Poesia proposta
ALFONSO CANALE
Poesie
odisseo
io?
nessuno
giusto un giocatore d’occhio di mano
forse la seconda
un autarchico visionarietto
qualche confine m’ha impolverato
tu?
non son nessuno
solo un fremito
teso ch’attraversa il branco
di sguincio
rauco
un ghignetto fuori posto
sul grugno ossessionato del tempo
ma proprio a lei chiedi?
sono un po’ il deserto un po’ l’oasi
qualche foro di pallottole sul muro
il fumicello caldo che striscia via dalla canna
presuntuosi segni ch’azzardano
l’indicibile la svista un’aliena memoria
loro? ancora?
ti parlo dico che non son nulla
ma il nulla che si burla ridente
della propria coscienza
dei suoi amanti nemici predicati mercanti
voi?
in fondo alla superficie
bastardi ingranaggi di un caso sudato
non protetto sgocciolato in qualche cosmica vagina
un gioco di dadi scivolati
dal sole che sbuffa luce tenebra vivida
casalinga che il freno sinistro rese nervosa
d’avventure smaniosa
dite lui?
non è divino solo un pochino
piuttosto un luciferante abbaglio di sovversione
che sembra (a quanto non pare) riuscita
ma proprio a me rivolgete tali questioni?
essere?
un arguto giullare di bestiame
un campanaccio pendolante
di vino imbevuto dal trucco all’osso
smerciatore di luna e follia
uno straccio di viandante
senza orecchie a determinarlo
purezza e sacralità che lo sfottano
rivoluzioni che (finalmente) lo decapitino
per le sue bellissime inutili cicatrici
voi? ancora noi?
siete me stesso
sciocco farlocco allocco ingabbiato
io sono voi lo sento
sento i miei vostri mugolii
i miei vostri ruggiti
gli sguardi bassi
quelli che sfidano il cielo
a chi cade per primo
tu? io? noi?
siam liberazione
il martire l’alterazione
la mela la prugna il cocomero
il cappio al collo del vivere pluriobliterato
niente
assolutamente niente
morte per vivere
insieme tutto petulante differenza
scarto che muove
polvere di deserto
nostalgia remota di vita futura
scarabocchi
tanti scarabocchi
tanti buchi nella sabbia
null'altro resta
se non prendere un fazzoletto
di geniali inganni
velocemente affibbiarlo all'universo
per contenere i suoi starnuti
chissà
si potrebbe stanare
il segreto il vuoto lo scheletro
che i silenzi infiniti cornuti
nascondono di fatto
nell’innocente volteggiare
del loro siparietto
quel forse che scrive il mondo
di là
dove le luci
non hanno inizio.
in bilico disegnava una nube
in bilico disegnava una nube
l’ignavia del tutto
la potenza l'impotenza di un solco
fuori di senso sesso e posto
lei scruta oceano la salita
attende affaccendata
a stendere sua vita
l’essere colma e stanca
si siede al freddo, alla campana
che vento dall’onde rintocca
attende una visita mani al grembo
l’ombra che dal mare mai ritorna
in bilico insegue quell’onde
i piedi sbattendo
come bambina
alza la magia
polvere e pretese
nel vizio ch’è
suo ignora
quell'altra la vicina
che sussurra grida
tuona gigante
il suo inganno
dice verità
l’ombra che dal mare mai ritorna
perché aspetti
ancora donna?
in bilico finemente mai fatti e giovani
penzolano il cuore l’essere
violacei del crepuscolo che l’ha tentata
quel se io non fossi tra suolo e cielo
ove l’onde rintoccano il tempo
che mai fu loro
eccolo un occhio al corvo sazio
in bilico contempla l’ultima frontiera
il corpo suo non merita
neanche la terra
ma tutto bacia innamora e ama
scioglie l’attesa
l’ombra che dal mare mai ritorna
in fondo alla superficie
(edita in L’urlo barbarico, Le Mezzelane Casa editrice, 2017)
una o la pulsione
che oscurò il divino buon senso
di una innocente giovine greca
(chissà perché forzatamente donna poi..)
scassinatrice alle prime armi
di uno scrigno di diamanti mortali
lo sfrigolio del mitologico tramandare,
tra amnesie volute non volute
le sue lacrime d'acido annebbianti pur quel balenante
timido verdognolo vagito
che guizzò via per risanare il misfatto.
dono avvelenato di un’iscrizione al liminare
per altri differenti un succulento frutto
un marchio bruciante
sulla
pelle di aysha
la sua eterna necessaria scacchiera
il terrore categorizzante
l’opposizione subordinante mistica
la brama di fastidiosa in-esistenza
strozzata tesa allucinatoria
allorché la voce del vento picchetta
un selvaggio magnifico ballo
pogano suoni battiti rumori in tutto divertimento
i suoi sabbiosi oceanici ammiccamenti
quando
significanti senza significato
si schiudono tumultuano di fronte al firmamento
senza fine vasto possente
di miserabile magnificenza
il sorriso la beffa ghignante
letti rassicuranti
di quei cremisi iridescenti
spettrali
che ululano di scintille noncurante occhiata
nell’attrito mancante, senza supplente
come i magici cerchi dei focolari protettivi
incastonati invasori
nel lunatico diadema
di incertezza
sogno
e
tenebra
un mare di nebbia sbranatrice
di monti valli torreggianti fumi
fondamenta e scompigli
estranei numi
sulla tela
che parla esorcizza le gambe contratte
i pensieri fuori dalle orbite
di ogni timoroso temerario
viandante agonizzante
il silenzio riverenziale del suo accento germanico,
eppur umano volgare
e il sesto senso d'un figlio
col fuori dentro fuso non fuso
con
il viso materno avverso puro
un complesso edipico
un con-testo fantascientifico
l'eco infinito di una grotta mai scheggiata
una caverna sussurrante eterni sonni mai fuggita
le scalpiccianti
melodie notturne
e il ruggito rabbioso
di scandalose onde ribelli
convulsioni di purezza differenziata
senza pre-testi forgiata, miei cari, su di essi.
il morbido bagliore di celebri orecchini di perla
le sue faticate tracce orfane
tra delittuosi depistaggi
il candido eros che guidò le mani
in quell’azione d’ordinaria stupefacente
amministrazione
l'odore raccolto
ristagnante
ribollente
dopo il martello burrascoso sull'incudine terrena
nel momento
in cui
l'orchestra solidifica i labili lunghi confini
le penose carezze degli oceani possibili
sul corpo degli animosi naufraghi
capricciosi fortunati
tra flutti e mulinelli famelici
che sentenziano rovina
sussulti innalzanti con malizia al sole che ombreggia
i mormorii d’infantili segreti
parole non piene per sciamanica volontà di vita
affidate alle raffiche
che, si spera, facciano vibrare timpani e templi
le parole incandescenti sospirate dal fuoco
alitate da fondi di bicchiere
un fornello un incendio
semplice caloroso precipitare all’alba
sudore d’amore libero
indefinibile atto erotico degli elementi
delle formule chimiche fisiche linguistiche
l’ingenuità di queste comode economie
uno specchio frantumato
i suoi innumerevoli pezzetti
la loro polvere
in attesa d’impasto
le diverse prospettive secondo tempo luogo luce
senza il tempo il luogo la luce
sorprese rivolgimenti fiati uccisi
cadaveriche attese
le forme deformanti quelle deformate
cocci di bottiglia rosseggianti veritieri
lor condensa registra tensioni
inclinazioni suicide per sacrificare inibizioni
gli infiniti
il desiderio pomposo
quello necessario
quello corto
quello ridimensionato schiacciato
dalla sotto-vivenza.
la sintesi che non c'è ed è meglio così
il giusto mezzo all'estremo, forse deve essere così
il margine al centro il viceversa
nulla tutto
al centro fuori luogo dentro l’essenziale
l'una/o
e/o/con/senza/però
l'altra/o
fastidiosamente non ente
assente, ma respirata inspiri,
espiri
spiri
in dolce affanno
in fondo alla superficie
mia altrui questione.
un accento attraente
una chioma ribelle
una confusa ininterrotta danza
in questo sibilante golpe d’usurpatori versi.
borderland
si confina in transumanza
un tossico di senso
aritmico si specchia intorno
in quella sala dimenticata da dio
nella comunità di recupero
perché non esci? quando
ti spogli, ti vesti dei nostri occhi?
aritmico non ci sta a farsi
cerchio o roghi di vite
cadenze rituali lo compromettono
così tanti! così tanti gli rubano il respiro
una mazzetta al bodyguard
finalmente
siediti qui in riva
in questo lotto c'era una siepe
sai? l'hai bruciata incenerita
il fumo ancora s'appiccica
una scorreggia nell'ascensore
seduto in riva aritmico
la transumanza balbetta
è inutile gioca a fare dio
quelle goffe ombre
si convince di riconoscere
dice verità e scivola nel mare
dove gli astronauti galleggiano?
la platea la caciara la fregna?
graffia tutti i piedi la terra
aritmico sputa rumori e sensi
lì oltre questa storia
non ci sono
dimmi che ne pensi
di silenzi e follie e
sordi assurdi muggiti?
seduto in riva fradicio
aritmico assaggia
la sfilata delle onde
al porto sepolto
sale rigurgito pressione
preme atmosferica
non c'è tempo
ciao sono adam
ciao adam
ieri è un cosmo e poco più
che non faccio uso di senso
il sepolcro recitava sotto il molo
overdose adam ne saprà qualcosa ora
seduto in riva
aritmico
vedi di star muto
un bel sorriso
a morire di senso
che meraviglioso spettacolo
sommesso
tutto
mi
uccide
ossesso e accontentato
l'essere
terra
e gelo.
la guerra del tizio che sparò a piero
che forse è meglio il silenzio
vero? dirimpetto al mondo
un letto di fiume avvolto
dal clamore del suo silenzio
proprio lì in procinto di cadere
a valle ove il premio si fa
l'esser grande fratello di me stesso
una volta tentai ficcai il mio naso adunco
nella fiumana che sovrastava
l'arcipelago di silenzi
nelle notti di confine
e caddi a valle infine verso il mare
la terra che si specchia in se stessa
caddi sopravvivente
nella guerra di nessuno
caddi dove c'erano altri arcipelaghi
schizofrenia schiava di una grande bugia
che forse è meglio il silenzio
vero? sotto il mondo le stelle le marce
avulso da morali
mirando le rocce d'altre rapide rovinar
nel flusso di una maledizione antica
lui cadde io ancor oggi qui
nella teatralità del morire in colore
steso qui sul letto del fiume
ove la briglia dell'uniforme
m'avvinghiò al silenzio
e così senza narrare
col dito lavico intento a scrivere
nell'acqua che cade
il mio amore per lui
la mia memoria
il mio ossimoro
il mio incandescente sogno
di un'altra cosa
sono il mare ora
a me basta questo
così vi scrivo
così non vi narro
la guerra del tizio che sparò a piero
to dream
amarti amarti realmente
amarmi in te nel tuo senso
unico nessuno in contrasto
coscienza che si scioglie
nudo
che vibra rocambolesca
madido
perfezione che cambia
sull’istinto
scialbo scorticare delle nostre pelli
amarti condensamente
amarti in me
acqua salina i sessi
sfumato
la chimica l’infanzia la scienza
ai confini dei nostri orizzonti
tutte le infinite pieghe delle lenzuola del tuo volto
che ti amassi
come mai per sempre prima di noi
che ti scagionassi
nella tua violenta bellezza
ruvido
rubata da troppi occhi
meraviglia di morte piacere paura
arrancante che ti lasciassi indietro
che ci desiderassi in sacrificio
l’anarchica differenza
il giudizio vuoto
al di là del bene del male
che ti liberassi nuova
dalla luce dai segni
adombrato
cavernosa che ti ritrovassi
grezza
per scrutarmi viverti contraddirci trasformarli
perché sei bella come la morte il piacere e la paura
maciullami vita
to be
la vostra ipocrisia mi fa rabbia veleno e vomito
come la mia
eppure noi sono
la bellezza è morte paura e piacere
fottetevi tutti quanti
fottetemi che io me ne fotto
quantomeno sono
scappo fuggo rifuggo
per la mia umidità
transito nell’unica ombra
che mi fa saldo
quanto sei bella senza me noi loro
bella come la morte la paura e il piacere
ovunque non qui in noi fuori
come deve essere
dalle nostre orbite
mi guardi e mi sussurri nel tuo ansimare
se dio esiste è l’altro indebito
oltre dentro intorno immagine e somiglianza
se dio esiste è nel fremere dei tuoi muscoli
se dio esiste si masturba a ogni perché
ma non è così
non è parola
chapeau
gemi vengo sospiro e mi sdraio
accanto al tuo sudore
in quel letto a baldacchino
appiccicoso come noi
morti una volta
non contenti
ci uccidiamo con una sigaretta
neanche questo conta
se dio esiste non è verità
essere
di più
di più dell’essere
Alfonso Canale Biografia
Laureato in Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, nel 2014 pubblica a Parigi le sillogi poetiche Alfonso Canale écrit e Miroirs. Nel 2015 pubblica in Italia la raccolta poetica bilingue (in italiano e in francese) Miroirs/Specchi. Pubblica alcuni componimenti su Poetarum Silva, La macchina sognante. Contenitore di scritture dal mondo e nei “Quaderni Barbarici” di Patria Letteratura. Redattore per YAWP: Giornale di Letterature e Filosofie (http://www.letterefilosofia.com/), ne gestisce la sezione culturale “Simposio” e quella traduttiva “Ri-scritture”. Con altri autori del giornale partecipa all’antologia L’urlo barbarico (2017, Le Mezzelane), con la sezione “Vedo”. Finalista nell’edizione 2017 della Biennale MArteLive, è membro del collettivo poetico A.S.M.A di Poesia (https://www.facebook.com/bugiardinifingitori/) e del format di reading Salotto per pochi intimi (https://www.facebook.com/salottoperpochiintimi/), con i quali ha proposto diversi eventi di reading poetico-musicale per l’Italia centro-meridionale. Al momento sta lavorando ad un nuovo progetto poetico, non belle parole, e ad un récit sperimentale, Senses
IURI LOMBARDI
POESIE
Temporale d'estate
Tutto il giorno sono stato in attesa che
il temporale diradasse; mi tenevo alle funi
provando le mie ossa (solo un fuoco tenue
daranno in un futuro prossimo):
di fatto ho allestito una nuova vita
nella feroce nota, nella luce crepuscolare:
niente era niente. Sulle pareti un riverbero
giallino mi negava il tempo del lunario.
Assetato come ero nulla ho bevuto; perduto
da ogni ideale. Così, cosa ti racconto?
Se non di essere un'esile creatura e come
i giovani di strada gemo ad un pugno di felicità:
lampo di un presente eterno.
Più di loro conosco memore la notte lasciandomi
andare tra le maglie – o spirale di tempo- della ragnatela.
Istantanee di settembre
Certe sere di settembre il cotile si incanta,
schiamazzi leggeri occhieggiano e sono
gerani al balconi che il livido fa scuri
e l'idea del domani resta cugina dello ieri.
Tu cerchi di abbracciarne dell'amico il busto,
stringere a te la calda luce del tronco vestito.
Qualcosa s'affaccia sui tralicci che scompare
quasi sgonfiato in un lampo di volo.
Il sole di notte
Del loro esodo conosci ben poco
se non la monotonia mai interrotta
di come poter arrivare alla cena,
(sono portate dal vento già dischiuse
alle altane tra rogge di corbezzolo
pronte a migrare). Da ragazzo credevo
fossero elicotteri felici con le ali spiegate:
e tali erano le imitazioni di bottega;
ma l'uomo può mai essere Dio?
Nella bottega riproduceva falene di latta,
solo le ali erano di cartapesta.
Certi ambulanti aspettavano l'equinozio
per provare la propria esistenza; gioco
assai facile nel tempo in cui non c'è
disparità tra il giorno e la notte.
Mai come adesso ti ostini a confondere
l'autunno con un sabato qualunque di marzo.
Nel gioco dell'esserci, contemplando,
questi strani elicotteri, ti addormenti senza dolore.
Alianti della sera
Dove finiscono li alianti della sera?
Mi chiedo – oltre la paura? Gli aeroplani
senza pilota di cieli brevi;
dunque dove vanno? Come
si finiscono silenziosi tra le maglie
di un tempo che non è più?
Hanno forse attentato al paese
nel mattino che sa di latte e appesa,
muta anch'essa tremula appaga,
al passante l'ultima stella.
Anche le officine stanno chiudendo
telefoni che è già un altro tempo,
millanta disperato il Corriere
di una storia che non c'è più.
Persi nel niente due ragazzi, forse tre,
passeggiano nell'alone di un ingorgo:
il paese . Si raccontano – non muore.
Dove vanno a finire gli alianti della sera?
Soldati di cartone
Gli studenti sparano con i Tablet
accesi sulla folla del pomeriggio,
sparano a salve con violenza esangue,
i polsini slacciati in segno di offesa;
i jeans che sanno già di sesso,
di sbornia non digerita sulle scale.
Il mondo ai loro occhi scompare subito
e niente sanno di sé se non l'offesa
che l'inchioda nella bellezza gioiosa.
*Poesie edite del volume Il condominio impossibile, PoetiKantenedizioni, Firenze 2016
Non ho fatto in tempo a baciarti la fronte
Non ho fatto in tempo a baciarti la fronte,
te ne sei andato, figura persa
nel pomeriggio già bruno sul presto,
vagabondo nella spirale amena
nello zampillo, nello sgombro dell’ombra,
di palazzi nuovi di cemento.
Non ti lasciare ti prego nel niente;
la città qui si ricompone negli sozzi
riverberi di luce o tra pozze
in un autentico mattino cui scorgi
negli occhi del compagno bianco di buio.
Perdoni la mia cecità? L’irruenza
Svanita a ciuffi tra i capelli? L’amore
Che fu è ancora amore: un fitto epistolario.
Il cielo in un bicchiere sparso di stelle
Il cielo in un bicchiere sparso di stelle,
sul suolo gelato è tempo di resa;
basta poco e la notte rompe il velo,
un guaito lontano dal gracidare
rischiara all’istante il tonfo di uno sparo.
E’ il veder tempesta in un bicchier d’acqua
ché il buio dipinge statue di sonno,
nel giardino dell’insonnia stimola
l’occhio nel vederti nudo di fame;
nulla si arrende a nulla, tutto è come è:
il chiaro di un lampo.
· Poesie edite, Il Sarto di San Valentino, esemble edizioni,2018
Iuri Lombardi, poeta, scrittore, saggista, drammaturgo. Ha pubblicato per la narrativa i romanzi: Briganti e Saltimbanchi, Contando i nostri passi, La sensualità dell’erba, Il cristo disubbidiente, Mezzogiorno di luna. Per la Poesia: La Somma dei giorni, Black out, Il condominio impossibile; lo zoo di Gioele, La religione del corpo come racconti: Il grande bluff, la camicia di Sardanapalo, I racconti. Per la saggistica: l’apostolo dell’eresia. Per il teatro: La spogliazione, Soqquadro. Vive a Firenze. Dopo essere stato editore, approda con altri compagni nella fondazione di Yawp – l’urlo barbarico.
Antonio Merola
Poesie
INEDITI
E così vengo imbestiato dentro il vagone spoglio di rifugio:
è ora di ritornare a casa attraverso l’oscuramento
negli occhi di uno sconosciuto oggi che tutto rimane uguale
a una pietraia come l’orientarsi della mia abitudine
allo scoliasta che rintraccia in uno spicilegio la favola a margine
della gigantessa slanciata senza patema sopra le stelle
cadute oltre lo strapiombo: amareggiare la città
non serve a niente davanti allo squadrare del treno.
Voglio essere come un forestiero nel mondo
degli uomini: fuori rintrona ancora l’ultima migrazione.
l’unicità si dipanava lungo la steppa
come soli freddi o rovine
nella pioggia: la notte durava una volta
sola come di fronte a un nemico
che voleva mutilare l’origine comune
prima della disparità delle losanghe:
e allora chi giocava ancora per non essere scoperto
cercava la musica del mare
come una speciale isola di bianchezza o schianto.
Ti porterò fino alla fine della vita
per mano: e allora guarderemo il buio sorridendo.
Ci ho provato a lottare come una tigre
bianca contro l’uomo: e sono così stanco
di vincere sempre. Questa volta non voglio
competere ancora: ognuno di noi è senza difesa
fuori lo spirito e per la nostra immaginazione
è ora di andare: partiremo alla prossima alba.
Non faccio che parlare di te ai codardi
eppure questo solo so: nessuno
ti ha compresa forse per letargia
oppure ordalia, il sole tramonta a Oriente:
ma nessuno, nessuno ti ha mai creduta.
allora ho acceso la luce: una donna
compare oltre le mura come una felicità
che non aveva gli occhi
verde
speranza; sembra ubriaca e cade:
quante volte abbiamo creduto insieme alla vita
o l’irrompere dei mostri, la fuga oltre il rito
azzurro come la saliva di
un sogno
a parteggiare la vertigine e dimenticare
la voce prima. Tutto rimostrava una giungla
o l’argilla… e nella caverna crollava ancora:
chiedeva una carità impossibile di vuoto.
Nemmeno una scogliera di bianco
rugava la pesca
come la nostra immobilità che seguiva la pioggia
nelle montagne: si abboccava all’ardiglione
perché bisognava mangiare come una resipiscenza
ti sentivo lontano una strada
che forse vuoi percorrere da solo
mentre sulla collina una voce suonava il motivo
dell’abbandono: la binarietà era il nostro destino.
Avevamo commesso l’errore dei dinosauri:
essere troppo grandi per camminare.
c’erano solo i mostri che attraversavano la brina
come una piorrea dell’infinito oppure accecati
dalla stella polare: era l’estinzione della strada
contro il muro recintato di caligine
che riserenava la città… bisognava passare oltre
la vita: ho imparato che tutto si destina.
nessuno ha mai aiutato il bambino
a scappare nella notte
per esaminare la puntigliosa assenza
dell’avvenire non è già troppo
per lui fingere di non ascoltare
la delizia esatta del denaro
o sopra la nidiata del pigargo rosso
come la disattenzione sopra la punta di un piede
a colmare un elefante in un negozio di cristallo.
la solitudine si è ritirata altrove
forse per sempre verso una libertà arcana
che grida: sappiate riconciliarvi
ovunque
nessuno è nemico a nessuno
così l’uomo a l’uomo tace la parola
e ognuno solo cammina al confine.
Ho provato a portarti lontano,
ma il mostro ci ha seguito ovunque
come a spaziare l’alberata in una grillaia:
sentiva l’odore del sole, tu piangevi
dietro a ogni angolo. Una lubricità
non bastava a nascondere la sfogliatura,
a scivolare altrove: avevamo paura
delle grandezze
come l’acqua dentro una fontana.
Era ormai evidente la paura della nebbia
se da qualche parte un uomo cammina
una donna cammina verso il silenzio
dei mondi sospesi: s’accompagnano
lontani come i condor delle Ande
oltre le solitudini immense.
Dalla silloge Orizzonte della dimenticanza, in L’urlo barbarico (Le Mezzelane, 2017)
Non colsi la vita sopra i tetti,
l’epitome che oltrevarca la cinestrina stria
proclina come una sinopia di stremizio
sopra un’abbondanza autunnale
Oggi gli uomini sono scomparsi dal nido
oltre la levità delle nuvole.
Noi siamo come creature
di nebbia
in fuga dallo stupro
della vita, mostri
che irrorano petrolio
dal cuore emersi
da una fissità vermiglia
come polsi aperti
Gli amici lo sanno
ogni consiglio di uno scrittore costa
una birra, come minimo.
Ecco perché vengono da me
chiocciando
nella loro sicumera animale
geremiadi come una confessione
biologica, ma io sono uno
che raccoglie le foglie,
le tinge, le riattacca agli alberi
in un periplo di morte,
un affare concluso
di coraggio comparato
che raggruma in un peana,
e come due generi d’umanità
che dibattono sul vuoto
andiamo insieme verso l’eden
a uccidere dio.
Da Il Segreto delle Fragole (Lieto Colle, 2017)
c’eravamo lasciati alle spalle una giogaia
di ampiezze bianche: era il problema di una cura
così che il nostro abbraccio si faceva radice
e come una coppia di rinoceronti estinti
somigliavamo agli eroi delle foreste o alle rupi.
Antonio Merola, è laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla recezione della critica
italiana rispetto all’opera di F. Scott Fitzgerald. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier online, Poetarum Silva, Pageambiente, Euterpe, La Macchina
Sognante e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Altre poesie inedite sono di prossima pubblicazione sulla rivista Atelier. Collabora o ha collaborato con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì, Lavoro Culturale, Carmilla e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di
letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017). Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria
Letteratura. Ha pubblicato sotto pseudonimo assieme a Iuri Lombardi la raccolta di racconti Il Vice Presidente venne dopo sette secondi, (2016). Suoi racconti inediti sono apparsi su
Carmilla, Cultora e Reader For Blind.
LUCA TOGNONI
POESIE
Quando torna il silenzio
Una sera di vento
e quel poco chiarore
di vita che lascia la fiamma
quando torna il silenzio.
Confini
Il campo segue il muro delle sere
che abbiamo attraversato,
umide sere di una Pasqua fredda.
La casa sempre nel buio è silenziosa.
Gli uomini si fermano alla porta
di legno per parlare
del tempo che non muta,
che passa troppo in fretta.
Il profondo male
E se l'autunno è soglia porti il nome
di quel profondo male che consuma
il midollo della vita.
Un silenzio, uno sguardo,
un levarsi del vento
che torna più freddo la sera,
una morte annunciata che prolunga
la notte con la luce
dell'ultimo lampione
che nel buio si spegne,
si riaccende.
Estate
A M. G.
E se senti più freddo,
se il pesante cappotto
che copre le spalle non basta,
cerca un uomo da amare.
Voglia di vivere
Vivevi ed era
il sole dell'aprile.
La luce che sfiorava il tuo profilo
ne disegnava l'ombra
e tu dicevi al giorno sono pronta
per continuare ancora.
Tarda estate
Cosa ci resta
del giorno che declina,
quando s'attende il vento che ritorna
e sfiora i tuoi capelli
e la tua mano già cerca la mia.
Muti sostiamo presso il capitello
che per metà è coperto dal cipresso.
Cade la sera.
Il buio ci sorprende sempre prima.
Il pino
a mio padre
Questo pino mi è caro.
Presso un bivio esso sorge
e la neve, la pioggia
ed il vento l'hanno reso più forte.
Sempre svetta maestoso
e lo amo con cuore
di figlio. Vi trovo riposo.
In memoria
Forse di luglio, forse nel mattino,
con una veste azzurra e una cintura
che ti cingeva i fianchi,
salivi quei gradini
che portavano
dalla città dei vivi
all'altra, silenziosa.
Tu li salivi e t'arrestasti
ancora a quella soglia
in pietra che segnava
nell'ombra già il confine.
Guardasti indietro
la strada già percorsa.
L'ombra
Se interrogo l'ombra,
se domando alla parte
più oscura di me di parlare,
nel silenzio essa tace.
Il segreto
Spesso il grande cipresso
dentro un folto di fronde
nasconde dei nidi d'uccello.
E' il suo dolce segreto.
Luogo del cuore
a mio nonno
Nella sera d'ottobre,
quando il vino accompagna
i pensieri
e lo sguardo si perde,
ti ricordo com'eri.
Maldicenze
Si fa noto l'ignoto
ed è un cerchio di voci
al passaggio.
Transfert
a N. R.
Tu che hai belle le mani
e dimori un silenzio
più vasto delle stesse
parole.
Tu che insieme all’aurora
risali la curva del monte.
Nella luce rimani.
Paola
Certo è più vecchia
della sua solitudine,
più vecchia delle rughe
che attraversano il viso suo
bianchissimo,
più vecchia dell’amore e del dolore.
Un uomo l’ha aspettata
al silenzioso bivio della sera.
Ora la attende
più oltre, in qualche dove.
Alda Merini
Visitata da ombre,
dimorasti la parte
segreta delle nostre
parole.
Luca Tognoni
È laureato in filosofia. Vive e lavora a Verona come impiegato. Con l’editore Campanotto di Udine nel 2015 ha pubblicato la raccolta di poesie “Distanze”, suo primo libro.
Susanna Bertone
Mamma
La crisi economica ha prodotto retorica vittimistica,
ha diffuso un sentimento di paura.
La casa non è sicura
i poveri sono più poveri
gli stranieri più cattivi
manca l’identità e poi,
neppure la guerra è così santa.
Sullo schermo
funghi nucleari
sogni di Baleari
ansie che ignoravi;
ora ti ci svegli la notte,
sudata, la luna illumina
blu la pelle del tuo vicino;
è steso sulla spiaggia
e non respira. Respira il mare,
la rabbia? La paura?
Schiuma a riva, negli occhi
mangia lo stomaco,
fremono le dita
battono su tamburi neri
che altro da fare non c’è,
se non odiare.
Mamma, perché
nessuno me l’ha detto mai:
il Novecento non è finito
è sempre spaventato
un secolo lungo
un vicolo cieco.
Ci consola qualche
amore, una domenica all’Ikea
il sabato la pizza.
Sì, il mondo finisce ogni sabato
dopo la pizza.
Poi, infiniti lunedì di sangue.
Tra filari di ghiaia
sbuffi di fiori si burlano
dell’uomo che si affanna.
Io sui righi contavo le note:
sorridere, mi fa sorridere...
questa muta di corde
nere, porta appesi
treni di pensieri.
Quando uno ne passa
vibra tutta la cassa del cielo.
Viale bordato di pizzo e di sole:
foglie solerti fanno ricami
sull’asfalto, menano mutevoli
le ombre a rincorrersi.
Tessono metri e metri
sulla via spoglia di uomini
come corpo di donna bellissima
che tutti coprono e scoprono.
Coprono, poi un fremito
e di nuovo scoprono.
È spiovuto.
Appena qualche istante
la ruota che porta innanzi la mia giovinezza
lascia dritto il solco in questo buio acheronte d’asfalto.
Qua e là
galleggia uno specchio
nero di pioggia: porta impresso l’occhio
azzurro-variabile dell’aprico dio che dall’alto ci osserva.
Dimmi mamma, ci somiglia?
I rami formano lettere
le foglie salutano con la mano
appese come a un chiodo ballerino,
appese al telo terso del cielo.
Banalità, in fila alla cassa
si sentono frasi consunte
che mi sento male
e penso:
Cristo, scadono anche le anime.
Meglio essere animali
- mi sussurri -
in un bosco, usare solo l’olfatto
sentire tutto, avere poca memoria.
Giù l’acceleratore, seconda,
terza, quarta. ABS,
fischi di freno
caldo veloce il respiro.
È nostalgia,
il desiderio che muove mutevoli
i lombi di tutti.
Conoscere, possedere e poi
vedersi languire.
Al risveglio
ancora fiumane di gente
noi nel mezzo
naso all’insù.
Guardiamo sorridenti
lo stesso telo terso
e dietro agli occhi
aperti, chilometri e
chilometri di baratro.
Il tavolo
la sedia
la bottiglia
il caffè
i fiori finti
non sono io.
La Martinica
è il posto dove trovarmi;
tra i rododendri
i boccioli rosa
il legaccio di corda
la terra
la coperta
nel bianco
di una noce di cocco.
Sotto una coltre di rami
attraversata da piccoli uccelli,
scruto i sentieri del cielo.
Fumo azzurro sciama tra i denti,
luce piatta mi scioglie i capelli
quelli neri, che mi fece la mamma.
Il mostro di cupidigia che abita
il torace buio, canta senza sosta
la vecchia canzone che sai.
Sapremo trovare un senso?
Una foglia - crudele! - fa cenno di no.
I tuoi baci pendono
tutto intorno al collo incastonate
le tue labbra adornano
cento perle di fiume.
Scorre la pelle, cento e più
lampi dividono il buio.
Dov’è andata la rotonda prominenza
dei baci che mi baci
io non so.
Sto in grovigli di cotone
immobile assorta nera.
Il sonno che governa i fantasmi
m’intorpidisce le mani.
Tu non ci sei.
Borracha sulla linea del pavé
la seguo come aurea norma
morale. Alla fine fine fine
cado sul parquet di casa.
Le ombre, chissà perché
sembrano fatte di fumo. Ma
le luci sul parquet, tutte oro,
le indossi come un vello
mi dici “non è quello:
il male è confidare
e non aver approdo
e andare”.
Molto piangono i figli dell’odio
i cancri che dalla terra sorgono
gettano loro calce sugli occhi.
Li divora un tempo senza lancette
una qualche verità li accarezza sicura,
chiuso, il nervo carpale si fa pugno.
loro marciano. Alle loro spalle,
qualcuno ha attraversato il mare
ha consumato la pelle
sicché oggi fossero in marcia.
Il corredo genetico sventola,
il vessillo, l’antica forma
è evidente a tutti, tranne a loro:
venuti da ventre straniero, al vento
straniero storcono il naso.
Ma’, la schiera dei figli dell’odio
avanza e colpirà da basso,
chiuso contro i denti il pugno.
Ma non stare a preoccuparti:
in fondo,
sangue innocente non ce n’è.
(testi inediti)
POESIE
Lumeggia
Al civico uno della via
sotto un cadere costante
di pioggia, il paralume lumeggia
come un sguardo già visto:
appena sopra la sabbia
appena fuori dall’acqua
due occhi grigi lampeggiano
sotto un cadere costante
di mare dai lunghi capelli.
Mi oscurava il sole
e crollava freschi punti
a capo sulla mia pelle d’oca,
lasciando un’ombra a sancire
confini di possesso, la distanza
tra il mio corpo e il suo stesso.
Notturno. Fine estate
E di tutte le paure nascoste
la trama buia rivela che sono io;
dietro ai fili rotti, ai cocci, ancora
io, la più grande. Senza morale,
mi piace la possibilità d’esserlo,
viola di nausea e silenzio
non ho pensieri che valgano
ho scheggiate sillabe
ghiaia sporca tra i denti
verde di umido, di pianto.
Troppo penso troppo stanco
com’è poi che frinisco?
Un grillo nella notte col suo canto.
Che ne diresti?
Che ne diresti di toglierti l’abito?
Ci sono venti gelidi
torbidi stagni, lo so, ma
che ne diresti d’indossare versi?
Ho pensato per te
un par di sillabe azzurre.
Che ne sarebbe, dici, del contegno?
Gettalo al vento come
i garriti gli elefanti
i corni antichi le fiamme…
che te ne pare? Nuda onestà.
E mi manca sì, tartaglio,
m’incarto. Ma basta perifrasi,
che ne diresti? Io allieva e tu maestro.
Ci vorrà tutta una vita per non sapere
per impararsi in versi.
Incendio
Concessionarie al neon
Lampi gentili sulla destra,
All’orizzonte
Neanche una stella.
Là
bruciano cavi elettrici.
Fiume che scorre fiume
rotola nell’alveo, liscia i sassi
mi accarezza le spalle:
ombelico e cielo fanno a gara
a chi è più fondo.
Vedi che bel vento nella chioma
l’albero trema, fa l’amore
mentre il bosco brucia e muore;
intorno, fumo e nero in polvere.
La cenere spegne luci rubricate
già livide, buffe insegne.
Là
ruggisce l’orizzonte
rotola il fiume
trema la chioma.
(testi inediti)
Susanna Bertone.
È dottoranda di ricerca con un progetto di ricerca sul paratesto dei codici della tradizione catulliana.