo per secondo ci si arrampica verso un nuovo record di resistenza (sono già xy giorni, ore, minuti che mantengo le distanze…); così (p. 51):
quel tempo in cui non ci fu notizia
io ero fremente
il ribollio dell’intenso, del compiuto
mi teneva avvinta a sé
un darsi fuori senza centimetri
un filo al polso che portava
altrove
quel tempo, proprio quello e nessun altro
legava con note a margine
le vite non essenti l’una per l’altra
ma allacciate in relazione al sentire
che nulla ha a che fare col vedere.
Non ingialliva l’autunno e
quel campo con l’erba più alta era il nostro.
Allora mi si intimò di giudicare
quel tempo e sempre quello
in cui non ci fu notizia alcuna
e di distinguere me e poi l’altro
dall’intrusiva spinta dell’uno
attraverso il due che io facevo mia
per restare proprio in quel tempo d’ascolto
ma nel compiersi quel paradigma
non collimava più con quel tempo
che tendeva a un altro tempo
così smarginavo ai bordi, scalpitavo
mi si costringeva a un oggi diverso dagli altri
perché nel distinguerti tolsi da me te
e quel tempo uccise il sospendere
di me e te in qualsiasi cielo possibile.
Ma non inganni il tono quasi di meditazione lirica. È una minima pausa fra banchi, toghe e scranni. Perché Alessandra Merico sceglie la via della chiamata di correo per il passato partner e per Venere, quella dell’atto di accusa, dell’arringa Contro Venere, in quanto mandante, e, naturalmente, contro il di lei sicario.
E se Dresda dev’essere, sarà Alessandra stessa il bombardiere.
Questa sua eloquente e appassionata orazione è gotico fiammeggiante. Fiammeggiante, perché ogni bombardamento comporta macerie e sangue. E gotico, perché di sangue se ne versa parecchio. L’epigrafe di una sezione si rivolge a Shakespeare e mutua una battuta di Lady Macbeth: «Qui sa ancora di sangue: non varranno tutti i balsami d’Arabia a profumar questa piccola mano.” (Atto V, scena I)». Del resto (p. 37)
quando siamo
al solstizio
d’estate
tinteggi
la stanza
di rosso
facendo di me
la tempera.
Quanto alle macerie, nemmeno quelle mancano. E anzi le parole stesse si s-gretolano, in una ridda di invenzioni che capitalizzano una s– privativa, o, se si preferisce, s-membrativa, devastante: s-fibrare, s-proteggere, s-nevare, s-marginare. È solo una delle modalità escogitate da questo mare molto mosso di affetti, per spremere e torcere la materia verbale, onde ridurla a uno stato che ne consenta l’impiego quale carburante per lanciafiamme, per una lingua, più lingue di fuoco. È al convergere di «lava» e di «slavina» che sembra generarsi la «lavina che inghiotte» (p. 22); e dall’avverare all’atterrare il passo è breve (p. 67):
Nell’impossibilità
di avverarci
noi ci atterriamo
convinti
che una tenia
nascosta
ci legittimi.
Siamo nella sezione Fuori dalla grazia di Dio, che vale a ulteriore segnale del furor che incendia le pagine, ma soprattutto a minaccioso monito: nulla rimarrà impunito, siamo «fuori» anche da ogni possibile, santa che sia o divina, misericordia (p. 65):
fuori da ogni perdono
le offese sferrate
al costato
e arcate di gole fumanti […]
fuori da ogni perdono
siamo noi
calcinacci
e rovine
senza domani
che sbattono
i pugni
nei sassi
a bramare
la polvere
e il piombare
dell’altro.
L’unica soluzione per riconquistare un po’ di pace sarebbe quella che già l’esperto di atarassia Epicuro aveva indicato a valere una volta per sempre: «la passione d’amore si distrugge se si toglie la vista, il conversare, la vicinanza continua» (Gnomologium Vaticanum 18, in Opere, p. 142 Arrighetti). Eliminare vista, contiguità, aggressione dell’imputato (o del co-imputato, nel processo a Venere)? Impossibile. E poi, se anche non lo imponesse la sacrosanta procedura, resterebbe impossibile comunque: pur nel suo piglio fermo, la principessa del foro è consapevole di essere il proprio primo avversario. Qualcuno si ostina a versare mastice nelle distanze, in ogni crepa che si voglia aprire (p. 45). E l’amara risultanza delle indagini è che quel qualcuno altri non è che la famosa sinistra di cui la destra non sa cosa fa.
Questo stato di disperato coinvolgimento nei riguardi della controparte determina nell’oratore d’accusa un momento di rimostranza lirica, in cui, venandosi di tenerezza, la sua parola gridata sviluppa l’allegoria del seme e della terra, e procura uno sfondo di natura alla fervente guerra verbale, la schiude a locus amoenus, prevedendo un ultimo abbandono del seme fra le braccia della terra (e forse anche un frutto che poi cade per via, pp. 58 e quindi 59):
Svenne d’impatto, giù giù per terra
che svelta lo accolse
nel suo caldo laccio
e in quella stretta nata dal niente
lui seminò ancora una volta
senza che nulla gli fosse più chiesto.
*
Fu complicata la gravidanza
al quarto mese le doglie costrinsero
terra nel letto
ma al freddo e all’inquieto
il feto non resistette, uscì prima
e forse avrebbe superato le ore
nella riconoscenza della nascita
per primo vide lo spacco
come per ultima cosa
e non trovò motivo per
ripetersi
la manina pavida strinse
una sola volta l’aria nel pugno
ma senza mai sferrare un colpo.
E dal centro del libro è Madame Bovary a spiegare tutto (epigrafe alla sezione Il tergiversare fermo):
«Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle».
E allora sia un ricorda con rabbia.
Levarsi in rivolta, muovere contro, Contro Venere in primo luogo, contro lui, e tutto e tutti: j’accuse, e invettiva, rigetto e condanna (p. 56):
per l’autorità che mi sono da sola conferita
io condanno terra alla deviazione del sé
alla perversione di quella pulsione che nasce
e impotente muoia nella consapevolezza del due
non più raggiungibile in altresì modi.
E seme non si rallegri, che sì,
conterà solo su vento che agita
ma mai poggerà un solo grammo
e sarà sempre un aborto continuo
uno sgravo perpetuo senza la luce
Nel turbine della requisitoria dal piglio fermo e quasi pugno sul tavolo, scocca la condanna-esecuzione in punta di stocco, per trapassare a filo di spada. Ma la tenerezza del poeta ti frega, e nel duello di ritrovi Clorinda, trafitta dal tuo Tancredi (pp. 95-96):
Non può più arretrare
Tancredi
né divellere quell’onta
che avvolge i due elmi
guerrieri amati
stringe a sé
Clorinda esangue
tra i ferri delle braccia
– senza sconficcar la spada –
a giurarle ancora amore
e s’accese l’Oriente
a vegliare su ciò
che fu sconfesso
finse la donna
di creder lui pentito
“per errore ho sferrato
a morte
il cuore di chi
confidavo nemico”
e finse il perdono
e la redenzione
nel suo ultimo spirare
era vivo in lei il castigo
solerte a ricambiar
lo sbaglio di persona
nel premere la picca
fino in fondo
al fianco di Tancredi
nel campo dell’averno
dopo aver spento la fiamma
sulla torta
il giorno di un futuro
anniversario.
Uscendo da questo ‘foro interiore’ resta agli astanti il dono di un libro nuovo, imprevedibile, tagliente e (paradossalmente) innamorato, anche se il processo non ha un lieto fine: Venere non risulta perseguibile, perché perennemente in contumacia, latitante in chissà quale altrui inferno. Si sa, fugge con zelo ogni mandato di comparizione, sapendosi benissimo impossibile da assolvere: perché di fatto è un male incurabile. Tant’è vero che è mortale.
Alessandra Merico
Ha una formazione non solo letteraria ma anche nell'ambito della recitazione teatrale. Al suo attivo molteplici esperienze in ambito cinematografico e teatrale come attrice, con affermati registi e in Rai.