Having a coke with you
rubrica a cura di Sara Comuzzo
Having A Coke With You/Bere Una Coca Con Te è il titolo di una poesia di Frank O’Hara (1926-1966) che parla di essere innamorati, opere d’arte, l’arancione di tulipani fluorescenti, gente e statue, movimento ed immobilità, ritratti senza faccia e ubriacature di colori. Fotografa cose semplici e quotidiane da fare con la persona amata, come andare a guardare un quadro o bersi una coca-cola, mentre si rimane sorridenti ed estatici di fronte al sole di New York delle quattro in punto. Questa poetica centrifuga nello stesso cocktail letteratura e arte, vita e sogno: postmodernismo, pop-art, surrealismo, queerness, flusso di coscienza e tecnica del cut-up si fondono in chiave ironica, attraverso l’uso di un linguaggio semplice ed accessibile. Ancorandosi saldamente a tali premesse, questa rubrica pretende di analizzare con la stessa eclettica ermeneutica testi di poeti contemporanei italiani e stranieri, ricercando voci fuori dal coro che deviano dal canone frantumandone i confini.
4. Francesco Tomada: Affrontare la Gioia da Soli
La raccolta Affrontare la Gioia da Soli di Francesco Tomada (Samuele Editore, 2021) si snoda tra stazioni transalpine e miniere, case di riposo e frontiere attraversate illegalmente, cave e case. Fluttua imperterrita tra le dimensioni di passato, presente e futuro, formando un altrove insolitamente accessibile, costellato da desideri infuocati come “immaginare un mare” sul letto di un fiume in secca o scendere fino alla verità assoluta delle cose per “spaccare il mondo” per davvero.
In questi versi assistiamo al fiorire dell’inverno raccolto in un sorriso; osserviamo i cipressi al lavoro, che, ostinati, puntano dritti al cielo “come se dovessero tenere su le nuvole”; voliamo ubriachi accanto alle farfalle e, come loro, non riusciamo mai a seguire il tragitto regolare ma ci imbarchiamo in insensate direzioni spezzate.
Veniamo travolti da un uragano in cui intimità e universalità si fondono insieme, rendendo impossibile stabilirne i confini. C’è l’elemento relazionale che si dirama in un’esplorazione onesta e dolorosa di una miriade di rapporti interpersonali e familiari: di coppia, con i genitori, con i figli, con i compagni di classe, con i passanti, con i matti. Ci sono i piani per un “possibile domani”, le tracce che segnano il luogo da cui ripartire; “l’amore sbilenco”; il buio che scende troppo presto; l’appello compiuto guardando una foto di terza elementare che ritrae “l’unico bambino che non ride”.
Ci sono i salti sulle pozzanghere ghiacciate, perché “se qualcosa si è rotto /a ripararlo/ ci penserà l’inverno”; l’ululare dei lupi che accende solitudini improvvise. E infine, ci sono le altalene per “arrivare lì, dove si tocca il cielo”. In un mondo che può essere riassunto nella tenera e tragica istantanea dell’abbraccio fra “pugili troppo sfiniti per farsi ancora del male”, eccoci ad oscillare sull’altalena, spingerci forte, come per volare, come per cercare qualche rimasuglio di speranza, un fiore in mezzo al deserto, una flebile luce nella notte. Nel loro brillare, per la vastità di tematiche e per il racconto di esistenze in bilico, queste poesie sembrano danzare implacabili sulle note di Anthem di Leonard Cohen: “Suonate le campane che possono ancora suonare/ dimenticate la vostra offerta perfetta/ c’è una crepa in ogni cosa/ è così che entra la luce”.
Siamo ai calci di rigore, ora non abbiamo più scuse; come ci esorta Tomada: è tempo di affrontare la gioia da soli, con “il terrore di chi vede le cose accadergli e non le capisce”.
da IL MARE IN TRANSALPINA
V.
Quanta ostinazione nei cipressi
altre piante perdono le foglie
loro invece no, che non sia mai
mio nonno ripeteva di continuo:
nella vita bisogna stare sempre
con la schiena diritta
dicono che gli alberi sappiano ascoltare
ed eccoli nel grigio di novembre
rigidi e puntati verso l’alto
come se dovessero
tenere su le nuvole
da FIGURE, NOMI
VIII.
Chiedersi perché
le farfalle non vanno mai diritte
ma seguono tracce spezzate
frastagliate
senza senso
rispondersi da soli:
se oggi mi scoprissi capace di volare
io mi riempirei di spazio e aria
se la vita durasse soltanto tre giorni
non butterei il mio tempo
per decidere una rotta
se proprio si deve morire così in fretta
che sia per troppa gioia
che sia per troppo vento
da L’AMORE SBILENCO
I. Da dove ripartire
Tornare indietro a quando eravamo giovani
a prima di conoscerci
adolescenti
bambini
grovigli di cellule nell’utero
pensieri di un possibile domani
prima del concepimento
le nostre madri già credevano in noi
ecco da dove ripartire
guardarci l’uno con l’altro come se
non esistessimo ancora
da ALTALENE
V. 3.30 A.M.
Dicono che in quel momento
tutta la vita ti passa davanti
io invece ero troppo ubriaco
e non ricordo nient’altro
che il suono metallico del guardrail
e il cofano che si piegava sul parabrezza
adesso che ho una condanna alle spalle
e un corso di rieducazione
non sono un uomo migliore o peggiore di prima
soltanto mi stringo di più
alle cose che amo
anche i pugili si legano abbracciandosi
quando sono troppo sfiniti
per farsi ancora del male
IX. Kettler
Quando i bambini erano piccoli
mi piaceva da pazzi portarli alle altalene
salire su quella accanto a loro
con il pretesto di tenergli compagnia
e dondolarmi in quel modo che stringe il fiato
quando all’apice del volo ricadi verso terra
ma non la tocchi mai
adesso no
non devo più accompagnare nessuno
ma le altalene in giardino non le ho mai smontate
non ho più scuse
non cerco scuse
vediamo se sono cresciuto abbastanza
per affrontare la gioia da solo
Francesco Tomada (1966) vive a Gorizia. Ha pubblicato le raccolte L’infanzia vista da qui (Sottomondo, 2005), A ogni cosa il suo nome (Le Voci della Luna, 2008), Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli, 2014), Non si può imporre il colore ad una rosa (Carteggi Letterari, 2016), Affrontare la gioia da soli (Pordenonnelegge/Samuele, 2021); quest’ultima è recentemente risultata vincitrice della terza edizione del Premio “Sono un foglio di carta vivo” Loredana Marano, indetto dal sodalizio culturale Nessun Giorno sia Senza Poesia.
I suoi testi sono stati tradotti in una quindicina di lingue straniere.
Insieme ad Anton Špacapan Vončina, è tra i fondatori del festival internazionale Če povem 83, e con lui ha scritto il romanzo Il figlio della lupa (Bottega Errante Edizioni, 2022).
3. Editi di Maurizio Benedetti: Nel sole imprevedibile, io parto per Saturno
La poesia di Maurizio Benedetti ci travolge con la forza incontrollabile di un uragano e ci trasporta in orizzonti sterminati, dove i confini si fanno incomprensibili, mentre case sghignazzanti nel vento senza vento bisbigliano: The sky’s the limit.
In sole tre poesie ci troviamo dapprima su un treno, da cui scorgiamo campi coltivati, fiori rossi tra i binari e un cielo in mutamento; successivamente facciamo tappa a Minneapolis dando uno sguardo a chi vive sotto un ponte; per poi atterrare nel sole imprevedibile alla volta di Saturno in compagnia di una falena che approda a cuore aperto.
È questa straordinaria capacità di multilocazione, di de-geolocalizzazione e di trasferimenti improvvisi a pervadere la poetica di Benedetti di un’ubiquità unica e propria che invade lettori e ascoltatori come un cocktail speciale di dopamina e serotonina, trascinandoli ovunque pur rimanendo nel qui ed ora: proprio qua sulla pagina e proprio là in universi sconosciuti; proprio adesso, in questo momento, e proprio domani, in un tempo inafferrabile.
I testi, tratti dalla raccolta Fiori Rossi dal Treno (Kappa Vu, 2022), emanano un profumo squisitamente postmoderno nell’accostamento di immagini contrastanti dove il quotidiano si oppone all’inconsueto. E così, dal finestrino del nostro Regionale Veloce, intravediamo “orti inquinati” e poi, improvvisa, “la camicia di Giusy stesa ad asciugare” mentre “un gatto gioca col traforo”. Il panorama continua stagliandosi su una distesa di campi con un’aurea di avvertimento imprescindibile: l’umanità faccia attenzione perché pazienza e passione sono distruttibili in un secondo “dalle nuove armi”. Nonostante questa verità assoluta che si muove come un pendolo alle nostre spalle, dallo stesso finestrino, riusciamo a cogliere le silhouette di fiori rossi tra i binari che sopravvivono a tutto. Il poeta ci assicura che se si è pronti a prestare attenzione, si può trovare “un cuore che va oltre la precarietà del tutto”; e se ci si concentra sul cielo, le nuvole offrono “arcipelaghi impossibili” a chi sa fantasticare e creare altri mondi. E se un amore non è ricambiato, allora proviamo a “spostare l’amore sull’intera umanità”. Forse è questa la lezione da imparare.
Nella loro richiesta di spostamenti incipriata di elementi quotidiani ed elargita con una semplicità spiazzante, queste poesie risuonano nei versi del pezzo indie di Calcutta Giro con Te, cancellando limiti e confini: “E ora abbaiano i cani/ Va a fuoco domani e il vento si vendica/ E resterò fermo solo per credere che gli altri si muovono/ Io volevo solo un giro con te prima dell’apocalisse/ E che tutto finisse ben oltre il limite”.
In giorni di pietra, tra le edere e le erbe selvatiche, la termite e l’usignolo sono al lavoro, l’una trova ispirazione, l’altro prende appunti. Il sottofondo musicale è quello di un rumore di attrezzi improvviso. Trionfa la falena che va in esplorazione, sconfiggendo il vento; mentre il poeta parte per Saturno e noi, su quello stesso treno, trafitti da raggi solari che ci colgono di sorpresa, gli andiamo dietro.
“Attenzione treno in transito al binario 1, allontanarsi dalla linea gialla”.
FIORI ROSSI DAL TRENO
Passo con il treno
tra case sghignazzanti e orti inquinati
che non sanno che cos’è
l’inquinamento, guardo dal finestrino
e vedo la camicia
di Giusy stesa ad asciugare,
un gatto che gioca col traforo.
Cambia un po’ il tempo e nelle nuvole
noto caricature del fogliame.
Distese di campi coltivati,
la pazienza umana
con tutta la passione distruttibili
in un attimo dalle nuove armi.
Fiori rossi vivono
tra un binario e l’altro,
veloci ai nostri occhi
ma se provi a osservare
trovi un cuore che va oltre
la precarietà del tutto.
Dal finestrino in alto
cambia il cielo mostrando
arcipelaghi impossibili.
SPOSTO L’AMORE
Mezzo pennuto alto
con il naso proteso a Minneapolis,
così mi figuro davanti a te,
dirai: “No grazie.” Ed io per amore
come sono arrivato me ne andrò.
Poeta, fenomeno da baraccone.
Qualcuno dorme sotto un ponte,
qualcun altro ha problemi
di salute decisivi,
tanti sono nati e cresciuti
con l’odio senza colpa.
Sposto l’amore sull’intera umanità.
GIORNI DI PIETRA
Edere scolpiscono il silenzio.
Al tremolio del vento nel vento
la termite si ispira.
Prende appunti un usignolo.
Nel sole imprevedibile
la fede dei giorni, nel rumore
di attrezzi improvviso. Si muovono
le erbe selvatiche, ognuna
a modo suo nel vento, senza vento,
dove approda la falena
e mostrando il suo cuore esplora
mentre io parto per Saturno.
Maurizio Benedetti, poeta e performer, è nato a Berna nel 1968 e vive ad Ara Grande (Tricesimo, UD). È direttore artistico del Festival di poesia “PoetARE” di Tricesimo.
Nel 2009 ha vinto il Trieste Poetry Slam.
Ha pubblicato: Lontano da chi ascolta (2006) e So distruggere il mio dio (2008) per Sottomondo Editore; Bionda salamandra e altre poesie (2010); Davanti ai Visigoti (2017) e Fiori Rossi dal Treno (2022) per Kappa Vu.
2. Editi di Antonio Merola: Trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero
Queste tre poesie di Antonio Merola, tratte dalla potente raccolta d’esordio allora ho acceso la luce (Taut, 2023), ci colpiscono con una mazza da baseball e prima di farci perdere conoscenza ci sussurrano all’orecchio: “Adesso ti portiamo in un posto segreto bellissimo.”
E lo fanno.
Mantengono la promessa.
Dopo averci tramortiti, ci portano di peso su una navicella spaziale dove ci allacciano le cinture e ci avvertono che stiamo per decollare verso orizzonti sconosciuti (noi e loro insieme!). Dall’oblò vediamo il mondo, o meglio quello che ne resta: una casa senza mobilia e senza acqua calda che ha per soffitto un cielo alberato di caducifoglie; una cena invisibile apparecchiata per parlare con le tigri di una felicità impossibile; una giungla introvabile in cui tutti hanno sete ma non di poesia.
Poi arriviamo a destinazione: su Marte.
E qui ci fermiamo, frastornati e in stato confusionale, con la testa che esplode per il cambio di pressione, le orecchie che fischiano e i polmoni che si devono abituare a respirare in questo nuovo Ovunque, dove all’ordine del giorno ci sono delle cose da fare, inesorabili e indispensabili, per poter restare e sopravvivere: “trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero” e “alterare il diluvio.”
Quella di Merola è una poetica marziana in quanto rara e unica, dotata di una voce propria e decisa i cui versi si propagano a perdita d’occhio e d’orecchio nell’atmosfera luccicante dello spazio interstellare. La particolarità di questa scrittura risiede nella singolarità e nell’irripetibilità del suo immaginario. D’altronde, come suggerisce il primo testo: si può chiedere “l’unicità [solo] a qualcosa che non [può] ripetersi.”
C’è fame e c’è sete, in queste poesie, mentre “la paura del ritorno” traccia possibilità infinite per riuscire a “tracimare il gelo”, “pagare il mese con le parole”, inventare fughe, sconfiggere i mostri, dare da mangiare alle tigri dalle tasche, rimanere immobili, sedersi sulle storie, salutare le comete.
La poesia di Merola ci porta via, su altri pianeti, attraverso galassie sconfinate, abitazioni senza corrente e arcobaleni bianchi e neri e ci rassicura che in fondo “andare lontano è tutto/ qui.”
Colti da una “fame vera” e da una sete indescrivibile, ci arrendiamo a questi due bisogni primari dell’organismo umano e decidiamo di restare su Marte perché “esistono cose che devono a accadere per forza e tu puoi solo correrci addosso o scappare”. E tra queste cose inevitabili ci sono anche le poesie di Antonio Merola. E se il viaggio ci ha esaurito la fame, allora chiederemo da bere, perché in questo Lounge Bar postmoderno i libri sono fatti di acqua e noi abbiamo sete.
Nel loro modo di versare da bere a chi ha sete, accendendo la luce sulla Terra con l’avvistamento di una cometa, questi versi riecheggiano tra le note del pezzo Idem di Gazzelle, condividendone il consiglio elementare e cristallino: “Se si spegne la luce/ tu lo sai che è solo un interruttore.”
Da allora ho acceso la luce (Taut Editori, 2023)
C’era ancora la paura del ritorno:
chiedevamo l’unicità a qualcosa che non poteva ripetersi
una volta sola come tremare gli agguati degli uomini,
piangere l’inverno. Ci avrebbero di nuovo tagliato
la corrente, ci avrebbero di nuovo portato via
la mobilia della casa, finché non saremo piegati alle cose
gettate: allora facevamo la doccia fredda
fino a tracimare il gelo. Non ho mai saputo
meglio la fine: vorrei pagare il mese con le parole,
mangiare la carta – invece ho una fame vera
di trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero,
alterare il diluvio: voglio alberare il cielo di caducifoglie.
*
Dovevamo inventarci ogni volta la fuga
così da scarnare il mostro nella macchia:
per questo ai confini di una casa segreta
avevi apparecchiato una cena invisibile
alle tigri: con loro parlavi della felicità
impossibile. Esistono cose che devono
accadere per forza
e tu puoi solo correrci addosso
o scappare. Eravamo immobili.
E le tigri ti mangiavano dalle tasche.
*
C’è una giungla che cade su una foglia.
C’è qualcuno che si è imbarcato per scrivere
su Marte. La maggioranza aveva sete,
ma non di poesia. Così ti sei seduto su una storia.
Fuori dagli oblò della navicella
spaziale: uno spazio interstellare. C’era ancora spazio,
c’era piccola la Terra. Andare lontano è tutto
qui. Lui solo: siede su una storia. Guarda fuori
dagli oblò della navicella spaziale: una cometa.
Cercava di inventare dei libri fatti di acqua.
Antonio Merola, Roma 1994, ha pubblicato il saggio F. Scott Fitzgerald e l'Italia (Ladolfi, 2018). Cofondatore di «Yawp – Giornale di Lettere e Filosofia», collabora o ha collaborato scrivendo articoli e racconti anche per altri siti e riviste come La Balena Bianca, Nazione Indiana, Carmilla, Altri Animali, Flanerì e Lavoro Culturale. È stato tradotto in inglese, spagnolo e francese. Compare nel volume Planetaria – 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut Edizioni, 2020).
Vive a Roma, dove lavora come maestro alle elementari. allora ho acceso la luce è la sua raccolta di esordio.
1. Inediti di Ariane Castelo Cipriano: Tacere Non È Volere Il Silenzio
Questi tre inediti di Ariane Castelo Cipriano volano ad ampio raggio varcando distanze planetarie, raggiungendo paesaggi lunari con una bici a scatto fisso e perdendo autobus a ripetizione mentre sono contemporaneamente indaffarati nella ricerca di scuse e silenzi.
Eppure, a volte, le cose non sono esattamente come sembrano. Non rispondere a una domanda, non saper scegliere, non trovare cosa dire “non è volere il silenzio.” È molto altro, molto di più. Inutile cercare scuse: anche se non si riesce a salire sui mezzi di trasporto, rimangono le strade, impassibili ed eterne. Le strade, come le scelte e come le risposte, possono essere percorse a piedi, di corsa, possono essere cambiate, abbandonate, dimenticate – sbagliate o “non segnalate.” In un mondo dove le scuse diventano “la storia” e “l’enigma”, le bocche da cui quelle stesse scuse fuoriescono troppo abbondantemente sono occupate da “carie recidive, infiltrazioni e fratture.” Le notti insonni “sono digerite con fatica” da un addome che deve essere piatto e in forma, a detta della dottrina salutista di certe amiche. Il legame bocca/pancia d’altronde è inevitabilmente biologico, alimentare: la pancia che abbiamo dipende da ciò che mangiamo e probabilmente, di riflesso, anche le parole che diciamo o le scuse che inventiamo sono date – assai scientificamente – da ciò che ingurgitiamo.
Forse, la pioggia è il modo dei corsi d’acqua di dirci qualcosa, ma non sappiamo ascoltarli, comprenderli, decifrarli. Sappiamo solo aprire ombrelli, proteggerci dalle gocce. E allora non rimane che parlare “perché/nessuno capisce gli occhi/la lingua dei laghi.” Non rimane che stare zitti quando “nessuno sa leggere/le mie unghie morsicate/le tue labbra insanguinate.”
È una poetica in cui parlare e tacere fanno a pugni, sole e pioggia si sfidano a braccio di ferro e ciò che non diciamo rimane incastrato fra i denti, insieme alle otturazioni invisibili o visibilissime. Nel loro modo di sviscerare la verità e fotografarla nella sua nudità nascosta, questi versi si accostano alle tematiche del pezzo Excuses dei The Morning Benders: “Ho inventato una scusa/Hai trovato un altro modo per dire la verità/Non ho messo nessun altro sopra di noi/Saremo ancora migliori amici quando tutto si trasformerà in polvere.”
Pieni zeppe di scuse, è giunto il momento di chiederci che cosa vogliamo e, forse, invece di replicare, fare silenzio, starcene zitti. Dimenticare gli ombrelli. Capire la pioggia. Aspettare il sole.
***
scusa
tacere
quando ti chiedono
cosa vuoi
non è volere il silenzio
potevi prendermi per mano
ma l’avevi troppo fredda
se hai perso l’autobus
vuol dire che è rimasta la strada
le scuse che trovi
sono la storia
sono l’enigma
*
carie recidive, infiltrazioni e fratture
imparo da siti online
senza reputazione
come dire
perché le notti
in cui non dormiamo
percorrendo strade
non segnalate
sono digerite con fatica
dalla pancia che la tua amica
ti supplica di ridurre
ma non ha senso
e io la bacio
ancora una volta
così non dobbiamo
parlare di bocche
scientificamente
*
cose che non dico
io parlo perché
nessuno capisce gli occhi
la lingua dei laghi
nessuno sa leggere
le mie unghie morsicate
le tue labbra insanguinate
la fame nascosta in vene
sottili come la rabbia
quando c’è il sole però
sto zitta
Ariane Castelo Cipriano ha studiato Filosofia a Sao Paulo e Scrittura Creativa in Inghilterra prima di stabilirsi a Lizzano in Belvedere, dove co-gestisce un rifugio in montagna e tiene laboratori di poesia.