STEFANO VITALE
poesie
da “La saggezza degli ubriachi”, La Vita felice, 2018
Vivere è trattenere rabbia e abbagli
chiudere loro il campo
che non facciano altro scempio
e andare oltre il vino versato
il bicchiere frantumato, la giacca macchiata,
la parola sbagliata, il mazzo di fiori dimenticato,
le mele lasciate marcire.
Siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli
distratti da una mano invisibile
che rovescia il respiro
nella torsione dell’attimo sgrammaticato
in cui precipitiamo trascinati per il collo
a una festa d’ubriachi.
Talvolta è un dettaglio
che sfugge dalle labbra
un pensiero sbilenco
che prende il largo
e ti costringe, maledetto,
a difendere il tuo errore.
Così stai al centro del ring
con gli occhi spalancati
ma dentro e fuori tutto è buio,
buio pesto.
L’idea della perfezione
ci perseguita implacabile
azzanna i nostri pensieri
bestia della notte che s’aggira
dissimulata in comandi, precetti e avvertimenti
che proteggono dall’angoscia e dalla morte
ma ci consegnano al nemico
fuoco nero nascosto sotto al cimiero
rostro che strappa le carni indifese
tarlo che rode l’occhio di legno.
Così dimentichiamo che siamo come il pane
fragranza impura che di vita profuma
colpo di tosse che increspa il silenzio
pietra d’inciampo che riporta la luce.
Sulla cima dell’imperfezione si staglia il profilo
del nostro viso, calmo e disteso,
in attesa del prossimo, duro,
combattimento.
Tirar fuori dalla selva del tempo
una parola certa e precisa
che ci rassomigli una volta per tutte
per dare un senso
al silenzioso scrutarsi delle cose:
è questa l’incrollabile speranza
che porta al fine di ogni arte.
Ma una pioggia fitta
di chiodi e lame cade
vivere è un glaciale vagare
attorno a mucchi di catrame.
Il respiro oscilla e nel nostro smarrimento
appare la chiara imperfezione dell’ombra
nella sera che stringe la gola del giorno.
Lui sì che sta per morire
senza rimpianto, senza alcuno sciocco incanto.
Scegliere la posizione
della giusta distanza
senza mostrare torsioni o disperazione
dinanzi a chi ci serve pietanze avvelenate
evitare l’impatto e la possibile disfatta
è un’arte raffinata.
Non a tutti è dato saper mostrare cecità
diventare muro, insetto, foglia
e volgere gli occhi altrove.
Sempre ritorna l’ansia del combattimento,
il pensiero di andare oltre la soglia
sotto un cielo carico di tempesta
al passo con la dignità offesa
come gli eroi che non s’arrendono
e spendono la vita a raddrizzare
i quadri storti, a costruire il tempo
che nessuno ancora ci ha servito.
Desideriamo tutti una forma,
ma c’e una forma?
Appare e scompare un corpo liquido
di colori, timbri, altezze, suoni e dolori,
sfuggenti onde dell’attimo
si scompongono e ricompongono
sotto i nostri occhi attoniti e scivolano via
tra mani inutilmente tese.
Musica senza rumore3
senza serialità sicura, appena un abbozzo di luce
sguardo di vento che passa e accarezza la pianura
sconvolge le carte, travolge i castelli di sabbia
epigrafe del tempo senza tempo.
Questa e la forma?
Qualcosa che incessantemente
additiamo e nel mentre s’allontana ?
Restare immobili nella contemplazione
del continuo smarrito passare
è la giusta posizione per cogliere una forma?
E noi, allora, che forma siamo?
Perfetta onda del mare
ora e di nuovo ancora dissolta?
(Claude Debussy, Images I e II).
Nella mattinata calma e distesa
respira l’aria se stessa
senza stupori né malinconie
solo la meraviglia e la nostalgia
del necessario passare
di ogni nota rotonda
spada di luce che affonda
nella nostra mente.
Tutto è al suo posto.
D’improvviso siamo smarriti
sull’orlo dell’orizzonte vacilliamo
le mani sudate, nel buio che azzanna
la nostra misera carne.
Brivido e vertigine senza una ragione.
L’inquietudine nasce dalla leggerezza
non serve battere i pugni, strapparsi i capelli
basta l’incanto d’una carezza
per rendere terribile lo sguardo.
(Wolfgang Amadeus Mozart, Quartetto per archi in do maggiore K. 465
‒ delle dissonanze).
Inediti
Le voci e le risa di sotto
sul finire del giorno
il vento della sera
attorno al tavolo dei morti
il nostro andare
è una nave senza bandiera
e gli uccelli sono partiti
verso una luna prigioniera
nata nuda e poi smarrita
mentre il Bene che noi siamo
si dispone al ballo senza capire
come andrà a finire
così parte lenta Milonga Sentimental
amorosa spina che ritorna
sul passo sincopato della nostra
improvvisata felicità.
Teniamo la morte lontana
femmina infedele senza pudore
che ovunque lascia tracce,
vorremmo porre fine al danno
ma quel che resta è bellezza
reclinata su un abisso
sentirsi e non trovarsi
guardarsi e non più vedersi
fragili alle variazioni del tempo
sensibili agli imprevisti della sorte.
Nell’azzurro surreale del mattino
i sogni sono carta straccia
e noi non siamo pronti
vi giuro, non siamo ancora pronti.
Si sta in silenzio nude foglie
a respirare piano in una zona franca
lontano dagli strali del dolore
al riparo dalle promesse della gioia
conta soltanto l’audacia dell’attesa
sfida consumata nelle stanze della mente
prima stretta e che ora s’allarga
oltre le doglie dei pensieri del presente
non si piega l’anima schiva
all’imbelle cicaleccio
della grande distrazione generale.
Fuggire allora da chi cerca di trattare
le condizioni d’una resa
e la bestemmia esce liscia
come la carezza sulla pelle dell’amata.
Si chiudono le cose
nel gioco oscuro del giorno
restiamo affacciati ad un balcone
senza più capire il gioco degli sguardi
immobili sulla soglia
d’una stagione priva di coraggio.
Sono nostri questi lampi
groviglio di nervi
in un cielo pesante di pioggia?
Sono nostri questi occhi
che oltrepassano il confine della luce
e ci guardano da dentro?
La tregua del chiarore non lo dice
e restiamo prigionieri
su questa nave inchiodata alla banchina
d’un porto straniero, punto esatto
dove tutti guardano nel vuoto.
Le combinazioni dell’attesa
fecondano silenziose l’ossessione
del tempo e nessun disegno appare
concluso in questo deserto gelato
persino uno slancio distruttivo
è forza indimostrabile
che spinge la vita a risalire
oltre se stessa che abbraccia
la fine ancora spostata un metro più in là.
Così il mondo rinasce e affonda
consuma e ritorna sui suoi passi
irrisolto eppure così vicino
all’intima illusione dell’ultima partenza
estrema soluzione confusa nel grido
del bambino, nel ghigno del soldato
nel pianto sommesso d’una armonica blues.
Niente si muove, restiamo inchiodati
a quello che siamo e da sempre siamo
già stati anche senza saperlo
scavano sempre nello stesso punto
e ripetiamo gli errori, le attese, le risa
e il tempo è una pietra al collo
una smania che ci danna
nell’illusione d’una nuova direzione
curiamo lembi di pelle bruciata
con l’unguento d’un sottile dolore
resta l’inutile inciampo di voci dentro
che ripetono roche e stanche
“che altro potevi diventare?”
Chiudere i porti…
Chiudere i porti e lasciar riposare
le nere coscienze marce di rabbia
merce di scambio di stolto rancore
mentre grasse risate dilagano
nelle sudice piazze, deragliate ragioni.
Chiudere i porti e non dover incontrare
l’orrore di occhi naufraghi in mare
di corpi salvati piagati dal sole
stremati da guerre monete sonanti
del nostro silenzio di barbari stolti.
Chiudere i porti alla fuga smarrita
sul mare-sepolcro di cenere e sangue
le ombre dei morti sono gelate
scure radici senza più storia
deserto di muri e orecchie mozzate.
Chiudere i porti del mare che un tempo
fu Nostro, libera onda di luce
ora muro che cresce abisso di sale
specchio scheggiato dal pianto di pietre
posate sul fondo del cielo d’estate.
Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi, Edizioni La Vita Felice, Prefazione di Alfredo Rienzi, 2017
Il tono, la spada, la preghiera
Nota su Stefano Vitale, “La saggezza degli ubriachi”
Primo viene il tono. Lo stesso termine indica un sistema di sostegno, una “langue”, una tonalità per il musicista e anche una disposizione volitiva, come “enèrgheia”, nel vivente.
Qui, nel libro in questione, “tono” è affermare una presenza e una sintonia col mondo, nonostante tutto, senza illudersi di voler capire. Dice bene Alfredo Rienzi quando ci ricorda la “veemenza concettuale” che innerva il mondo poetico di Vitale. E ciò comporta una concreta assunzione di responsabilità.
Sulla pagina questa energia prende frequentemente una direzione eroico-marziale, attestata da una discreta ricorrenza di lessemi quali “rabbia”, “ring”, “duro combattimento” e così via. Tutti indicatori metaforici di una tonalità yang dinamica e virile, qui e là persino eroica.
E' la spada. Ma non combatte alla cieca. Resta forte, in inquietudine, una continua interrogazione di senso. Ecco la domanda che brucia, sempre scandita, insaziata, di una forma e di un senso. Ricerca di una forma che, economizzando, abiti e faccia vibrare tutta quella forza, quella verve, quella sovrabbondanza di energia. Il “punto fermo da cui ricominciare”, o ancora, in controcanto sull' eco di Montale, “una parola certa e precisa \ che ci rassomigli una volta per tutte”.
Ma la stessa idea di perfezione, ci ricorda Stefano Vitale con bella concisione, è una “bestia della notte”. In questa immagine della bestia della notte si concentra l'inquietudine da insonne di chi sa, in piena consapevolezza, che ogni domanda posta deve (sottolineo questo deve) venire riassorbita da una penetrazione successiva.
Solo così, inghiottita dai suoi stessi rimbalzi (quante torsioni, quante rovesciate nella poesia di Vitale) la parola, guidata dal canto, rivela il suo essere preghiera. E per preghiera intendo parola che agisce, Quella parola che convoca forze, anche sconosciute. E sono le stesse forze già presenti in figura di spada, come indicatrici di una volontà, di una presenza. In fondo, la spada è anche la forza del distacco.
Nel farsi della poesia di Vitale ogni voce deve entrare in risonanza con altre voci interne e sottostanti, consegnate a una legge che non appartiene del tutto al singolo elemento. Sono voci in contrappunto. Così, ad apertura di pagina, avviene che ci sia una linea che permette al lettore di seguire la bella sonorità e il filo sintattico, e al tempo stesso che ci sia anche una distorsione, una scalfittura che prefigura varie direzioni del testo. E sull'onda di queste riflessioni “musicali” vorrei ricordare una poesia, fra le tante, che mi è parsa davvero cruciale. E' quella ispirata dal quartetto di Mozart, “delle dissonanze”. Ne riporto soltanto la clausola profonda e suggestiva: gnomica.
“L'inquietudine nasce dalla leggerezza / non serve battere i pugni, strapparsi i capelli / basta l'incanto d'una carezza / per rendere terribile lo sguardo,”
Di fronte a versi come questi si può riprendere ciò che Victor Segalen scriveva a proposito delle Stele: “costringono alla sosta in piedi, faccia a faccia con loro”.
Dario Capello
Stefano Vitale.
Nel 2003 ha pubblicato (con Bertrand Chavaroche e Andy Kraft) la plaquette Double Face (Ed. Palais d’Hiver, Gradingnan, Francia, nel 2005 Viaggio in Sicilia (Libro Italiano, Ragusa), Semplici Esseri (Manni Editore, Lecce). Per le Edizione Joker ha pubblicato Le stagioni dell’istante (2005) e La traversata della notte (2007). Nel 2012 ha pubblicato Il retro delle cose presso le edizioni Punto a capo; nel 2013 per Paola Gribaudo Editore la raccolta di poesie “Angeli” (con illustrazioni di Albertina Bollati) che ha dato vita ad un importate spettacolo di teatro-danza andato in scena al Teatro Astra il 12 maggio 2014.
Nel 2015 ha curato (con Maria Antonietta Maccioccu) la raccolta di poesie “Mal’amore no” edito da Se Non Ora Quando. Nel 2016 ha partecipato alla mostra del pittore Ezio Gribaudo “La figura a nudo” con una plaquette di 24 poesie pubblicate in mostra e sul catalogo. Sue poesie sono pubblicate su numerosi blog e siti web oltre che in riviste ed antologie tra cui ricordiamo “Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta “ (2012) e “Il Fiore della poesia” (2016) entrambe da “Puntoacapo” edizione.
Nel 2017 ha pubblicato presso l’editore “La Vita Felice” la raccolta “La saggezza degli ubriachi” che ha già ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Sue poesie sono tradotte in inglese e francese. Si occupa di critica letteraria, e di poesia in particolare, su www.ilgiornalaccio.net nella rubrica “Oggetti smarriti”.