LA PAGINA DI
PAOLO LAGAZZI
in collaborazione con l'autore
Paolo Lagazzi, I volti di Hermes. Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni, Moretti & Vitali, 2023.
VISIONI DI HERMES.
LEGGERO, NON FRIVOLO
Conosco Hermes. E’ il dio messaggero, ubiquo, vola, invisibile, recando le disposizioni e volontà di Zeus e del Pantheon greco. Hermes non è solo un ambasciatore, è un soffio, che collega il mondo umano a quello divino in modo necessariamente misterioso, inafferrabile. In Eschilo Hermes è lì, accanto alla roccia sul mare di Scizia ove Efesto sta inchiodando i polsi di Prometeo per realizzarne il supplizio: Hermes soffre nel ripetere l’ordine di Zeus che condanna il dio buono, ma deve eseguire.
Hermes, nelle Metamorfosi di Ovidio è l’ubiquo, tacito, dolce messaggero pietoso che giunge in sogno alla regina Alcione, per svelarle, nel sonno, come il suo marito, l’amato Cèice, sia morto, affogato nella tempesta. Hermes è un invisibile, ma trema di compassione.
E ricompare, nel tempo cristiano, nei versi del sommo poeta del Novecento, Rainer Maria Rilke: Orfeo, Euridice, Hermes, l’irraggiungibile poesia in cui la creatura aerea e ubiqua, assiste impotente alla rovina di Orfeo, che, dopo avere oltrepassato le porte del regno infero, e ritrovato la moglie Euridice, si volta, sulla via del ritorno, contravvenendo all’imposizione della dea degli inferi, la perde, vede Euridice svanire “lei che tornava sulla stessa via,/ turbato il passo dalle bende funebri,/ malcerta, mite nella sua pazienza.”
Conosco Hermes, il messaggero aereo e alato: ora scopro che lo conosco solo in parte come accade di ogni mito, di Dioniso, di Orfeo, che sempre nasconde nuovi volti: e lo scopro grazie a un libro fascinoso e necessario, I volti di Hermes. Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni, di Paolo Lagazzi (Moretti e Vitali, p. 190, Euro 24).
Un libro svelante in cui saggistica e narrativa si fondono felicemente (è un genere, questo saggistico e narrativo che conosco, amo e pratico), lasciando il lettore stupito per le fulminanti rivelazioni e un mirabile stile in cui la prosa arde quasi come poesia, senza mai spegnersi. E l’indagine, l’esplorazione del mondo di Hermes attraverso letteratura e mito scorre felicemente nel racconto autoesperienziale, nella vita e memoria di Paolo Lagazzi, assolutamente estraneo alla debolezza frivola dell’autobiografia: dall’infanzia dei pranzi di Natale ai giochi di prestigio, dall’incontro con poeti defunti e poeti viventi, l’autore sta narrando un sogno di visioni che continua nella pagina. Memoria che diviene immaginazione: “Non saprei dire dove e come sia cominciato il mio incontro con Hermes. Forse, nel tempo remoto dell’infanzia, un giorno il dio mi sfiorò una prima volta senza che lo sospettassi? Forse, quel giorno, lo scambiai per l’angelo custode, per un riverbero lunare o per un riflesso di quella lanterna magica che, ancora privi della tv, di tanto in tanto io e mio fratello andavamo a vedere a casa di una zia? Senza dubbio a quella prima epifania ne seguirono molte altre.”
Hermes, nella scintillante versione di Lagazzi, dio degli opposti e del paradosso, guardiano delle soglie attraverso cui l’anima si specchia nel gioco alterno della luce e dell’ombra, del vero e del falso, del reale e delle illusioni, è l’archetipo della condizione borderline, l’incarnazione suprema di tutto ciò che fa della vita una cosa doppia, un gioco di scambi e di equivoci, un turbine di rovesciamenti...
Hermes in latino diviene Mercurio, meno invisibile, più vistosamente alato in capo. Ma generante l’aggettivo “mercuriale”, che indica leggerezza aerea, salubre, quasi gioiosa, assolutamente diversa dalla frivolezza. E su questa leggerezza derivante da Mercurio, quindi da Hermes, Lagazzi scrive righe importanti: l’etimologia di leggerezza, sottolinea, rimanda al latino levis, che può avere significati positivi, come “veloce”, ma anche negativi, come “debole, incostante”: la leggerezza aerea, buona, è realtà spirituale che si contrappone alla superficialità dominante. Mercuriale leggerezza, all’opposto di frivola banalità.
“Se Hermes è stato, almeno idealmente, uno dei miei maestri cruciali (accanto a Cristo e al Buddha), i suoi messaggi, i suoi sussurri e ammicchi si sono sempre serviti di altri maestri per arrivare in qualche modo a nutrirmi.”
Da un lato l’inafferrabile Hermes ha poteri di magia nera: con la sua bacchetta domina arbitrariamente vita e morte, da un altro lato disattiva l’azione dei veleni, è il maestro dei “mediatori”, dei pacificatori. Da un lato è l’inventore del gioco di prestigio (Lagazzi ha un passato e forse anche un presente di prestigiatore), favorisce incontro e dialogo, e sovrintende a tutto ciò che è interpretazione, ermeneutica. Felice, balsamico questo libro di “scritti legati alla mia propensione ermetica, cioè al mio bisogno di magia, di sogni, di azzardi, di fantasia, d’avventura e al desiderio di cimentarmi in esperimenti critici ispirati allo stile vagabondo, mobile, acrobatico, leggero, capriccioso, curioso del più imprevedibile e inventivo dio greco.”
Roberto Mussapi
(“Avvenire”, 18 aprile 2023)
Paolo Lagazzi, I volti di Hermes. Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni, Moretti & Vitali, 2023.
Dopo essersi iscritto al Club Magico Italiano, Paolo Lagazzi si è esibito da giovanissimo come mago in coppia con suo fratello gemello Corrado. Pur avendo abbandonato presto (a diciassette anni) il mondo dei prestigiatori, è stato segnato per sempre dall’incontro con grandi artisti della magia quali Alberto Sitta, Ranieri Bustelli, Fred Kaps, Ron MacMillan, Tony Binarelli e Nevio Martini. Tutti i suoi libri, sia di saggistica che di narrativa, sono intrisi di vibrazioni magiche, di riverberi illusionistici o “ermetici”. Com’è noto fin dall’antichità, è Hermes, il più fantasioso e inventivo dio greco, l’inventore dei giochi di prestigio: a questo dio è dedicato il nuovo libro di Lagazzi I volti di Hermes – Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni (Moretti & Vitali, 2023).
Il libro trae il suo titolo dal manifesto omonimo per una nuova critica letteraria firmato da Lagazzi in coppia con Giancarlo Pontiggia, uscito in prima battuta nel n.209 (ottobre 2006) di “Poesia”.
Insieme ai precedenti libri Per un ritratto dello scrittore da mago (1994 e 2006) e Il mago della critica (2018), I volti di Hermes forma una sorta di specchio a tre ante o un trittico magico-metamorfico-ermetico. Oltre a ripercorrere il mondo dei prestigiatori, il testo tocca, sfiora o attraversa luoghi dell’immaginario e della creazione assai vari, dagli Inni Omerici ad Apuleio, dai bestiari medievali all’astrologia, dal Parmigianino all’alchimia, da Shakespeare a Yeats sino alle vie del Tao e dello Zen, perché, come ci insegna Hermes, tutte le forme di vera magia sono legate fra loro: tutti i grandi maghi sono, in modi diversi ma fraterni, esploratori dell’infinita Metamorfosi cosmica.
(Risvolto di I volti di Hermes)
Che figura polimorfica, Paolo Lagazzi, questo latitante con la lanterna, sapiente che non inveisce ma inventa. Un giorno bisognerà scriverne una biografia immaginaria, sul gusto di Marcel Schwob, sulle elitre di una duna, a cavallo del drago: Lagazzi è un rocker e un illusionista, ha unito lo scibile emiliano ai sortilegi dell’haiku, la fiaba ai velami del Tao, Attilio Bertolucci e Lao-Tse, il trucco e il mito. Per mettere un po’ di salnitro a questo libro, che è, come sempre, un diorama sulla china del Centauro, pagine che vegliano sul labirinto, concime per il mostro, immagino al fianco di Hermes, “il dio dei viandanti e del messaggio” – secondo la mitologia per enigmi di Rainer Maria Rilke –, Dioniso che “contemplando la propria immagine” nello specchio forgiatogli da Efesto “si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità” (Proclo) e Orfeo che “con la sua voce condusse ogni cosa nella gioia” (Eschilo). Lo specchio, la voce: figure di illustre illusione, ricami verbali tra le ombre. A queste figure sommo – per devianza – quella di Davide, il re ragazzo che svolge la cetra in fionda, e viceversa: poesia che sa sedurre e che uccide.
Giocando – perché il creato accade per gioco, con intrepida naturalezza e trepidante ingenuità – Lagazzi si è dato il compito di togliere le usurate vestigia alla letteratura. Ne ha conservato il prestigio, il bagliore dietro l’inganno, lo stupore oltre l’illusione. Norman O. Brown, fautore di “un cristianesimo dionisiaco”, diceva che i libri esistono in virtù del loro “elemento magico” e che “amare è trasformare; essere un poeta”. Dopo il prestigio, l’oggetto scomparso non torna esattamente quale era prima: chi lo osserva non è ciò che era quando è sparito. La metamorfosi è ovunque – oppure, se preferite, la conversione.
Davide Brullo
Paolo Lagazzi: Hermes e i sortilegi della letteratura
Dopo la pagina conclusiva dell’ultimo libro di Paolo Lagazzi, I volti di Hermes. Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni (Moretti&Vitali, nota critica di Davide Brullo), realizzo improvvisamente due cose. La prima: l’ho bevuto quasi d’un fiato. La seconda: mentre ne traevo le virtù, ero costantemente adagiato sul divano o, se in questi giorni d’aprile un po’ coperti recavo il libro con me in campagna, lo assumevo come una pozione, sprofondato s’una poltrona vicino alla porta a vetri. Chi m’avesse intravisto, anche di sfuggita, avrebbe forse pensato per un attimo a Oblomov, dominato da quella sua originale e sognante indolenza, velata di Kvass. Due cose insolite, queste, per quanto mi riguarda, perché in quelle posture semi-abbandonate, mi si potrebbe vedere più facilmente con un romanzo, o un libro di versi. Il fatto è che, trattandosi d’un libro di Paolo Lagazzi, le cose non sono prevedibili. Lagazzi non è, unicamente, un critico: è anche un mago. La sua magia bianca proviene dall’assimilazione profonda del mito di Hermes, Mercurio per i latini, il dio messaggero, con le alucce sul petaso e ai calzari – quello delle cinquecento lire, per chi le ricorda. Dio dei mercanti e dei viandanti, dio dei giocatori e dei ladri, è anche psicopompo (ovvero accompagna le anime all’aldilà). È un dio complesso e imprendibile, leggero e profondo, che si muove tra cielo e terra ed è sovrano delle arti magiche. In queste pagine di sottile seduzione, mentre fa i conti con l’intera sua opera critica, Lagazzi non soltanto spiega il suo rapporto col mito di Hermes, ma chiude anche, con quest’ultimo volume, quella che si rivela essere una trilogia, iniziata con Per un ritratto dello scrittore da mago (1994 e 2006) e sviluppata con Il mago della critica (2018, dedicato a Citati, autore per il quale, come per Bertolucci e la Spaziani, ha curato il Meridiano di Mondadori). Un disegno che appar più chiaro ora nella sua completezza, perché il fil rouge che l’innerva è la predilezione per quegli scrittori che nutrono un solare o segreto rapporto con il dio Hermes. Del resto, la sua presenza, Lagazzi l’avverte da sempre. Il dio-mago orienta il suo carattere e i suoi gusti; i suoi percorsi funambolici; gli interessi e le passioni letterarie. Hermes svolazza sulla sua biografia e sulla sua bibliografia, come l’eterno fanciullo Peter Pan. Alla polvere degli archivi (che pur conosce) Lagazzi preferisce la polvere magica che il personaggio di J. M. Barrie sparge per far volare Wendy e gli altri (i suoi lettori). «I volti di Hermes» conducono s’una giostra magica manovrata da un grande illusionista della scrittura, i cui sottili richiami, vinosi e cangianti, avviluppano e irretiscono. Hermes, a mezzo tra gli Apollo e i Dioniso di nietzschiana memoria, volubile e prensile, rapido e acuto, divien chiave di volta interpretativa dei testi, grazie alla quale il critico annoda sottili e imprevedibili correspondances. Così, nelle sue mani di prestidigitatore, il Tao e la cultura alchemica, le scritture rutilanti di Citati e la poesia di Bertolucci, i versi di Fernanda Romagnoli e quelli di Maria Luisa Spaziani, gli scritti di Mussapi sul mare e il dialetto ligure di Paolo Bertolani, lo haiku e le poetiche occidentali della leggerezza, Hitchcock e Conrad, Malerba e Davide Barilli si parlano anche a distanza. E poi, ancora, ecco l’autore muoversi tra le visioni giocose, perturbanti di Tullio Pericoli e i Peanuts; tra suggestioni astrologiche e animali fantastici («e dove trovarli», se non qui?). Per Lagazzi la scrittura è essa stessa strumento d’interpretazione. Una scrittura ipnotica, rapinosa, fascinatrice, mercuriale, capace di modellarsi mimeticamente sul testo degli scrittori per tradurne in sostanza volatile, in evanescente e irripetibile vapore alchemico gli intimi segreti. Morbido come un gatto, uno e doppio, insidioso e maculato come l’ultimo manto esotico ancora vagante in territori liberi, Lagazzi è un sublime adescatore, a tratti irresistibile persino per chi non condivide le sue posizioni critiche, le quali voglion correre il rischio di librarsi lontano da tutte le metodologie (storiche o ancora in gioco) della critica razionale: dai residui dello strutturalismo alla filologia, sino a quella parte della critica che collabora con altre scienze (la psicanalisi, l’antropologia, la sociologia, la didattica…). Quando talvolta, a leggere Lagazzi, mi viene il sospetto (o la certezza) che il rapporto tra lui e il dio pagano non sia soltanto seduzione culturale o concreto strumento critico, ma una vera e propria fede, allora, come un trasalimento, mi ricordo che Lagazzi è un illusionista, e potrebbe dunque esser stato così abile da farmelo credere.
Camillo Bacchini
(“La Gazzetta di Parma”, 18 aprile 2023)
Paolo Lagazzi, Daniela Tomerini, L' isola della colpa, Passigli Editori, Firenze, 2020
L'ISOLA DELLA COLPA
Lagazzi e Tomerini, L’isola della colpa, Passigli, 2020
Capita spesso che la letteratura contemporanea, assecondando un bisogno tutto umano di riconoscimento, cerchi d’inventarsi dei facili espedienti per il successo. Ma la buona letteratura punta a qualcosa di diverso e più prezioso aspirando a lasciare un segno profondo in chi legge, sollecitandolo a porsi domande, ad ampliare i propri orizzonti anche a costo di uno sconquasso intimo. Proprio questo accade con L’isola della colpa di Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini, romanzo dal titolo impegnativo, misterioso e spiazzante, che ha il pregio non secondario di consentire livelli diversi di lettura.
La narrazione è tramata di mistero e misteri – con continui scambi, riprese, interfaccia, elisioni, cambi di voce – che si susseguono e ci incalzano col ritmo narrativo di un giallo. E come tale può essere affrontato il libro, benché la sua portata esistenziale e simbolica, le sue dense riflessioni etiche e le sue interrogazioni metafisiche superino di gran lunga i confini del giallo come genere letterario. Non a caso l’epigrafe iniziale, tratta dal Filottete di Sofocle, recita: “Non salpano per quest’isola gli uomini saggi”. Queste parole creano immediatamente un’allerta nel lettore avvertendolo che sarà risucchiato senza rete in una storia oscura e ambigua, le cui dinamiche potrebbero coinvolgerlo in una prova di resistenza nei confronti di sé stesso. Ciò che segna a fondo questa storia è anzitutto il sentimento del sacro, ovvero quello che si potrebbe definire il mistero teologico del bene e del male. Un’interrogazione etica radicale contrappunta, incalza e movimenta i capitoli. La narrazione si dipana abilmente tra due voci alternanti, una maschile e una femminile, in un clima di tale suspense spirituale che perfino il paesaggio e i dettagli sono osservati, evocati o allusi attraverso i rovelli intimi dei personaggi. La ricerca della verità diventa via via per loro un magma incandescente, un cammino sempre più rischioso tra le ombre del passato, tra i fantasmi della colpa e gli agguati della follia. “Ci sono cose che devi fare, anche se ti costano il sangue” recita l’incipit del libro, asciutto e perentorio; e, poco più avanti, “Quante volte nella mia vita avrei dovuto aprire porte e quante volte, invece, non le avevo nemmeno toccate limitandomi a guardarle e a passare oltre? Era stato un bene o un male?”
Ad intrecciarsi sono tre destini: quello di un uomo, di una suora e di un’altra donna. Questi destini si dipanano attraverso una serie di soglie che, una volta aperte, rivelano ombre in tensione o in bilico tra la bellezza e la colpa, tra il bisogno dell’assoluto e il richiamo sinistro del male. “Le cose non sono mai come possono sembrare: l’anima umana non è forse un abisso? Le apparenze più ovvie possono celare atroci verità” riflette quasi subito il protagonista maschile.
Affascinante è l’evento reale alla base di questa storia: Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini (marito e moglie) nel corso di una vacanza estiva in un’isola greca delle Cicladi hanno scoperto per caso un convento ortodosso abitato da anni soltanto da una piccola suora, e l’incontro con quella donna (che si occupava di tutto, per evitare che l’abbandono del convento portasse alla sua demolizione) ha innescato in loro un intrico di domande, curiosità, ipotesi che non si è esaurito una volta concluse le ferie, che è diventato piuttosto una specie di ossessione da sciogliere. Questo insieme di pensieri è tornato a intermittenza nella loro mente per almeno due anni, finché non hanno deciso di ricavarne una storia tentando, come nei romanzi russi e mitteleuropei, di scavare nei meandri della coscienza. Toccando il sentimento del tragico e del sacro, in un sapiente tessuto di riflessioni sotto forma di monologhi silenziosamente dialoganti e intessuti di flashback, i personaggi, e noi lettori insieme a loro, sono condotti a sondare i propri limiti, le debolezze, le tentazioni e tutta la gamma delle emozioni e delle perversioni umane in un climax ascendente e discendente, vertiginoso e abissale. Rimane sullo sfondo la presenza di una figura femminile bellissima, trait d’union tra l’uomo e la suora e ragione unica del loro fatale incontrarsi.
Perché questo intreccio di vite ha il suo culmine su un’isola? Forse perché ciascuno dei tre protagonisti è a suo modo un’isola, forse perché le loro vite hanno un nocciolo tragico di solitudine, di incomunicabilità reciproca? Certo il loro assurdo incontrarsi e respingersi ricorda la dura legge della tragedia greca, luogo dello spirito in cui la comunicazione con gli dèi era ardua o impossibile e le colpe devastanti, irredimibili.
In una specie di brevissimo antefatto, gli autori ricordano il movente primo del loro libro e forse di ogni vera scrittura: l’apparizione inattesa, nella loro vita, di una persona (la suora) che sembrava chiedere di continuare a vivere sulla pagina. Ma gli altri personaggi del libro? l’uomo e sua madre, la seducente prostituta, il prete santone, il pappagallo Joseph da dove arrivano? sono davvero frutto di pura invenzione? A ben guardare, non escluderei che almeno qualcuno fosse, per così dire, già inscritto in qualche casella della memoria di Lagazzi e Tomerini.
Padre Andreas, ad esempio, mi ha fortemente ricordato la figura di un personaggio della Camera da letto di Attilio Bertolucci, poeta a cui Paolo Lagazzi ha dedicato diverse opere critiche illuminanti, sostanziate da un affetto e una devozione quasi filiali: don Attilio, allontanato dalla comunità dei fedeli ed esiliato in montagna forse per aver ceduto “alla tentazioni della carne”, raccontato nella morte disteso su una barella lungo una mulattiera, non incarna pienamente la fragilità umana e la tenacia del vivere accolte dallo sguardo pietoso di chi lo osserva? In lui c’è quel Dio al quale proprio il peccato sembra condurre. E Dio può essere dappertutto ad attenderci, a patto che sappiamo riconoscerlo ed accoglierlo. “Anche se Dio non ci fosse la voce di suo Figlio non era una menzogna. E’ quella voce che mi ha convinto a combattere contro lo sfacelo delle pietre e della mia anima” dice la suora. E ancora, a proposito del pappagallo Joseph, con i suoi tratti quasi umani, al punto da suscitare una strana passione in lei, creatura sgraziata ma a suo modo assetata d’amore: “Chi sono i veri santi? Non credo siano molti: a parte Joseph e padre Andreas non mi pare di averne incontrato nella mia vita”.
Monologhi interiori di alto livello tramati di considerazioni etico-filosofiche-religiose richiamano da un lato Bernanos (L’uomo è dappertutto il nemico di sé stesso, il proprio segreto e subdolo nemico) e dall’altro Fogazzaro (Dove non vi è dolore, vi è cancrena) per gli intensi rovelli conflittuali e un insistito psicologismo al limite del morboso. “Malgrado Joseph e nonostante Cristo, con cui continuavo a parlare, certi giorni il male di vivere tornava ad affiorare come un ingorgo di sporcizia, quella che mi affannavo a cancellare dalle case dei ricchi per sopravvivere” dice ancora la suora ripensando alla propria vita prima della scelta del convento.
L’isola della colpa credo sia stata per Lagazzi e Tomerini un’isola dell’anima su cui si sono per lungo tempo aggirati interrogandosi sui problemi cruciali della vita, dando voce a pochi ma assai intensi personaggi e chiedendo ora a noi lettori di fare lo stesso. La domanda su dove e come situarsi sull’isola è la stessa di fondo che ci riguarda tutti: dove e come collocarci nella vita? Dobbiamo viverla come un viaggio verso la luce, consapevoli che per avanzare occorre lasciarsi attraversare anche dal buio, dai brividi dal dolore, dall’ombra? Dobbiamo accettare il rischio di scoprirci, certi giorni, paralizzati, ricacciati al punto di partenza, “smarriti come giocatori d’azzardo senza fortuna”?
I gorghi interiori che ci hanno coinvolti in forme diverse a fianco dei protagonisti conducono a sorpresa verso un finale difficile e spiazzante, benché forse non privo di un suo senso catartico. Dopo l’inferno, nessuna via conduce a riveder le stelle? No, proprio le stelle illuminano l’ultima, memorabile scena del libro. Al fondo della disperazione, forse chi ha atrocemente sbagliato potrà cominciare a intravedere il volto di Dio.
Nadia Scappini
Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini,
L’isola della colpa, Passigli, Firenze, 2020.
Mi capita spesso di lasciarmi suggestionare da un libro fin dai suoi aspetti più materiali, dalla sua architettura grafica o dalla sua tessitura tipografica. La copertina del romanzo L’isola della colpa scritto insieme da Paolo Lagazzi e da sua moglie Daniela Tomerini, pubblicato da Passigli, mi suggerisce, con un quadro di Renato Paresce, un dedalo di sguardi, misteri, arrivi e partenze, ma anche una sorta di metafisica inquietudine. Il titolo del libro stimola il desiderio di raggiungere quest’isola dal mare, di esplorare il suo perimetro e, pian piano, di addentrarsi all'interno, tra le sue costruzioni e i suoi abitanti. Sofocle nell'epigrafe iniziale (“Non salpano per quest’isola gli uomini saggi”) mi avverte di seguire la saggezza, di non salpare... ma il viaggio l'ho già intrapreso e ormai compiuto.
Anzitutto, quindi, l’isola: certo non è il teatro di un’avventura stevensoniana e non è nemmeno il luogo in cui accadono tutti i fatti salienti della trama. Però non si può dire nemmeno che l’isola sia solo una specie di cornice che racchiude la storia aprendola e chiudendola con la sua fisicità e la sua bellezza scabra, perché essa è anche un luogo immateriale, la condizione in cui le anime dei due protagonisti si incontrano, si confessano reciprocamente, si scrutano e s’intersecano andando sempre più a fondo, senza timore di scendere nell’abisso dei pensieri più indicibili. Questa è pur sempre l’isola della colpa, non l’isola del tesoro. E la “colpa” risucchia subito il lettore in un quadro drammatico, di tormento e di complessi disvelamenti.
La trama si sviluppa apparentemente come in una sorta di giallo-noir dove a prevalere è l’approfondimento psicologico e psicanalitico dei
caratteri, lo scavo nell’interiorità dei personaggi. I due protagonisti principali, un uomo e una suora, sono significativamente senza nome, come si trattasse di due esseri segnati radicalmente
da misteri irrisolti. Dal loro casuale incontro al monastero si sviluppa un dialogo, o meglio una confessione reciproca, dove ciascuno trova nell’altro l’interlocutore adatto a scandagliare i
propri fantasmi, i nodi e gli atti mancati di una vita intera. La storia e la peculiare personalità dell’uno e dell’altra si ricostruiscono alternativamente nella loro memoria e nei loro pensieri
segreti.
Lui è sopraffatto da una vita inconcludente, ossessionato dai ricordi della madre scomparsa e da amori malamente assortiti. Le sue esperienze e il suo carattere non sono del tutto inusuali, ma
proprio per questo suscitano domande e inquietudini nel lettore.
Lei, bruttina e insignificante, dopo una vita di solitudine ed emarginazione si illude di aver trovato finalmente la pace nella fede e nel monastero. La sua storia è costellata di esperienze
forti e drammatiche, decisamente fuori dal comune.
Ad un certo punto capiamo che la bellissima donna oggetto principale dei loro tormenti è la medesima persona. Infatti il passato di entrambi si è svolto in una imprecisata e lontana realtà urbana, anonima e indifferente, in cui Corinna, donna bella e affascinante, per un po’ è sembrata portatrice di un’azione catartica nelle loro vite tormentate.
Per lui Corinna è stata la ragazza trovata in un nightclub, con la quale si è sviluppato un ménage irriducibile alle avventure occasionali, ma che non è approdato a una relazione piena e alla pari. Condizionato da un “dover essere” che forse era solo una scusa meschina, egli non ha saputo abbandonarsi a un amore libero, e questo lo ha portato negli anni a un aspro senso di colpa.
Per la suora, un tempo infima donna delle pulizie presso lo stesso locale notturno, Corinna è stata la confidente con cui forse ritrovare l’altra parte di sé stessa; soprattutto è stata un modello irraggiungibile e quindi invidiato fino a diventare un oggetto mitico, una sorta di angelo sensuale e impossibile su cui riversare il proprio amore ma anche gelosia, risentimento e rancore.
La scrittura densa, ricca di colori e magicamente avvolgente degli autori, ci guida a sviscerare i pensieri dei protagonisti, che in una sorta di autoanalisi inesorabile sprofondano nel pozzo della tragedia. Lo stesso pozzo del monastero che svolge il ruolo di lugubre “sirena” e di specchio nero nel finale del romanzo.
La storia sviluppa una serie di tematiche in maniera avvincente e fuori da canoni prevedibili a partire dal tema della bellezza. Se è importante considerare la forza salvifica della bellezza, gli autori ci ricordano che allo stesso modo bisogna saper vedere il suo opposto, la bruttezza. Anche la bruttezza (della suora, dei bassifondi putrescenti, della prostituzione, delle angherie subite in convento...) può e deve rivelarsi come uno spartiacque, un passaggio necessario della coscienza, perfino una molla capace di produrre senso in un orizzonte più vasto. Per apprezzare appieno la bellezza occorre saper riconoscere e circoscrivere la bruttezza. E d’altra parte la stessa bellezza svela anche il suo aspetto caduco, fuorviante sino alla consunzione come nel destino di Corinna.
Altro tema fondamentale è l’amore, desiderato per pacificarsi e dare finalmente un senso profondo alla propria vita, ma avversato da un labirinto di ostacoli che i protagonisti sembrano a volte autoinfliggersi.
Il finale del libro ha il ritmo vertiginoso di una discesa nell’abisso, una discesa senza falsi pudori negli anfratti più dolorosi dell’anima. In particolare la suora, il personaggio più intenso,
solitario e immerso in sconvolgenti monologhi interiori, si avvita, si avvoltola e sprofonda nell’analisi delle proprie perversioni arrivando a vivisezionare lucidamente le scelte di fede e il
rapporto morboso con gli occasionali compagni di vita. La "colpa" evocata fin dal titolo inchioda il romanzo al pathos religioso di una confessione che richiede l'ammissione dei peccati e quindi
l’espiazione. Affinché il percorso del pentimento e della penitenza sia completo, riusciranno l'uomo e la suora a giungere a una riconciliazione finale?
La storia sembra andare per proprio conto e rapidamente verso esiti tanto imprevedibili quanto inesorabili, ma gli autori non rinunciano a segnare ogni passaggio con precise scelte stilistiche mantenendo un registro a volte quasi capriccioso accanto a quello drammatico, a ricordarci che anche l'aspetto più paradossale e grottesco dei fatti può intrecciarsi con le sfumature più impalpabili e delicate della vita.
C’è un punto a mio parere rivelatore, quando la suora afferma: “... ciò che (di questa storia) è tornato più a inquietarmi è il suo carattere irreale, posticcio. Questa è una vera tragedia, no? Eppure è come se fosse stata concepita da un autore dalla mente oscena e contorta, da un cialtrone portato a giocare, ghignando, con le coincidenze, le esagerazioni e i capitomboli del ridicolo o del deforme”.
Alcuni personaggi secondari come l’arguto pappagallo Joseph, lo straordinario padre Andreas o le suore del convento non sembrano, forse, disegnati da un pittore amante del fantastico, dello strano o del bizzarro? Tuttavia per arrivare allo svelamento conclusivo il lettore non può non ripetersi senza tregua: questa è una vera tragedia, no?
Nonostante il percorso tragico del libro verso due delitti efferati, fino in fondo il lettore si culla nell’attesa di qualche possibile redenzione, o almeno di una ricomposizione dei drammatici conflitti interiori dei personaggi.
Un’occasione forse risolutiva di riscatto, dopo la vertigine di un gesto estremo e disperato, arriva quando il turbamento di uno dei due protagonisti si scioglie in un disarmante, perentorio “Perché?”.
Paolo Scita
Paolo Lagazzi, Quella ricchezza detta povertà.
I sentieri di Paolo Bertolani.
(CAPIRE edizioni, 2020)
Il libro che il critico e scrittore Paolo Lagazzi dedica al poeta ligure Paolo Bertolani, scomparso nel 2007, è una specie di arazzo intessuto di accurate analisi critiche e di affettuosi ricordi. Stima e amicizia si intrecciano e orientano Lagazzi lungo i sentieri poetici ed umani di Bertolani, nato nel 1931 a La Serra, piccolo borgo del comune di Lerici dove faceva il vigile urbano.
Nel volume appena pubblicato da “CAPIRE edizioni” e intitolato “Quella ricchezza detta povertà. I sentieri di Paolo Bertolani”, Lagazzi ci racconta dettagliatamente e intensamente il suo primo incontro con il poeta: “L’avevo conosciuto molti anni fa, precisamente nell’estate del 1976, a Casarola, nella dimora appenninica di Attilio Bertolucci. Mi era subito parso, con quella pelle leggermente scura, la fisionomia virile ma estremamente umana del viso e il corpo non molto alto ma robusto, un tipo singolarissimo, una specie di marinaio di terra; e il coniugarsi nella sua esistenza dell’attività di poeta con l’impiego di vigile urbano non faceva che acuire ai miei occhi quell’originalità. Fin da allora sentii nei suoi confronti un’irresistibile simpatia, che si sarebbe presto trasformata in una tenace amicizia”. Un incontro magico destinato a creare un rapporto duraturo e profondo; un ritratto dai tratti pittorici.
I suoi versi sono caratterizzati da delicatezza, garbo, semplicità, nitidezza, levità, naturalezza, ma anche da complessità e tormento: “Fra i tanti poeti e narratori degli anni recenti non ne conosco nessuno più delicato e vero di Paolo Bertolani, più capace di dire il sangue aspro della vita con una voce garbata, tenera e umana”. Lo si potrebbe forse definire un poeta del limite, del margine, della soglia, in bilico fra attesa e partecipazione, solitudine e coinvolgimento, luce e ombra, chiarezza e mistero, lutto e passione, dolore e bellezza, fra la consapevolezza della precarietà della vita e lo stupore di fronte alle sue meraviglie. “Credo che poche volte, nel Novecento,” sottolinea Lagazzi, “sia stato espresso in modo così icastico e radicale il sentimento della vita come soglia, come incontro-scontro fra tutto ciò che fugge e ritorna, come perdita e ritrovamento del tempo, come morte e rinascita”. Cosciente della fragilità della gioia, Bertolani sa abbandonarsi al movimento incessante della vita intesa come flusso e corrente, sa resistere e non si arrende al richiamo e all’assalto del vuoto e del nulla, “testimoniando che, se impossibile è possedere la vita, altrettanto impossibile è rinunciarvi”. E ancora: “Perfino nel cuore del tormento egli sa scoprire possibilità di pace”.
Lagazzi ripercorre con maestria e trasporto, affiancando brevi saggi, recensioni, articoli e testimonianze, che fra loro si richiamano, l’intera opera di Bertolani, in prosa e poesia, quest’ultima sia in italiano che “nell’ibrido dialetto della Serra di Lerici”; alla fine del volume, un’ampia e minuziosa bibliografia, ci aiuta e ci guida. Nei suoi libri “ogni sua parola, ogni snodo di frase, ogni cadenza sa restituirci, come per magia, la verità delle forme semplici del mondo: di un fiore come di una sguardo, di un gesto come di un silenzio,…di un incontro come di un distacco”.
Sul valore e sulla qualità di Bertolani non ci sono dubbi: “appartiene alla famiglia di quei “minori”, di quei perdenti che sono, in realtà, dei grandi ma che possono esserlo solo sottovoce, camminando in punta di piedi”. Lagazzi diffusamente parla dei rapporti del poeta ligure con Bertolucci, che a Tellaro, vicino Lerici, trascorreva parte dell’estate. Non si tratta di un rapporto fra maestro e allievo: “ciascuno di questi due grandi autori ha una voce propria e sa esprimerla in un modo inconfondibile”. Fu comunque grazie a lui se Bertolani conobbe Mario Soldati, residente a Tellaro, e Vittorio Sereni che trascorreva le vacanze nella vicina Bocca di Magra; fu proprio Sereni a firmare il risvolto di copertina della raccolta l’Incertezza dei bersagli (1976).
Il capitolo conclusivo del libro, intitolato “Lettere, biglietti, cartoline in versi” si fa più intimo e privato; citiamo qui una delle poesie, intitolata “Senti,Esci”, che Bertolani dedicò esplicitamente all’amico Paolo:
“Non tremare anche tu
per una foglia che cade. Tu che vali.
Senti, esci,
attraversa i ponti
e fermati con calma
a guardarle che passano in bicicletta
le ragazze dorate di Parma”.
Giancarlo Baroni
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Paolo Lagazzi, Quella ricchezza detta povertà.I sentieri di Paolo Bertolani, CAPIRE edizioni, 2020.
Fluttuando tra Giappone e Occidente.
Le libellule di Paolo Lagazzi
Come libellule fra il vento e la quiete. Fluttuando tra Giappone e Occidente di Paolo Lagazzi, uno tra i saggisti italiani più fini e autorevoli, può essere letto come un romanzo dalle molteplici sfumature. I capitoli, diversi fra loro per i temi affrontati, sono uniti da un filo rosso, poiché tendono tutti, in vari modi, a mostrare come la cultura e la spiritualità giapponese abbiano sfiorato o influenzato, più o meno direttamente, molti artisti occidentali.
Il libro affascina da subito il lettore per lo stile in cui è scritto. La scrittura si trasforma in quello che vuole comunicare, il significante diviene espressione e pratica di bellezza. Verbi, aggettivazione, ritmo a volte sincopato, interrotto e ripreso, francesismi, frasi intense da batticuore, tutto partecipa appieno alla trasmissione di ciò che si evoca, si descrive, si svela. Quando parla di poesia giapponese, il saggio diviene quasi una poesia esso stesso.
Come libellule è un libro per chi desidera conoscere o approfondire la cultura giapponese, per chi pratica la poesia e vuole entrare in contatto con gli haiku e i tanka, ma anche per chi desidera orientare le sue scelte spirituali verso il buddhismo zen.
Per quanto riguarda la cultura giapponese, si può senz’altro affermare che nessuno in Italia sa, come Lagazzi, offrirci una conoscenza di essa così intimamente vissuta, non accademica ma sperimentata attraverso un confronto lungo, appassionato e sincero.
Il libro si articola in tre sezioni: la prima affronta testi e autori classici e moderni della lirica giapponese, la seconda esamina alcuni riflessi di questa nella poesia italiana dal tardo Ottocento sino a oggi, la terza dialoga con alcuni famosi maestri della tradizione zen.
Nella prima sezione pagine davvero importanti riguardano la poesia giapponese tanka e haiku, poesia che esprime un intenso sentimento della naturalezza ma che, allo stesso tempo, è fondata su una profonda consapevolezza linguistica per arrivare a dire l’indicibile, il senso unico delle cose, la semplice bellezza, il Nulla.
Nella seconda sezione vengono descritte le origini del cosiddetto Japonisme con le sue ambiguità e i suoi malintesi culturali, che hanno dato comunque luogo a proficui echi, vibrazioni, riverberi suggerendo talvolta ad alcuni poeti occidentali un cambiamento di prospettiva, di espressione artistica, di visione lirica. Ricordiamo in particolare come Ungaretti, benché riluttante ad ammetterlo, abbia subito il fascino delle forme brevi nipponiche.
Brillanti le pagine dedicate a D’Annunzio: esse ci riportano a un poeta che ha accolto molteplici influenze orientali (anzitutto giapponesi) in molte delle sue opere in poesia e in prosa, dalla Chimera al Piacere, dal Notturno al Libro segreto.
Fra le più belle in assoluto mi sembrano le pagine su Pascoli; in esse una proposta di lettura intrigante, per niente scontata, offre una nuova luce ai versi di questo poeta capace di “riconoscere il soffio del vento che porta i mormorii del lontano, i riverberi dell’ignoto, le promesse di tutti gli orienti del senso…”
Molto intense sono anche le pagine su Sandro Penna; la lettura che Lagazzi propone di questo poeta, al di là di un suo contatto verificabile o meno con la lirica giapponese, risulta arricchita di una nuova linfa che ce lo fa amare ancora di più.
La forma poetica haiku, oltre che chiarita in modo da togliere ogni dubbio a chi la pensi come poesia facile o descrittivo-naturalistica, viene presentata in molti suoi esempi italiani contemporanei. Le pagine dedicate agli autori italiani di questo genere lirico emersi negli ultimi trent’anni sono essenziali per chi voglia orientarsi tra le molte raccolte pubblicate. Nonostante la difficoltà di scrivere haiku pregnanti, Lagazzi è convinto che in Italia la ricerca in questo campo abbia generato molti esempi di buon livello.
Ed ecco la terza sezione di Come libellule. Lagazzi conosce assai bene lo Zen, non solo lo ha studiato a fondo ma ne è anche stato per anni un praticante, dunque sa perfettamente di cosa tratta e sa come portarci in un insolito viaggio verso la Verità di questa religione-filosofia. Il viaggio spazia attraverso celebri maestri Zen quali Sen no Rikyū, Sengai Gibon e Taisen Deshimaru.
Alcune pagine sono dedicate a un grande romanzo purtroppo, credo, non molto letto (da poco tradotto da Nicola Crocetti direttamente dal greco), Vita e imprese di Alexis Zorbás di Nikos Kazantzakis. (Famosa, invece, è la versione filmica – Zorba il greco – che ne ha ricavato Cacoyannis, sacrificando, però, il senso più segreto e cruciale del testo.) In questo libro il protagonista si muove come uomo che pratica la via di mezzo nel senso della spiritualità zen; la sua radicale consapevolezza del mistero e della bellezza della vita fa di lui un maestro, teso a insegnare in modo spesso paradossale, ma tanto più efficace, “che solo mantenendoci intimamente liberi possiamo fare del nostro piccolo cuore una cassa di risonanza del mondo.”
Il libro conclude il suo volo tra arte, poesia e spirito approdando a un capitolo tra i più affascinanti. In un paese, il Giappone, che, malgrado la sua apparente adesione alla modernità di matrice occidentale, rimane misterioso, indefinibile e con un sostrato magico-spirituale irriducibile, una bevuta di sakè diventa, in pagine tutte da scoprire, un’esperienza zen tesa “idealmente” al sentimento dell’infinito.
La capacità di trasmettere con grazia e leggerezza l’essenza della cultura e dell’anima giapponese permea il libro da cima a fondo. Questo è davvero un libro di rara bellezza. In esso Lagazzi conferma la sua natura non solo di originale saggista ma di poeta in prosa. Leggerlo ci dà gioia, ci aiuta a fluttuare tra la conoscenza e lo spirito.
Luigi Oldani
Paolo Lagazzi, Come libellule fra il vento e la quiete. Fluttuando tra Giappone e Occidente, La Vita Felice, Milano 2019, pp. 304, euro 20.
Paolo Lagazzi, Il mago della critica.La letteratura secondo Pietro Citati, Alpes, 2018
Il mago della critica, l’illusionista delle lettere, il sognatore in esilio:
dialogo con Paolo Lagazzi
di Davide Brullo
L’illusionista non elude la realtà – ne compie il mistero. D’altronde, lo scrittore, estremo illusionista, gioca con i verbi fino al punto da farci credere che ciò che scrive sia la ‘verità’ – e in effetti, non c’è altra verità plausibile, palpabile, possibile. Maestro del vuoto e dell’elusione, esperto nel magistero di ciò che è estinto, in un gracidio di magie, è Paolo Lagazzi, autore, nel 1994, per Diabasis – poi Moretti & Vitali, 2006 – di un libro straordinario, Per un ritratto dello scrittore da mago, che in realtà è un inno alchemico all’esercizio della critica. Senza il critico, infatti, che combina le frasi dando vocalità al vuoto, che mostra nascondendo, la letteratura non c’è, o meglio, resta guscio arcano. In quel lontano libro Lagazzi, eroe di una critica creativa, istintiva, fieramente rabdomantica, dagli interessi speciali e molteplici – ha curato, tra l’altro, le opera del poeta giapponese contemporaneo Kikuo Takano e una illuminante “Antologia di poesia giapponese” – raccoglieva un testo, Il mago della critica, che principiava così: “Nessun critico dei nostri anni… mi sembra più prossimo al vero, solitario e ardente spirito della magia antica e rinascimentale, di Pietro Citati”. Ora quel capitolo è evoluto in libro, Il mago della critica. La letteratura secondo Pietro Citati (Alpes, 2018), in cui Lagazzi – che di Citati, nel 2005, ha curato il ‘Meridiano’ Mondadori La civiltà letteraria europea. Da Omero a Nabokov – sistema i suoi pezzi critici intorno all’esimio, coronati da una introduzione – Incontrare Citati – narrativamente strepitosa – leggera e sinuosamente verticale: d’altronde, Lagazzi è anche sapiente scrittore, leggetevi il romanzo Light stone, edito da Passigli nel 2014 – il cui centro, appunto, sono i giochi di prestigio, i “trucchetti da poco”, come dice Lagazzi – dubitare sempre delle affermazioni di un illusionista – in cui il critico è versato. Penso che la leggerezza sia un carattere di Lagazzi – d’altronde un ‘trucco’ è un trucco, lo stupore di un istante, la suspance con eredità di vento e di risa. E la dedizione, quasi teologia. Oltre a Citati, ancor prima, soprattutto, Lagazzi è stato ammaliato dalla magia poetica di Attilio Bertolucci, di cui ha curato il ‘Meridiano’ delle Opere (1997) e uno stuolo di materiali: per Moretti & Vitali ha appena compiuto un ragionamento ulteriore in Come ascoltassi il battito d’un cuore. Incontri nel cammino di Attilio (2018). Questo essere fuori luogo, a lato, con parole dai rilievi arcani, affascina di Lagazzi. D’altronde, il critico illusionista fa così: ti fa entrare nell’opera letteraria senza scassinare le porte, ti mostra la stanza segreta, l’alcova degli amori e degli orrori, ti giri, e lui, magicamente, non c’è, è svanito, sembra non esserci mai stato. (Davide Brullo)
Anche parlando di Citati torna la tua mania per il ‘magico’. In cosa è ‘mago’ Citati; in cosa lo è stato Bertolucci?
Molte volte Bertolucci ha detto che ciò che gli interessava più di tutto era cogliere con i suoi versi delle “epifanie”, cioè dei momenti magici, quei momenti in cui la realtà manifesta qualcosa d’ineffabile, di miracoloso, qualcosa che, in termini proustiani, si potrebbe forse definire un punto d’intersezione fra il tempo e l’eternità. La “luce vera” di cui la poesia di Bertolucci vibra non è mai nudo realismo: nei suoi versi l’esperienza quotidiana si nutre di magia, cioè lievita, si decanta, si trasfigura, si apre sottilmente al fantastico, al sogno, alla rêverie. Citati è stato ed è un mago in un altro senso: la sua pratica saggistica è lontana dalle tendenze critiche dominanti nel Novecento ispirate ai principi della psicanalisi o alle idee ‘scientifiche’ dello strutturalismo. Il lavoro critico di Citati ha le sue fonti anzitutto nel pensiero e nell’opera di Goethe, e attraverso Goethe risale alle fonti della grande tradizione ermetica antica e rinascimentale: l’alchimia, l’astrologia, la gnosi, la Qabbalah. Per Citati, come per Goethe, tutto è legato a tutto attraverso un’infinita rete di relazioni, fili, analogie, “corrispondenze”: interpretare un testo significa esplorare questa rete, coglierne le risonanze e gli armonici, percepirne gli echi fluttuanti fra la terra e il cielo. I saggi di Citati hanno un vasto respiro, e ci comunicano ampie visioni dei testi di cui si occupano, perché non sono mai compressi negli spazi angusti dello scientismo critico contemporaneo, perché ci conducono a riscoprire la letteratura come una grande magia. È l’insieme del suo originalissimo lavoro saggistico che esploro nel mio recente libro Il mago della critica.
A proposito di magia come atto di critica letteraria: mi pare che il gioco di prestigio culturale, oggi, sia che il critico, magicamente, è scomparso… Dimmi tu. Soprattutto, ribadendo il compito (necessario, inutile?) della critica letteraria medesima.
Senza una critica incisiva e sapiente la società letteraria corre di continuo il rischio di precipitare in un caos in cui è impossibile distinguere i testi mediocri da quelli originali, i prodotti di puro mestiere (spesso svenduti come ‘casi’ eclatanti) dai capolavori. Eppure nessun genere letterario è più in crisi, oggi, della critica. Questa crisi ha anzitutto due cause. La prima: le strategie dell’editoria e dei media. Sempre più mossi da obiettivi commerciali e da ragioni di mero interesse, gli editori sentono la critica come un pericolo e tendono a scavalcarla in quanto pensiero potenzialmente in grado di valutare il valore dei testi (i libri ormai si trovano dovunque, anche nei supermarket e nei motel; il semplice gioco dell’offerta diretta, o della réclame sulle pagine dei quotidiani, su Internet e perfino attraverso le tv, è più che sufficiente a creare un rapporto tra produttori e consumatori, con tanti saluti e sberleffi ai critici). La seconda causa è l’eterna debolezza della scuola in genere e soprattutto dell’università, incapace di offrire ai giovani dei modelli vivi, forti, appassionanti di critica (quasi nessun critico di un certo valore appartiene al mondo universitario). I pochi critici che compiono ancora il loro lavoro con rigore, fantasia e passione appaiono sempre più degli eredi di don Chisciotte, delle mosche bianche o dei fantasmi vaganti tra le rovine. Per questi sognatori in esilio (tra i quali, permettimi di dirlo, metterei sia te che me stesso) un saggista come Pietro Citati resta una figura imprescindibile di riferimento. Citati è davvero uno degli ultimi, irripetibili maestri della critica letteraria europea.
Qual è il poeta ‘magico’ della lirica contemporanea, a tuo avviso?
Se ti rispondo Attilio Bertolucci mi dirai che sono ripetitivo, ma credo davvero che lui sia un poeta magico in quanto capace come quasi nessun altro di rivelarci la semplice realtà quotidiana come luogo di segreta bellezza, come intreccio di soffi e vibrazioni sottili, come corpo pulsante dei battiti cardiaci del mondo. L’altro straordinario poeta-mago del Novecento italiano è Sandro Penna: anche lui come Bertolucci, sebbene con un taglio stilistico tendente al frammento e non alla durata, sa mostrarci quanto di leggendario, di numinoso e arcano si annida nella vita d’ogni giorno. Mi limito a ricordarti di Bertolucci “fresca erba / su cui volano farfalle / come i pensieri d’amore / nei tuoi occhi”, e di Penna “Il caldo, il freddo delle sale d’aspetto. / il mondo mi pareva un chiaro sogno, / la vita d’ogni giorno una leggenda”. Cosa di più magico è stato scritto in Italia nel Novecento?
La letteratura, a tuo avviso, deve ferire o suturare?
Bella domanda! Come dire: gli scrittori devono essere dei guerrieri o dei medici? Ti rispondo al volo: cosa sarebbe la letteratura moderna senza la forza dirompente, puntuta, urticante della voce di un Céline? Eppure Céline era, nella vita, proprio un medico, e non a caso ha dedicato la sua tesi di laurea al dottor Semmelweis, l’uomo che, inaugurando la pratica della disinfezione nell’ambito ostetrico, ha salvato la vita d’infinite donne. Forse nella durezza astiosa, nell’energia corrosiva delle parole di Céline cova, se sappiamo riconoscerlo, un fondo pietoso, un bisogno estremo di spingere gli uomini a curarsi, a ‘capire’… Certo egli non ha sempre ragione, e non pretende nemmeno di averla: spesso davvero straparla, sembra ubriaco (lui che era astemio!), cade nel delirio… Ma nella sua voce aspra, stralunata c’è anche, credo, un amore paradossale per l’umanità, una sorta di tenerezza esacerbata, un inconfessabile risvolto pedagogico. Pensa, a questo proposito, anche allo ‘stile’ dei maestri zen, a quella loro propensione a usare di tanto in tanto forme di violenza (sberle calci pugni) nei confronti dei loro allievi che nasce dal desiderio di risvegliarli alla Via del Buddha, cioè da una forma di compassione. Perfino un classico del disagio moderno come Les fleurs du mal è un libro che ci ferisce per compassione, che ci ricorda di continuo la nostra pesantezza, i nostri limiti, le nostre follie per aiutarci a risalire verso il cielo della bellezza, verso l’altrove, verso l’infinito. In sintesi: la letteratura sfugge alle categorie: sa altrettanto ferire quanto curare. L’unica cosa che deve evitare, per essere buona letteratura, è di cadere nel partito preso, nelle soluzioni a senso unico, nell’ideologia. Sia gli autori che vogliono solo graffiare – apparire acidi, urticanti, trasgressivi, blasfemi – sia quelli che desiderano solo curare – offrire immagini dolci, avvolgenti come bende, suasive come carezze – mi hanno sempre infastidito.
Come si coniuga il critico prestigiatore con il fascino per il Tao? Che sguardo ‘critico’ porta in sé il Tao? A naso, dico, da vagabondo senza tenda, mi pare che il pensiero orientale propenda verso il ‘vuoto’, mentre il cristianesimo – che ha forgiato la nostra visione artistica – sia centrato sulla ‘carne’, sul ‘pieno’ (si risorge con il corpo, non con l’anima bella). Dimmi.
La via del Tao ha molto a che fare con la magia in tutti i suoi aspetti, anche con quella dei prestigiatori; non è un caso se Emanuele Trevi ha intitolato Il Tao della Critica la sua acuta prefazione alla seconda edizione del mio libro Per un ritratto dello scrittore da mago. Il Taoismo ci invita a riconoscere che nel movimento cosmico tutto muta di continuo: le illusioni e la verità non sono dunque che due volti della stessa Metamorfosi senza nome di cui il cerchio del Tao, con l’abbraccio in forma serpentina tra lo yin e lo yang, è il simbolo. Gli illusionisti, i maghi teatrali, i prestigiatori giocano con la metamorfosi entrando e uscendo dai confini dell’apparenza, rovesciando i foulard e le tasche, mostrando le cose da punti di vista diversi, attraversando specchi, formando e sciogliendo nodi, facendo apparire e sparire tortore, fiori, candele… e così via, all’infinito, ad libitum. La loro mobilità e fluidità è, secondo me, una bellissima metafora, una preziosa lezione di libertà e leggerezza per tutti, ma in particolare per gli scrittori dei nostri anni, troppo spesso invischiati nella pesantezza del nuovo engagement o viceversa dediti a una scrittura di puro intrattenimento che però, del respiro mozartiano dei grandi illusionisti, ha davvero ben poco. Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda vorrei risponderti: nessuna religione, forse, come quella cristiana è stata sottoposta nei secoli a tante interpretazioni diverse. Certo, il senso della “carne” ha contato moltissimo in Occidente, ha influenzato enormemente le arti plastiche, la scrittura e il pensiero, ma già nel Medioevo un geniale mistico cristiano come Meister Eckhart era molto prossimo all’intuizione zen del vuoto o del nulla, e anche fra i teologi contemporanei non pochi si sono avvicinati a quella prospettiva: basti pensare a Thomas Merton, a padre Lassalle o a Paul Knitter, autore di un saggio (Senza Buddha non potrei essere cristiano, pubblicato in Italia da Fazi) che rilegge il cristianesimo in un’ottica esplicitamente buddhista. Mai come oggi simili aperture interpretative possono stimolarci a riscoprire la ricchezza plurale, la complessità, la bellezza variegata (per dirla col grande gesuita Gerald Manley Hopkins) dei fondamenti sacri dell’Occidente.
La politica, di ogni colore e di ogni Paese, tende a vilipendere gli studi umanistici, a dire (viva!) che sono ‘inutili’. Che utilità ha oggi per un ragazzo passare la vita tra i libri, a leggere, a studiare?
Mentre certi politici si arrogano il diritto di proclamare che gli studi umanistici sono inutili (è rimasta celebre la frase idiota di un nostro ministro secondo cui “con Dante non ti compri neanche un panino”), è proprio ciò che resta della coscienza umanistica europea che dovrebbe risvegliare nei giovani la speranza in una politica, in una storia, in una civiltà diversa. Molti giovani, in realtà, leggono parecchio, ma avrebbero bisogno di chi li guidasse nelle loro scorribande tra i libri. Come seguendo un serpente che si morde la coda, qui torniamo al punto di partenza: la necessità di una critica illuminante, di buoni maestri…
Pubblicato su Pangea. Rivista Avventuriera di Cultura & idee, 10 Gennaio, 2019.
Paolo Lagazzi, Come ascoltassi il battito d'un cuore. Incontri nel cammino di Attilio, Moretti & Vitali, 2018
"Con questo libro finisce
il mio lungo cammino accanto ad Attilio,
un cammino iniziato più di quarant'anni fa."
Paolo Lagazzi
Questo libro è una raccolta che ripercorre anni di studi, molti sono gli scritti del saggista su Attilio Bertolucci, essenziali per la conoscenza di un poeta purtroppo ancora misconosciuto o frainteso. Lagazzi è il critico, riconosciuto da Bertolucci stesso, che meglio lo ha compreso in profondità. Durante la lettura di questi testi come non rimanere rapiti dalla scrittura di Lagazzi, come sempre nei suoi saggi, di rara bellezza e sapienza, si fa talvolta poesia.
Uno “dei migliori lettori e interpreti di poesia nel nostro paese” così Davide Rondoni nella bella recensione (“Se il critico sente il cuore della poesia” apparsa su Avvenire del due agosto di quest’anno) il cui contenuto ci pare descriva appieno la particolarità e l’unicità della figura di Lagazzi un “ lettore rabdomante e curioso, coltissimo ma mai professorale. E soprattutto mai servo di scena del pensiero facile.” (Rondoni).
Ogni saggio ci trasporta nel cammino, conoscenza del poeta, che tocca vari aspetti: il rapporto con la pittura, l’architettura, la figura importante di Silvio D’Arzo, l’incontro fondamentale con l’opera di Proust, la passione per Eliot, la natura religiosa della poesia di Bertolucci…
Lagazzi ribadisce giustamente che il poeta non era un minore “ irrimediabilmente votato a un ruolo marginale” e “ infatti per meglio comprenderlo è indispensabile non solo tornare a cogliere la distanza di Bertolucci dalle tendenze canoniche del Novecento” ma afferrare anche “le ragioni e la forza profonda di questa diversità”.
Saggi interessanti questi da leggere anche per chi già conosce il percorso critico di Lagazzi riguardante Bertolucci, una raccolta dunque essenziale in cui come afferma ancora Rondoni “La finezza delle osservazioni ci restituiscono un Bertolucci di vita palpitante, traversata da aritmie e pene, da nostalgie, da laboriosa nevrastenia e, soprattutto, da una fine dolcezza nel cogliere i frammenti della durata, i fosfeni del tempo.”
Lagazzi “sente il cuore della poesia” , ne siamo convinti ed è per questo che lo leggiamo e rileggiamo, i suoi saggi vanno oltre, sono creazione, opera letteraria.
L.O.
(In margine a una nuova collana di critica)
Inventare una collana di critica dedicata al dio Hermes (I volti di Hermes, Moretti & Vitali Editori) ci è sembrato più che un piccolo gioco; o, se gioco era, la sua posta ci appariva piuttosto diversa dalle solite. Se non fosse che Hermes non ama il parlare atteggiato, diremmo quasi che a guidarci era il bisogno di offrirgli un risarcimento. «Un risarcimento a un dio? e per cosa, poi?»: non è difficile immaginare perplessità del genere. Il fatto è, crediamo, che Hermes è stato troppo a lungo sottovalutato, trascurato, vilipeso: o addirittura dimenticato, rimosso, cancellato – come se non fosse colui che ha inventato la lira e la magia, il fuoco domestico e l’arte dei legami, e che dai tempi di Omero illumina la fantasia degli uomini dandole insieme penetrazione e ali, permettendole di muoversi fra la terra e il cielo, tra il reale e i sogni, fra il visibile e l’invisibile; come se non fosse il dio d’ogni guizzo creativo in cui, al fondo d’una sovrana leggerezza, brillano le rivelazioni decisive, le chiavi che ci schiudono i passaggi per l’Altrove (chi più di Mozart è, sulla soglia del moderno, fatalmente “ermetico”?); come se il suo sguardo obliquo e inafferrabile non fosse ciò che può meglio liberarci dalle trappole dell’ideologia e dalle strettoie del pensiero categorico, rigettandoci sempre, di nuovo, verso l’avventura infinita dell’universo.
Benché nei nostri anni i discorsi sul fare critica colmino sempre più numerose pagine di riviste, di giornali e di libri, una grande, sempre meno mascherabile stanchezza sta invadendo tutti i luoghi tra cui circolano queste parole: redazioni e bar, aule e librerie, TV e siti Internet. Presumendo di affidare i propri destini al dio delle distinzioni chiare e rigorose – Apollo, da troppo tempo ridotto a patrono degli ingegneri –, ormai lontani gli orizzonti entro cui era piuttosto l’“oscuro” Orfeo a orientare le pulsioni interpretative, la pratica critica attuale non fa, in realtà, che produrre strumenti, articolare analisi e sbandierare idee che hanno come principalissimo effetto il dilagare d’un’ombra depressiva, d’una noia, d’un grigiore assai prossimi alla terra desolata di Eliot. Quanti professorini addobbati da buoni esegeti, quanti ragionieri o notai delle lettere curvi sui loro registri o sui loro file diligenti hanno mai sospettato che l’esercizio critico può essere anche (o meglio, dovrebbe essere prima di tutto) gioco, gioia, immaginazione, invenzione? Quanti lettori “professionali” sono mai stati attraversati da quel brivido leggero e pungente, da quella fiamma rapinosa e aerea, da quella circolazione energetica che è il sangue, la linfa e il respiro di Hermes? Presa in questa spirale di seriosità, la critica vacilla, annaspa, soffoca; e non le serve molto fingersi in buona salute, tentando a getto continuo di rifarsi il look attraverso nuove parole d’ordine o “dibattiti” montati ad hoc: trovate tanto efficaci quanti iniezioni ricostituenti, terapie fisiatriche o lampade abbronzanti somministrate al capezzale d’un moribondo. D’altra parte, nemmeno compiangersi serve molto alle schiere dei critici. «C’era una volta la critica...»: quante volte non abbiamo udito questa specie di favola triste dalla bocca di esegeti tutt’altro che privi di responsabilità riguardo ai più giovani, tutt’altro che immuni da scelte improntate, per anni e anni, allo spirito dell’aridità? Ciò che questi studiosi non osano ammettere è che la rottura-chiave, la linea di non ritorno nella vicenda critica dal Novecento a oggi va colta, semplicemente, nel calo di fantasia creativa, cioè nell’idea che il movimento della scrittura sia del tutto secondario, e in fondo irrilevante, rispetto alla capacità di cogliere la “verità” dei testi. L’Hermes maestro nell’arte dei nodi, degli intrecci e dei legami ci insegna ben altro: ci ricorda che ogni autentico confronto con quelle reti di senso che sono le opere non può fare a meno di mettere a frutto una profonda sapienza linguistica, una conoscenza non teorica ma “artigiana” di come le parole si legano tra loro, di come l’ordito e la trama delle frasi si generano sulla spola mobile della sintassi: di come il senso sia anzitutto “ritmo”, battito, pulsazione: di come ogni stile vitale nasca da un diverso movimento della mano o da un affondo originale del piede nel terreno plastico dell’esperienza. Da questo punto di vista, è chiaro che la critica è scrittura oppure non è nulla; o essa continua, con altri mezzi, la letteratura di cui si occupa, o la interrompe, la frena, la spegne, la castra: ne ottunde il respiro, ne comprime le potenzialità proprio mentre pretende di farsene garante, di fornirle la presa rigorosa delle proprie analisi. Capire, ci sussurra Hermes se sappiamo ascoltarlo, non significa in letteratura circoscrivere il senso, cercare di intrappolarlo nel nostro sguardo, nella luce immobile della nostra volontà di possedere il testo. Come Eros di fronte a Psiche mentre tenta di guardarlo – di inchiodarlo nella sua nudità –, il senso sfugge se cerchiamo di fermarlo. Ogni ermeneutica vitale deve, viceversa, sposare il volo di Eros fra l’evidenza sensibile e la trasparenza, tra il concreto e il fantastico, tra la notte dei segreti cruciali e l’alba delle sorprese e dei doni: deve sapersi fare “erotica”: deve osare abbandonarsi al flusso, irriducibile alle teorie, del desiderio creativo. Solo nel coraggio di questa leggerezza, in questo abbandono alla grazia e alla necessità della seduzione, l’esercizio critico può ritrovare la sua anima: può riscoprire i fondamenti sacri, misterici, sapienziali della letteratura, della poesia e dell’arte. In volo, Hermes si affianca a Eros, e ci invita a non sigillare la pratica interpretativa in qualche secco, borioso rituale mondano. Mentre la critica contemporanea è quasi sempre un lavoro da geometri o da burocrati della precisione – o uno scavo da chirurghi, da disossatori, da detective –, Hermes ci esorta a moltiplicarci, a osare ruoli, percorsi e racconti diversi, a capire che un critico può riconoscersi, con gioia, in tanti volti, differenti tra loro come i colori dell’arcobaleno: può essere via via un affabulatore, un conoscitore di grandi storie, di miti, di leggende e di fiabe (al modo d’un Gaston Bachelard o d’un James Hillman); un maestro dell’intuizione fulminante, dell’aforisma, del paradosso e dello humour (sulla linea Wilde-Cioran); un pasticheur, un goloso praticante di sapori, un degustatore di combinazioni linguistiche e sinestetiche (giusta l’esempio del sommo Praz); un navigatore, un esploratore, un avventuriero, un “corsaro” (come l’ultimo Pasolini, ma anche come il Parise dei viaggi in Giappone); un artigiano del legno, dell’ebano, della creta, della stoffa o dei gioielli (si pensi alla funzione del tatto nelle ricognizioni testuali d’un Jean-Pierre Richard); un mago, nel senso ampio d’un praticante le vie diverse e complementari dell’alchimia, della Cabala, dell’astrologia, o anche quelle della prestidigitazione (osserviamo in Citati la capacità di riprendere e rilanciare gli insegnamenti di Goethe, questo innamorato di tutte le forme e le esperienze del magico); un ritrattista, un pittore verbale, un allievo di Sainte-Beuve, di Giovanni Macchia o di Giacomo Debenedetti, e della loro inesausta scommessa di disegnare destini in forma di parole; un giardiniere, teso con le sue antenne sensibili a riconoscere le linfe circolanti tra i rami, gli steli e le foglie delle opere...
Qualcuno potrebbe, a questo punto, porre un’altra obiezione: «Tuffarsi nel molteplice, cavalcare la varietà delle figure e il piacere sfrenato dell’avventura: cosa possiamo riconoscere in tutto ciò se non un ennesimo desiderio di assecondare quella tendenza dispersiva e magmatica, quel proliferare caotico di esperienze, quella negazione di confini e distinguo che è uno dei mali endemici d’oggi?»
Non è così, però, che i suggerimenti di Hermes vanno intesi. Come ben sapevano alcuni dei maestri segreti (e più alti) del Rinascimento quali Pico e Ficino, si può essere seguaci di Hermes e insieme di Platone. Ciò che più, a noi, importa cogliere è che proprio sgombrando i nostri sguardi dai paraocchi dell’ideologia – fluidificando i nostri punti di vista, sciogliendo i nodi che ci imprigionano nella rigidità – il dio alato, ilare e sornione, il più sapiente e liberatorio fra gli dèi annidati nella nostra anima, ci aiuta a ritrovare il senso “vero” delle proporzioni, il cuore delle cose, la capacità di distinguere il bene dal male, il vero dal falso e il bello dal brutto. Occorre che la critica riscopra l’invenzione letteraria come l’immenso regno della metamorfosi, dell’incanto proteiforme e plurale, che sappia rifare dei propri itinerari nel mondo della creazione un gioco vasto, arioso e fluttuante tra i domìni opposti e fuggevoli del tutto, perché le sia concesso di ritrovare la sua forza epifanica, la chiarezza dei suoi orizzonti, la nitidezza autentica delle sue misure.
Questa fiducia che si possano coniugare tra loro “allegria” e rigore, è alla radice della nostra proposta. Ecco perché la collana che inauguriamo intende ospitare opere di saggistica nate e cresciute nella densità di una forma e di un pensiero, ma, allo stesso tempo, innervate dal pathos leggero della toccata e fuga, dal palpito sottile dell’azzardo, dalla vertigine del pensiero analogico, dal fuoco vivo e illuminante dell’intuizione.
(“Poesia” n. 209, ottobre 2006;
“ALI”, n.3, autunno 2009)
di Paolo Lagazzi
in "IPR" ("Italian Poetry Review") volume VI, 2011
Department of Italian e Italian Academy for Advanced Studies in America
Fordham University Department of Modern Languages and Literatures
University of Washington Division of French and Italian Studies
Italian Poetry Review
Plurilingual Journal of Creativity and Criticism
Tre modi di fare i critici oggi
Credo che oggi non abbia più molto senso cercare di descrivere gli orientamenti della cosiddetta critica militante secondo i suoi strumenti (psicanalitici, semiologici, lologici, socio- logici, postmarxisti, derridiani...). Ormai ingurgitato tutto e il contrario di tutto sul piano metodologico, i critici operano non tanto per scuole o posizioni ben marcate quanto, piuttosto, secondo intenzioni personali più o meno palesi, distinguendosi se mai per la loro rilevanza mediatica, per la capacità di alzare la voce nei famosi (e spesso fumosi) “dibattiti”. Se la osserviamo in questa prospettiva, possiamo dire che la critica attuale, almeno in Italia, opera semplicemente in due modi: uno “onesto” e uno disonesto. A queste due tendenze ne vorrei affiancare una terza, alternativa a entrambe, proponendo (o meglio riproponendo, dopo anni di miei interventi in questo senso) una critica di carattere “ermetico”.
Della critica disonesta non varrebbe proprio la pena parlare se non fosse che fondata, com’è, su scambi di favori, opportunismi, ipocrisie, calcoli di potere o mercato, manovre editoriali, operazioni mafiose per il lancio di casi letterari – questa “famiglia” critica è sempre più uno specchio del malcostume sociale e politico dilagante in Italia (ma certo non solo in Italia). Se De Sanctis credeva che riscoprire la grande tradizione letteraria italiana potesse essere un viatico di ordine morale per la rinascita della nazione, oggi il trionfo della falsità e del caos, degli pseudovalori montati ad arte, dei libri di nessun peso o senso svenduti come capolavori e viceversa del più tenace silenzio attorno a opere eccellenti, che hanno il solo difetto di non essere battezzate da editori di prestigio, è insieme l’e etto e la causa – o almeno una delle cause – di una coscienza “civile” sempre meno civile, sempre meno in grado di veicolare valori umani o di difendere il sentimento del bello e del vero.
La critica “onesta” (continuo a definirla tale solo tra virgolette) ha senz’altro il pregio di porsi come obiettivo la trasparenza dei giudizi, la capacità di sviluppare analisi il più possibile rigorose e autonome dai condizionamenti del Potere. Alcuni dei migliori critici di forma- zione filologica e stilistica hanno usato, e continuano a usare, i loro strumenti come riflettori tesi a smascherare le imposture e a porre in rilievo i pregi, i talenti, i risultati di valore. Una delle figure più carismatiche di critico “onesto” è stata, nel nostro Novecento, quella di Pasolini, un uomo capace di partire da Spitzer per leggere la società, o di fare della filologia una chiave d’accesso non solo ai testi ma alla vita. Purtroppo, però, troppo spesso l’”onestà” in letteratura è anche il segno di un limite del pensiero, ovvero d’un modo di considerare la creazione facilmente esposto a rischi di moralismo, rigidezza, fondamentalismo (nemmeno Pasolini ne è immune). La grande letteratura, infatti, è sempre frutto di una visione delle cose che trascende le idee, le grammatiche, le categorie della mente, del linguaggio e dell’etica, perché il suo “cuore” pulsa all’unisono con il ritmo metamorfico del mondo. La verità della poesia non è mai catturabile entro schemi, regole o griglie retoriche, entro formule ideologiche o di principio; anche quando lancia messaggi di portata morale non lo fa mai con intolleranza; la sua forza sta proprio nel suo provocare sottraendosi alla presa, sfuggendo alla logica degli schieramenti, delle parole sbandierate come leggi, dogmi, verità assolute. Incapaci di capire che la letteratura è, come sapeva Goethe, un riflesso dell’infinito gioco del cosmo – un gioco arcano, erratico, fluido, sempre altalenante tra luci e ombre, bene e male, realtà e sogni, verità e illusioni –, troppi critici “onesti” finiscono per chiudersi entro piccoli laboratori, armati dei loro strumenti interpretativi come di grimaldelli, pinze o lenti per operazioni di asfittica precisione, per calcoli angusti, privi di audacia, lungimiranza e passione.
Nel suo recente libro Contro la letteratura (Il Saggiatore) Davide Rondoni denuncia con coraggio e lucidità la situazione troppo spesso sterile e opprimente dell’insegnamento della letteratura nella scuola italiana di oggi. Molti insegnanti non amano la letteratura, non ne comprendono la portata e il valore, non sanno – e dunque non trasmettono ai giovani – ciò che si gioca in essa: la condizione umana tout court, il peso e la leggerezza radicale delle domande prime e ultime, la vertigine del nostro bisogno di fondamenti, la nostra angoscia e la nostra sete d’infinito. I limiti degli insegnanti di fronte alla letteratura sono quasi sempre gli stessi della scuola (il liceo e l’università) che li forma, e questi limiti sono a loro volta i medesimi di buona parte della critica contemporanea. Troppe volte, infatti, la critica è stata esercitata – e continua a esserlo – con i paraocchi dell’ideologia o del moralismo da aridi ragionieri, notai o burocrati della scrittura, da professorini diligenti e grigi, da esegeti del tutto ignari che interpretare un grande testo dovrebbe essere un’avventura dello spirito, un grande viaggio, un’odissea, una ricerca del tesoro, una danza erotica e dionisiaca, un’esperienza illuminata dalla fiamma rapinosa e aerea degli incontri epifanici, sapienziali.
Per aiutare la letteratura a uscire dal suo stato attuale di impasse, o di agonia permanente, io credo che occorrerebbe oggi, accanto a una scuola “rimotivata”, una critica realmente nuova, non più soffocata dalle pretese di un’onestà a senso unico ma capace di giocare con i testi e insieme di mettersi in gioco nel confronto con i testi proprio in nome di una più larga, complessa, articolata, flessibile verità.
Per illustrare l’idea che ho di questa critica – un’idea “ermetica”, ma in un senso piuttosto diverso dalle pratiche critiche coltivate nel Novecento nell’ambito dell’ermetismo fiorentino ho scritto insieme a Giancarlo Pontiggia un “manifesto” che in Italia è stato pubblicato due volte, prima dalla rivista «Poesia» di Crocetti (ottobre 2006) poi dalla rivista «ALI» diretta da Gian Ruggero Manzoni (n. 3, autunno 2009). L’occasione del manifesto, che abbiamo intitolato I volti di Hermes, era la nascita nel 2006, presso l’editore Moretti e Vitali, di una collana di saggi dallo stesso titolo diretta da me e Pontiggia. Il punto cruciale del nostro discorso era la proposta di una critica ispirata a Hermes in quanto dio della magia e dell’arte dei legami, in quanto supremo custode di tutte le soglie, i passaggi e gli incroci del senso. Ispirare i propri tragitti di lettura e scrittura a Hermes, il dio più “obliquo” e inenarrabile, meno “politicamente corretto” ma più estroso, aereo, inventivo, acuto e guizzante, sempre in viaggio fra la terra e il cielo, la vita e la morte, il visibile e l’invisibile, vorrebbe dire fare del proprio esercizio critico un’avventura immaginosa e creativa, irriducibile alle angustie dell’ideologia ma aperta, curiosa e fluttuante, capace di slanci e di leggerezza, coraggiosa nel moltiplicare le proprie strategie interpretative, nel mutare i suoi volti e le sue maschere. Il primo grande allievo di Hermes nella letteratura occidentale non è forse Odisseo? Come, a sua volta, ci ricorda Citati – critico per eccellenza “ermetico” – la flessibilità di Odisseo nasce dalla sua “mente colorata”, ovvero da un’intelligenza mai astratta ma prensile, ondeggiante, curvilinea: quella forma d’intelligenza nutrita d’intuizione che i greci antichi chiamavano metis. Rispetto a quella mitizzazione di un’intelligenza dura, intransigente, di matrice ancora illuministica, su cui troppo a lungo si è fondata la critica “onesta” (soprattutto quando avanzava pretese “scientifiche”), è la mente colorata di Hermes e di Odisseo che dovrebbe nutrire una critica non arresa al grigiore ma capace di osare, di abbandonarsi al piacere della narrazione e dell’invenzione senza temere per questo di tradire il suo compito: interpretare i testi mostrandone il corpo e lo spirito, riprendendone e rilanciandone i sortilegi, gli armonici e le vibrazioni profonde. Molti critici “onesti” (in realtà bloccati dalla loro carenza di fantasia) pensano che ogni critica inventiva, alimentata dal piacere di scrivere, sia un esercizio arbitrario, un lusso del critico che lo porta lontano dall’”oggettività” del testo di cui dovrebbe occuparsi, ma le cose non stanno per forza così. Certo, un critico- scrittore potrebbe usare il testo da interpretare come un pretesto per le proprie invenzioni, ma come non vedere che, nei saggi dei più grandi, illuminanti critici-scrittori moderni e contemporanei (da Sainte-Beuve a Citati, da Ruskin a Macchia, da Longhi a Garboli), una metafora o un aggettivo emergente d’un tratto come un candido, impossibile coniglio dal cilindro d’un mago può avere più forza ermeneutica di dieci pagine di analisi condotte, in punta di bisturi, da un critico “onesto”?
Concepire due vie interpretative incompatibili tra loro – quella “soggettiva”, persa nelle sue fantasticherie e nei suoi sproloqui, e quella “oggettiva”, aderente alla realtà dei testi piega inevitabilmente le prospettive critiche a una visione schematica, manichea e angusta. Ogni autentico esercizio dell’interpretare, infatti, lega sempre tra loro l’interprete e l’interpretato in una sorta di avvitamento amoroso, energetico, erotico: se è vero, come ben sapeva Rimbaud, che la letteratura è esperienza dell’Altro, ciò significa che solo attraverso la coscienza esterna di un buon lettore un testo può trovare il suo senso, così come attraverso i grandi testi il lettore-critico può scoprire la parte nascosta, “altra” del proprio cuore, del proprio destino. Questo avvitamento nega la piatta, rigida divisione di campo fra il critico additus artifici e il critico oppositus artifici. Ogni esercizio saggistico vitale prevede, fra l’esegeta e l’opera, incontri, sforamenti, carezze e abbracci come momenti di allontanamento o di fuga reciproca, sguardi da vicino e da lontano, giochi in bilico tra il darsi e il negarsi, distanze variabili, ondeggiare di veli che svelano e nascondono, proprio come in ogni vicenda amorosa degna di questo nome. Essere “ermetici” significa non irrigidirsi in ruoli precostituiti, accettare quel rischio che è sempre l’incontro con una grande opera se sappiamo intenderne il fascino, la voce seduttiva, il sortilegio rapinoso, inquietante e immortale.
Ha scritto giustamente Marco Merlin che, quando in letteratura emerge qualche idea nuova e scomoda, «la prima pratica è la rimozione: il nemico va cancellato, non deve neppure essere preso in considerazione». Non è un caso, io credo, che il nostro manifesto non abbia suscitato molti commenti in Italia; gli interventi pubblici sono stati solo due: Roberto Caracci ha ripreso e illustrato le mie idee su «La mosca di Milano» nel dicembre 2007; Merlin ha scritto a me e Pontiggia, in bilico tra condivisione e disaccordo, una lettera aperta nel numero 48 (dicembre 2007) di «Atelier», a cui io e Giancarlo abbiamo risposto nel numero 49 (marzo 2008) della stessa rivista. A tutto ciò si sono aggiunte, in privato, due lettere di solidarietà che mi hanno spedito due famosi professori universitari, uno anche poeta e storico dell’ermetismo fiorentino, l’altro eccellente studioso di Leopardi. Sarebbe bello se le idee mie e di Pontiggia potessero essere accolte e discusse negli Usa, un paese senz’altro più aperto al vero gioco democratico, al confronto libero e non forzoso delle opinioni di quanto non sia la povera, confusa, sgangherata Italia di oggi.
Italian Poetry Review, vi, 2011
Paolo Lagazzi, Frammenti di un discorso “leggero” in AA. VV., "La leggerezza: modes d’emploi", a cura di Luciano Curreri e Paolo Lagazzi, Nerosubianco, Cuneo 2012 (Atti di un convegno tenutosi presso l'università di Liegi per discutere del libro di Paolo Lagazzi "Forme della leggerezza", Archinto 2010);
Frammenti di un discorso “leggero”
di Paolo Lagazzi
Cosa si può dire oggi intorno alla leggerezza? Come non vedere che il nostro mondo è inflazionato da infinite manifestazioni di leggerezza che si potrebbero meglio definire forme di frivolezza, fatuità o banalità, riverberi d’irresponsabilità, di superfluità up-to-date? Per chi non si sia ancora arreso alle lusinghe del "pensiero unico" è evidente come queste espressioni del capriccio, dell’insulsaggine elevata a regola aurea di vita siano, in realtà, forme di pesantezza, di una pesantezza più o meno abilmente truccata o travestita, comunque greve come sono tutti gli stereotipi quando diventano partito preso, catechismo mediatico, passaparola giovanilistico, ideologia strisciante, trionfo di giostre rotanti attorno a vessilli posticci. Se può essere ancora utile cercare nella radice delle parole il seme del loro senso, vorrei ricordare come l'etimologia di leggerezza rimandi, attraverso il francese legier, al latino levis che può avere dei significati in qualche modo positivi, come "veloce", ma anche intrinsecamente negativi, come "debole", "incostante" o "falso". Una sorta di radicale ambiguità, una specie di vacillante fragilità delle prospettive è dunque connaturata al concetto stesso di leggerezza, e ciò significa che forme di vacuità come quelle che ho appena evocato non sono certo specifiche del mondo contemporaneo. Ma forse mai come oggi l’irrealtà dominante attraverso i media, e il loro moltiplicare all'infinito, come in un vertiginoso labirinto di Borges, i riflessi di immagini che rimandano ad altre immagini prodotte a loro volta da immagini concepite da chissà quali immaginazioni, ha creato e sta sempre più creando quello che è stato definito un mondo "liquido", entro cui è ogni giorno più arduo opporre argini di verità ai vortici travolgenti, psicotici dell’irrilevanza, del superfluo e del nonsense.
L'esperienza attuale della leggerezza, però, non è solo questa. Per fortuna c'è ancora chi sente il bisogno di una leggerezza diversa, cioè di orizzonti nutriti di freschezza intima, capaci di dare ali all'anima, di riaprirla alla grande danza della poesia, al mistero della bellezza, alla luce dell’altrove liberandola dall'assedio dei luoghi comuni, dalla gabbia luccicante del cinismo frivolo e bolso. Quanti spazi, quanti sentieri nascosti, quanti regni invisibili ai più si aprono ancora a chi sa quali tesori di leggerezza siano custoditi in quell'immensa, sterminata foresta che è la Letteratura! Inneggiando alla leggerezza Italo Calvino non ha forse, anzitutto, cercato di ricordarci proprio questo: le alternative di bellezza, di magia e seduzione che la grande letteratura può offrire alla nostra stanchezza, alle sabbie mobili della superficialità, al peso del nostro disincanto? Quali aerostati, quali mongolfiere, quali nuvole estive hanno mai raggiunto la forza ascensionale di certe pagine d’Ariosto, di Shakespeare o del Barone di Münchhausen? E accanto agli scrittori, quanti musicisti e pittori da Mozart a Debussy ai Beatles, da Monet a Klee a Matisse - non si sono cimentati in quel gioco alchemico che consiste nel togliere peso al mondo per restituirlo più vero, terso e radioso, come rinnovato da un tocco di rugiada lunare?
La ricerca della leggerezza, tuttavia, non è mai semplice neppure per coloro che ne sono innamorati, poiché nemmeno la letteratura, l'arte e la musica più ricche di potere magnetico, di forza levitante e stellare possono liberarci una volta per sempre dai pesi annidati non solo nella realtà attorno a noi ma anche dentro di noi, nella parte dura, egocentrica e isterica della nostra anima. Una delle scrittrici più consapevoli del secolo scorso, Simone Weil, ci ha insegnato a capire che solo affrancandoci dalla morsa esasperata dei desideri, cioè dalle zavorre del nostro ego infantile – quell’ego che ci precipita sempre, di nuovo, nella logica consumistica, ansiosa del possesso -, riusciamo a trovare la vera leggerezza, il respiro sobrio della gratuità, la freschezza sacra della grazia. Ma il cammino ascetico che le opere, e la stessa esistenza, della Weil ci additano non è privo di rischi ideologici: invitandoci a sciogliere il peso delle illusioni fino, per così dire, a disincarnarci, un cammino simile può farci perdere di vista quella che è la nostra condizione di uomini e non di angeli, una condizione a metà tra la carne e i sogni, la terra e il cielo, la realtà e l’altrove. La scommessa cruciale per noi non è, io credo, quella di liberarci del corpo diventando puri spiriti, ma quella di riuscire a essere leggeri senza rinunciare né ai frutti della terra né ai doni della fantasia, né alla fragilità della nostra carne né al tremore dei nostri sogni. Ecco perché mi commuovono tutti quegli autori per i quali le leggerezza non è mai una meta agevole ma un fiore raro, raggiungibile solo attraverso passi da funambolo, in bilico tra i richiami rischiosi delle sirene e i soffi impalpabili dell'anima del mondo.
L’aspetto che più mi affascina della leggerezza è la sua natura inclassificabile: ogni autentica forma di leggerezza si sottrae alle bilance, perfino a quelle di precisione. Forse bisognerebbe dire che "leggerezza" è un altro nome per quella realtà numinosa, epifanica - sfuggente come il sorriso degli angeli del Correggio o lo stupore che fascia quelli di Rilke - che non solo Simone Weil ma molti teologi, filosofi e studiosi di pittura, dai greci ai padri della Chiesa, dagli uomini del Rinascimento ai Romantici a Bergson, hanno chiamato "grazia"? Nemmeno questa domanda tollera risposte semplici, perché neppure la grazia è qualcosa di definibile una volta per tutte. La sola cosa che si può dire è forse questa: sebbene in grado di assumere volti assai diversi, cangianti come i riflessi di luce sull'acqua nel corso delle ore e delle stagioni, c’è sempre al fondo della leggerezza - della vera leggerezza, non di quella contrabbandata come tale dalla cultura dell'apparire - qualcosa che ci nutre e rinnova, anche quando filtri attraverso le esperienze più dolorose e amare. Propongo subito un esempio. Rileggiamo una delle poesie più misteriose di Attilio Bertolucci, Lasciami sanguinare, un testo di Viaggio d'inverno.
Lasciami sanguinare sulla strada
sulla polvere sull'antipolvere sull'erba,
il cuore palpitando nel suo ritmo feriale
maschere verdi sulle case i rami
di castagno, i freschi rami, due uccelli
il maschio e la femmina volati via,
la pupilla duole se tenta
di seguirne la fuga l'amore
per le solitudini aria acqua del Bràtica,
non soccorrermi quando nel muovere
il braccio riapro la ferita il liquido
liquoroso m’inorridisce la vista,
attendi paziente oltre la curva via
l'alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi
soltanto allora d’avermi udito chiamare,
entra nella mia visuale da un giorno
quieto di settembre, la tavola apparecchiata
i figli stanchi d'attendere, i figli
giovani col colore della gioventù
esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.
In questi versi il poeta rappresenta se stesso mentre, ferito a un braccio per una caduta su un ruvido sentiero del suo Appennino, osserva il proprio sangue con una sorta di sgomento, ma allo stesso tempo prega la moglie di non soccorrerlo, di attenderlo da lontano, come se solo nel lento rialzarsi di lui e nel suo paziente ritorno a casa, dove i figli sono pronti per il pasto in comune, la ferita possa dispiegare una specie di forza, come se, cioè, il sangue versato goccia a goccia possa propiziare l'esistenza in quanto durata, in quanto miracolo semplice e immenso dell'amore domestico. Proprio il dolore evocato nella scena, libera, dunque, qualcosa come una profonda freschezza: accettando questa specie di svenamento sacrificale il poeta, minacciato a lungo dal peso dell'ansia, della malattia e della nevrosi nel corso di Viaggio d'inverno, sa di nuovo alleggerire il suo cammino. Certo un simile esito non sarà garantito a lungo; di nuovo il male assedierà i suoi giorni tanto da richiedergli nuovi riti propiziatori, nuovi esorcismi o scongiuri. Ma questo componimento ci ricorda in modo altamente icastico quanto stretto sia il legame tra la pena e la leggerezza, quasi il recto e il verso di una stessa realtà bifronte. Come potremmo intendere l’impareggiabile leggerezza di Leopardi se non sapessimo coglierne le dure radici di sangue e di lacrime, come potremmo contemplare le sue candidissime lune se non vedessimo l'abisso di oscurità su cui si stagliano?
Non vorrei apparire contraddittorio. Ho detto, dapprima, che la leggerezza sfugge alle categorie, e subito dopo ne ho indicato un tratto fondante: la forza liberatoria. Forse occorre una postilla a tutto ciò. La leggerezza non è solo un'espressione di trascendenza o una vibrazione sottile di speranza, non è solo un’energia capace di custodire il seme dell’altrove o della vita che, come la Fenice, rinasce dalle sue ceneri. Fra le tante forme che può assumere, una tra le più cruciali è quella che ha descritto Milan Kundera, una forma tragica, apparentemente senza redenzione possibile. Nel suo romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere lo scrittore praghese ci ricorda che l'impossibilità di ripetere qualsiasi gesto o evento, qualsiasi attimo, qualsiasi passo della nostra vita ci condanna a essere delle creature fantasmiche, senza consistenza metafisica. In realtà persino quest'idea di una leggerezza "insostenibile" è capace di irradiare bellezza. Come nella grande poesia giapponese l'incanto dei fiori di ciliegio è direttamente legato alla loro evanescenza, così qualunque forma di fragilità radicale può sprigionare aloni, iridescenze, riverberi che ci rigettano verso la magia del creato, realtà misteriosa e irriducibile, tanto più preziosa proprio in quanto radicata nella vertigine del vuoto, del nulla. Pensiamo alla grande lirica in dialetto di Raffaello Baldini: chi potrebbe negare che, dietro i veli di uno humour o di una comicità sui generis, non di rado prossima a quella dei clown (Baldini, ricordiamolo, era conterraneo di Fellini), si tratta di una poesia profondamente tragica? Eppure in questa tragedia cova un seme di grande leggerezza proprio nel senso di Kundera: cosa sono, infatti, i personaggi straparlanti di Baldini se non creature inermi, sgangherate, appese al filo dell'evanescenza e dell'assurdo ma tanto più umanamente belle proprio in quanto povere, reiette, impossibili, abbandonate al loro dissolversi?
Il mio libro Forme della leggerezza (Archinto) nasce da uno spaesamento di fondo, e insieme dal bisogno di testimoniare il mio amore per il mondo. Fatte le debite proporzioni, lo spaesamento è un po' lo stesso da cui ha tratto origine Les mots et les choses di Michel Foucault. Ricordo il passo di Borges che Foucault ha collocato nella prefazione al proprio libro sottolineandone la forza di rottura, la capacità di scombussolare “tutte le familiarità del pensiero” facendo vacillare “la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro”. Il passo menziona “una certa enciclopedia cinese” in cui sta scritto che “gli animali si dividono in: a) appartenenti all'Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella precedente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et coetera, m) che fanno l'amore, n) che da lontano sembrano mosche". Foucault si è assunto il compito di riportare questa tassonomia un po’ folle a un ordine, a un rigore concettuale, cioè di ricostruire i circuiti fondanti il pensiero occidentale, nei suoi rapporti col linguaggio e col mondo, tra la metà del Seicento e l'alba dell'Ottocento. Per quanto mi riguarda, anche se ammiro il coraggio titanico del filosofo francese, la sua sfida al disordine e il suo tentativo di disegnare una mappa credibile delle idee moderne, mi sento non solo messo in crisi ma affascinato dalle tassonomie improbabili, sbilenche e fantastiche: penso, in particolare, alle Wunderkammern, quelle "camere delle meraviglie" che, fiorite nel Rinascimento e dilagate fino alle soglie del diciannovesimo secolo (cioè sino all'avvento dei musei "scientificamente" organizzati), si sono sviluppate in Occidente come il rovescio dei percorsi architettonici del pensiero, come il loro retroterra rutilante e magmatico, come i loro ripostigli provvisori, potenziali e caotici. Quando ripercorriamo le vicende di queste "camere" confuse ma ricche di sortilegi - esplorando, ad esempio, le Raccolte d'arte e di meraviglie del grande Julius von Schlosser (Sansoni) o il Gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson ricostruito da Lawrence Weschler (Adelphi) -, non avvertiamo solo quel profumo dolciastro e bizzarro, ibrido, esotico e impuro che ammanta i suk d'Oriente e che aleggiava un tempo anche da noi, prima del trionfo tecnologico degli oggetti freddi e inodori, nei negozi di giocattoli o in quelli, più rari e segreti, di attrezzi per prestigiatori (uno di questi negozi è meravigliosamente evocato da H.G. Wells in The Magic Shop). Intrecciato con questo profumo, ciò che pian piano ci invade è qualcosa come uno sconcerto, un vacillamento profondo: il dubbio se le parole, le misure, le prospettive, i contenitori, gli strumenti e i cataloghi da noi escogitati per dare una parvenza ordinata alle cose abbiano una qualunque verità o pregnanza, un qualunque senso di fronte all'evidenza che il mondo è, nella sua realtà originale, un proliferare incontenibile di figure, larve, creature compiute o abbozzate, fiori armoniosi e sbilenchi, meraviglie e mostri, rocce e bambagia, formiche e balene, calcoli giusti e sbagliati, amori e tremori, bolle di sapone e sequoie, fiocchi di neve e specchi, trappole e cavità segrete, punte e onde, gelatine e artigli. Se da un lato tale evidenza inquieta, da un altro lato questo sconcerto ci rivela una delle forme cruciali della bellezza perché proprio nella dismisura del mondo, nella sua apertura a tutte le ipotesi è racchiusa la sua forza irriducibile, il suo essere un nucleo inesauribile di vita, di racconti, di avventure del senso. Ricordo che le Lezioni americane di Calvino, che si aprono nel segno della leggerezza, si chiudono illustrando il concetto di molteplicità e il suo ruolo essenziale nella messa a punto dei più "enciclopedici" capolavori narrativi del Novecento, dalla Recherche all’Uomo senza qualità all’Ulysses, dalla Montagna incantata al Pasticciaccio a La vie mode d’emploi. In un passaggio della sua conferenza sul molteplice, Calvino osserva che, in effetti, non è solo il mondo moderno a sentire di dover fare i conti con la pluralità del reale: questo bisogno ha sempre alimentato le menti degli uomini e le loro opere letterarie. Ad esempio i poemi di Ovidio e Lucrezio, già evocati nelle Lezioni americane per la parte rapinosa di leggerezza che li innerva, non sono forse anche espressioni supreme dell’“antica ambizione” di rappresentare le innumerevoli relazioni in atto nell'universo? La leggerezza e il molteplice, si potrebbe dunque dire parafrasando Calvino, sono due dimensioni dell’essere - e del nulla che ne è lo sfondo abissale - che si richiamano a vicenda: la leggerezza del mondo consiste anzitutto nella sua natura polimorfa, variegata, metamorfica, proteiforme, plurale; a sua volta la molteplicità è leggera perché schiude all'esperienza spazi, prospettive, punti d'osservazione, vie di scorrimento, materiali, volumi, linee e colori praticamente infiniti. Di tutto ciò il mio libro Forme della leggerezza vuol essere solo, per così dire, una testimonianza umile o una sorta di mise en abîme. So bene che i quattordici capitoli in cui è suddiviso possono far pensare, assai più che ai contenitori di una Wunderkammer (come i diciotto, sontuosi armadi della grande collezione dell'arciduca Ferdinando del Tirolo), a manciate di libri gettati un po' a caso su una sfilza di bancarelle, o magari a stoffe di svariati colori mescolate e sovrapposte in qualche sperduto bazar. Ciò che, comunque, speravo accostando scrittori molto diversi fra loro (scrittori antichi e moderni, occidentali e orientali) e tentando di rileggerli attraverso il filtro della leggerezza, era che i miei improbabili lettori potessero riconoscere che "leggerezza" non è affatto un'espressione priva di senso in letteratura nemmeno quando quest'ultima appare più gravemente minacciata dall’esprit de lourdeur, perché una specie di vento senza nome, o con tutti i nomi, attraversa, flette e sposta senza tregua le infinite pagine-foglie della Biblioteca universale. Lo vorrei chiamare il vento del possibile. Lo vedo come quella forza che lega tra loro le realtà assurde a quelle pacificanti, le parole chiare a quelle oscure, le luci alle ombre, le invenzioni argentine o celesti a quelle arse e cretose; lo intendo come quel movimento che fa ondeggiare i testi toccati dal caso e quelli segnati dal destino; lo sento come la voce della pluralità dell'universo, una voce che vorrei commentare citando un po’ liberamente una frase di Peter Bichsel: "Fin che ci saranno delle storie, ci saranno ancora delle chance per l'umanità".
Anche quello che ho appena detto richiede una postilla. La prospettiva del mondo come molteplicità, o come immenso bazar, non ha generato solo, nel corso dei secoli, esperienze di leggerezza ma anche cumuli di idee e di cose inutili, montagne di progetti e di scarti, forme barocche estremamente stipate, soffocanti e grevi… Il fatto è che non è possibile intendere la leggerezza separata dalla pesantezza: come le due facce della stessa medaglia, esse si richiamano e si respingono, dialogano e si sfuggono, si alternano e s'incontrano in un’altalena che è la stessa - pendolare, cardiaca - dell'universo. Come ci insegna la teoria dei quanti, molto di ciò che intendiamo per realtà dipende dalla posizione da cui la osserviamo. Questo vale anche per l'alternativa fra leggerezza e pesantezza. Ancora prima che un "contenuto" o una "forma" la leggerezza è una piega dello sguardo, un modo di osservare. Se i nostri occhi ne sono privi, perfino le cose più delicate, fresche e armoniose non corrono forse il rischio di apparirci dure, sorde e sterili come architetture defunte, barre di ghisa abbandonate o relitti di auto in una discarica? La magia fondamentale della letteratura e dell'arte è quella di ridare leggerezza al nostro sguardo gonfio, affaticato, appesantito, incredulo: d'improvviso, attraverso certe pagine, frasi o parole, note o tinte, le realtà che ci parevano più grevi riacquistano il potere di alzarsi in volo come l'aquilone che, in uno haiku del grande Kobayashi Issa, fiorisce dal cuore della più profonda povertà:
Bello l'aquilone
si leva dalla capanna
del mendicante.
Da un certo punto di vista potrei dire che la mia vita è stata anzitutto una ricerca di maestri di leggerezza dello sguardo, cioè di persone e di autori, di esseri e di testi che potessero aiutarmi a trasformare la parte pesante del mio carattere - la mia tendenza a vivere in uno stato continuo di spleen, per di più ammantandolo di pensieri complicati, tortuosi, barocchi - in qualcosa di radicalmente semplice, chiaro, trasparente, gioioso. A partire dai miei genitori - mio padre, cultore di giocolieri e prestigiatori; mia madre, innamorata degli Orienti immaginari di Salgari e Puccini -, dovrei fare un lungo elenco di uomini, donne e bambini che, pur non avendo mai scritto, dipinto o composto nulla, mi hanno offerto intuizioni, risate, parole, segni, giochi, piccoli gesti, sorprese: tutta una serie di doni magari umilissimi ma per me assolutamente preziosi, capaci di rivelarmi l'altro lato della realtà, quello che ammicca sempre dal fondo dei momenti ma che occorre un cuore lieve per poter riconoscere.
Una parte molto speciale, nella parabola troppo rapida dei miei anni in bilico fra gravità e leggerezza, hanno sempre avuto i poeti. Guidato da uno dei più grandi conoscitori dei segreti della poesia mai esistiti, Gaston Bachelard, per un’infinità di giorni e notti ho sfogliato pagine di poeti antichi e moderni assaporandone il soffio intimo, quel quid indefinibile che circola tra i loro versi increspandoli, suscitando dai loro ritmi qualcosa di molto simile a quelle "cose leggere e vaganti" - la "marina schiuma / che sull’onde biancheggia", la "scia / ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde", le "nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo" - di cui parla Umberto Saba in Ritratto della mia bambina. Certo non amo i poeti solo per la loro leggerezza: il loro pathos tragico mi affascina altrettanto (forse non sento "necessario" nessun altro poeta come Dante). Ma ciò che m'innamora è la loro capacità d’imprimere svolte inattese al dolore, di far fluttuare anche la morte fra la terra e il cielo, di trarre stille di grazia perfino dall'orrore. Quali poesie del nostro Novecento sono più leggere di quelle del primo Ungaretti scritte in trincea, concepite a tu per tu con la guerra più mostruosa della modernità, la madre di tutte le guerre, di tutte le carneficine generate dal Male gratuito, dalla Violenza senza perché? Nella poesia italiana contemporanea niente si avvicina di più alle vibrazioni cosmiche della lirica classica giapponese - vibrazioni minime e immense, trepide come il respiro degli istanti, fruscianti come ali di farfalle, essenziali come lo splendore puro di una goccia d'acqua, penetranti come ghirigori di flauto - di quei versicoli, di quelle strofette brevi come haiku o tanka, abbozzate fra una scarica e l'altra di mitraglia, tra uno sfacelo e l'altro di corpi crivellati, di destini infranti. Quali ondate di silenzio o quali echi impercettibili hanno attraversato l'anima di quel giovane soldato espandendola, dando risonanze leggendarie al suo strazio, dilatando la sua sete bruciante di sentirsi, malgrado tutto, uomo tra uomini, creatura fra creature? Come è necessario il lievito affinché il pane si schiuda, facendo fiorire il proprio vuoto interno in forme fragranti, così è occorso un miracolo di leggerezza affinché nascesse L'allegria, un libro ricco del paradosso della speranza che resiste nel "buio cuore disperso" del tempo:
D'improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell'immensità.
Partendo da prospettive assai diverse, anche Sandro Penna ha saputo sviluppare una voce che si avvicina a tratti alla lirica giapponese non solo in senso formale e stilistico - per la brevità di molti suoi testi e la spoglia naturalezza dei registri - ma in un senso profondo, come per un'istintiva affinità dello spirito. Ciò che più colpisce nella vicenda di Penna è la forza di trasfigurazione, il suo riuscire a decantare un'esperienza anarchica, caotica, quasi allo sbando, in una quieta, limpida visione che ha qualcosa di taoista. Intuendo il carattere ondeggiante dell’esistenza - la sua alternanza di pieni e vuoti, di presenze e assenze, di risvegli amari e di liberazioni improvvise - Penna sa fare di questa intuizione il seme di un’intrepida, irriducibile leggerezza. I suoi continui andirivieni tra vicoli, sobborghi e periferie di Roma non nascono solo, o tanto, dall'arsione erotica: sono anche espressioni di qualcosa come una ricerca senza nome, la ricerca, da parte di un viandante del tempo, di epifanie lucenti del quotidiano, di istanti di grazia in cui sia dato all'io di sciogliersi nel "rumore della vita", nella musica segreta, umile e divina del mondo. Al fuoco di queste full immersion, tutto non è che il sogno di una realtà cangiante o la realtà di un sogno in cammino:
Il caldo, il freddo delle sale d'aspetto.
Il mondo mi pareva un chiaro sogno,
la vita d’ogni giorno una leggenda.
A tratti, procedendo in questo cammino, la mano di Penna sa disegnare, in soli tre versi, una sequenza di luci e ombre tersa come uno squarcio filmico di Ozu:
Visi assonnati vanno per le vie
sepolti sotto fasci d’erbe diacce.
Gridano al freddo vuoto i venditori.
Il "vibrato" romanzesco del poeta, l'apertura narrativa del suo lirismo, affonda nella qualità in fuga delle sue figure, nella parte - sempre fondamentale - di non detto dei suoi versi, che non è il bianco simbolista (sigillo prezioso di un’impasse storica del pensiero) ma un'apertura di senso, un debordare delle prospettive, un riverbero chiaro del continuo spostarsi delle cose e degli esseri. Questo è il "volto senza volto" della sua leggerezza.
Torno ad Attilio Bertolucci. Affine a Penna nella sua radicale estraneità a tutte le poetiche moderniste di carattere mentale, astratto e ideologico, nel suo bisogno di testimoniare la bellezza del mondo e la possibilità di abitarlo con gioia nel secolo del "male di vivere", Bertolucci è stato letto da Luzi nel segno della grazia. Recensendo nel 1951 La capanna indiana, ha scritto il poeta toscano: "La grazia di Bertolucci – è ormai un piccolo proverbio". Aggiunge il recensore che questa grazia "non è l'espressione di un motivo spirituale profondo" ma, "più semplicemente, un modo di vivere e di enunciare la vita", un modo tanto più convincente nella fase giovanile della produzione bertolucciana, in particolare nella “lunga féerie” di Fuochi in novembre, quando, essendo l’immaginazione "libera da qualsiasi rapporto stretto con l'autobiografia, (…) la grazia si spiega con la grazia (…) al di fuori di ogni possibile significato, non diciamo ideologico ma neppure psicologico". Questa lettura sa individuare la vocazione di Bertolucci alla leggerezza, il suo aprirsi naturalmente alla vita, attraverso la poesia, in termini fantastici e favolosi, nel flusso delicato della rêverie. Per spiegare, anzitutto a se stesso, la propria disposizione a cogliere l'incanto del mondo nella gratuità arcana e senza peso delle luci e dei colori, più tardi Bertolucci avrebbe richiamato il suo essere, in quanto parmigiano, fatalmente prossimo allo spirito del Correggio e del Parmigianino, i maestri supremi della grazia nel nostro Rinascimento, aggiungendo però che la grazia può diventare anche "una maledizione", cioè un vincolo, un limite ideologico. Osservata al fuoco di tale consapevolezza, si può ben dire che tutta la più grande poesia di Bertolucci non è mai, neppure lontanamente, riconducibile ai confini del grazioso, cioè non ha nulla a che fare con forme di estetismo minore o di manierata compostezza del gusto. Se c'è leggerezza in questa poesia, essa nasce, come abbiamo visto rileggendo Lasciami sanguinare, da un autentico abbandono alla totalità della vita, compresi in essa il male, le ferite e il dolore: dalla capacità di mettersi e rimettersi in gioco nella "vicenda alterna" della luce e dell'ombra: dalla pazienza e dal coraggio di chi sa che solo perdendosi è possibile ritrovarsi. Data, però, la sua profonda distanza dalle linee canoniche del modernismo postsimbolista, questa grande opera è stata letta per molti anni in modo riduttivo, come se fosse davvero il frutto aggraziato di un hortus conclusus, di un'idea attardata e un po' leziosa di lirica. Tanto più doloroso e struggente, come un messaggio in bottiglia gettato in extremis nel mare magnum del tempo, suona il testo che conclude l'ultima raccolta di Bertolucci, La lucertola di Casarola. In questi versi il poeta invoca una specie di libertà da tutto, dall'essere come dal nulla, dai morti come dai vivi: ai morti che l'attendono nella cappella di famiglia, ai “vivi che non mi hanno mai amato / e dicono di preferire / quella mia poesia di una grazia / proverbiale", egli chiede solo di allontanarsi: "lasciatemi andare, /…/ lasciatemi andar via". Formulata dal fondo stesso della solitudine, questa richiesta nasce da un bisogno di leggerezza ormai indicibile, dal desiderio di un altrove ormai concepibile solo come fuga da tutto ciò che soffoca la verità.
Diverse pagine di Forme della leggerezza sono dedicate a poetesse e scrittrici famose come la Szymborska, non abbastanza note come Fernanda Romagnoli e Marcia Theophilo o del tutto ignote ai più come Tiziana Fumagalli, Rosalia Zabelli e Daniela Tomerini. Parlando di leggerezza "al femminile" è indispensabile, io credo, la più grande cautela, perché nulla più dell'universo femminile sfida sia la rigidezza di quello che Derrida ha chiamato il Logocentrismo (di marca essenzialmente maschile) sia tutte le ideologie femministe. Cosa significa essere donne dal punto di vista letterario? Forse avere un rapporto più diretto, più naturale con l’Anima nel senso di Jung? C'è uno "specifico" femminile che lega tra loro i testi delle autrici che ho citato e di tutte le altre che avrei potuto ricordare, o l'idea stessa di cercarlo sarebbe un'ennesima forma di pesantezza, una forzatura, una trappola? Almeno questo si può dire per non eludere del tutto questa domanda tante volte ripetuta ma, allo stesso tempo, per non concederle troppo credito: che storicamente l'esercizio della scrittura da parte delle donne ha dovuto quasi sempre scontare un prezzo, un impaccio, una difficoltà in più. Forse proprio da questo attrito nasce quella sete di leggerezza che dà ali a tante pagine, a tante immagini femminili, ma ciò che conta è cogliere l’infinita varietà delle forme in cui questa sete si è espressa. Nel mio libro ho evocato la capacità della Szymborska di pensare in versi senza mai, per questo, smarrire una sovrana ariosità contrappuntistica, il tocco in punta di dita di una sapiente, ironica e appassionata conoscitrice dei segreti dell'amore; ho ricordato la forza elastica, dionisiaca, danzante del mondo amazzonico testimoniato dalla Theophilo; ho elogiato Fernanda Romagnoli per il suo spirito da impavida avventuriera dell'assoluto, da fedele innamorata della bellezza, mai rassegnata all'esilio dell'anima nel grigiore della realtà; ho descritto lo humour mercuriale, bizzarro e incontenibile di un romanzo di Tiziana Fumagalli dedicato a un immaginario zio di Mozart; ho percorso i quadretti aspri e puntuti, ma rapinosi e acrobatici come una serie di esercizi al trapezio, di Rosalia Zabelli, la più geniale autrice italiana di haiku satirici; ho tentato un breve ritratto di Daniela Tomerini e dei suoi racconti, testi capaci di captare le scintille epifaniche e le onde energetiche circolanti persino tra i luoghi o gli attimi più inappariscenti, testi ricchi di una speranza coltivata in forme umilissime, con la freschezza capricciosa e innocente dei piccoli gesti, delle piccole idee, dei piccoli doni. Ma avrei potuto toccare molte altre opere e pagine, dalla poesia numero 657 di Emily Dickinson su cosa significa vivere "nella Possibilità" – niente meno che avere "per Tetto Perenne / La Volta de Cielo” – ai versi di Gabriella Sica tesi a salvare la forza di fuga della fantasia attraverso il bruciore delle lacrime ("Volare tra le nuvole ignote...fino a incontrare la candida luna"), dalla Spaziani in grado di vedere "l'immensa piuma d’angelo / che sorregge la torre di Pisa" al pacato, estatico mondo di Giselda Pontesilli, un’autrice capace di sentire nelle cose semplici quella "proporzione" che, radicando l'anima nella verità, la alleggerisce, le ridà luce e respiro.
Di tutti i poeti italiani che più amo per le loro magie ascensionali, Forme della leggerezza ricorda solo Attilio Bertolucci e Claudio Damiani accanto alle autrici di cui ho appena parlato, ma se un giorno allestissi un'antologia di poeti leggeri - nel senso ampio che ha per me la leggerezza - non potrei dimenticare le meravigliose liriche di Giorgio Caproni per la madre Annina, le intuizioni taoiste di Paolo Ruffilli ("Mi accorgo / che il niente scivola / a pelo d'aria"), i versi in dialetto di Paolo Bertolani sulle foglie, sui bambini e sulle lucciole, l'umiltà mitica e incantata di Giancarlo Pontiggia, le meditazioni di Umberto Fiori sul mistero glorioso della luce nel golfo della Spezia, le cucine celesti e le rêveries da uccello un po' strambo di Roberto Amato, le forme vertiginose e sapienziali, aleggianti fra le "arpe dell'etere", di Gian Ruggero Manzoni, il sentimento della vita che si rinnova a ogni alba - "l'ora più bella per andare via", per morire e rinascere - nei paesaggi metropolitani di Davide Rondoni...
Mi si permetta una piccola parentesi di metodo, o meglio, per così dire, di anti-metodo. Nessun tema più della leggerezza tollera e sollecita, mi sembra, approcci lievi, rapsodici, erratici, accostamenti non frontali ma obliqui ai testi e agli autori, letture a zigzag, incontri fra opere diverse scattanti per associazioni d’idee, percorsi guidati dallo spirito analogico e invece refrattari alle pretese totalitarie della Teoria, dello Storicismo, del Sistema. Fra le pratiche poetiche diffuse nel Giappone antico, il renga, catena di componimenti improvvisati da diversi poeti alternando strofe di tre e di due versi, legando ciascuna di esse alla precedente attraverso la ripresa di una sua figura o parola, mi sembra una bellissima strategia della toccata e fuga, del cortocircuito immaginativo giocato fra libertà inventiva e cucitura di fili multipli di senso. Mi piacerebbe saper parlare di leggerezza così, componendo via via una sorta di tessuto mobile e sospeso, lasciando che la mia mente si spostasse senza tregua ma insinuando tra questi spostamenti dei nodi, dei legami, delle cerniere tematiche. Rinunciando a una strategia simile mi accontento di procedere per passaggi un po’ incerti o per piccoli salti seguendo fili oscillanti nel vuoto come quelli di una ragnatela abbozzata a metà, creata da un ragno perplesso, perso in un bosco troppo grande, smarrito in un mistero senza inizio né fine.
Mi rendo conto di quanto spesso, nei miei discorsi, emergano dei richiami alla poesia giapponese. Questo fatto ha anzitutto un retroterra biografico: la mia lunga frequentazione della cultura nipponica, dalla Madama Butterfly vista a sette anni grazie a un’iniziativa di mia madre (che era una soprano) fino all'incontro col buddhismo zen, dai miei indimenticabili viaggi a Tokyo fino alla scoperta di personaggi straordinari quali il poeta Kikuo Takano e la musicista Yasuko Matsumoto. La grande cultura giapponese ha moltissimo da insegnarci sul piano della leggerezza, proprio perché è irriducibile a tutti gli stereotipi esotici tesi a rappresentarla come il regno degli inchini o dei sorrisi continui, come un teatrino di complimenti eccessivi, calcolati e leziosi, poco importa se aggiornati in un’ottica occidentale. Nessuna cultura, in realtà, ha saputo esprimere nel corso dei secoli un'esigenza così radicale di rigore e insieme di libertà, di esattezza e di fluidità, di concentrazione e di abbandono alle onde indefinibili, ai palpiti fuggenti, alle fibrillazioni più sottili dell'esperienza. Per avvicinarsi al paradosso dell'anima giapponese occorre risalire al nodo centrale del "non pensiero" zen: l'intreccio indissolubile tra la forma e il vuoto. Nel Sutra del Cuore, testo primario per lo Zen - ma cruciale anche per le altre correnti del buddhismo Mahayana -, il Buddha in persona insegna a uno dei suoi discepoli prediletti, Shariputra, che "forma non è che vuoto, vuoto non è che forma". Sul piano concreto della pratica zen, ciò significa che solo sperimentando fino all'estremo il senso della forma - il rispetto delle regole, dei simboli, delle cerimonie - è possibile aprirsi al vuoto, cioè a tutto quanto non può essere espresso in nessuna forma e in nessun linguaggio ("l'informe", "l'indicibile", l’Altrove annidato nel Qui). Ma anche il contrario è vero: solo nutrendosi dell'intuizione del vuoto è possibile generare forme vive e vere, vibranti di luce, di colore e bellezza; senza questa consapevolezza né i poeti né i pittori giapponesi nutriti di spirito zen avrebbero mai potuto produrre i loro haiku e i loro dipinti a inchiostro di china. Percorrendo i carnet degli autori supremi di haiku (Bashō, Buson, Issa e Shiki) è necessario osservare come il sentimento della naturalezza – quell’emozione del plein air, della libertà radiosa del mondo, che in Occidente solo i maestri dell'impressionismo francese hanno saputo esprimere con altrettanta freschezza - si coniughi con un senso acutissimo, ineludibile della forma, della lingua, del ritmo e delle figure retoriche. Nessuna tradizione è meno "ingenua", è più attenta e consapevole di quella dello haiku e del tanka, ma il lavorio letterario, l'opera di cesello o bulino da cui nascono queste composizioni non è mai in contrasto con la più profonda, stupefacente leggerezza, con una vaporosità di tocchi che non ha, probabilmente, l'uguale in nessun’altra tradizione lirica.
Quando espone le proprie riflessioni sulla leggerezza, Calvino mostra qua e là di avere ben presente il ruolo-chiave del vuoto: Lucrezio, in quanto seguace dell’atomismo di Epicuro, "è il poeta della concretezza fisica, (...) ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi". La lingua di Dante, a sua volta, sa esprimere sia la consistenza che l’evanescenza del reale: in certi suoi versi sentiamo il "peso esatto" della leggerezza, in altri una pesantezza smorzata, trattenuta e alleggerita. L’attenzione di Calvino per i giochi vicendevoli, i riflessi e gli echi reciproci tra il pesante e il leggero, come tra il pieno e il vuoto, nasce proprio, fra l'altro, dal suo interesse per la cultura nipponica, ampiamente testimoniato dalle pagine sul Giappone raccolte in Collezione di sabbia. Questo interesse lo ha portato a comprendere che "in Giappone ciò che è prodotto dell'arte non nasconde né corregge l'aspetto naturale degli elementi di cui è formato” (Il tempio di legno), cioè che le forme non mascherano o irrigidiscono il vuoto da cui fioriscono, così come il vuoto non nega le ragioni della forma. Ma questa comprensione non è semplice in un contesto culturale come quello occidentale moderno, troppo spesso sbilanciato in direzioni unilaterali e dunque incapace di concepire la realtà se non in modo rigido, ideologico, manicheo. Particolarmente arduo, per i poeti e gli artisti europei e americani orientati verso i modelli nipponici, è creare dei testi (o dei quadri) insieme precisi e fluttuanti, netti e morbidi, rigorosi e sciolti. Incapaci di associare la percezione della forma al sentimento del vuoto, e viceversa, gli autori occidentali interessati al Giappone oscillano perlopiù fra due tendenze opposte ma ugualmente rischiose: o privilegiano le forme come i neofiti di un rito appena acquisito, finendo spesso nel vicolo cieco del formalismo e del rigido, freddo estetismo, o tentano di avventurarsi "oltre" le forme, nel regno dell'indeterminato e dell'aleatorio, scivolando però in una presunzione di assoluta libertà che, se in qualche caso ha prodotto opere interessanti (i frutti migliori dell’informale o dell’action painting ispirati ai segni dello shodo, certi testi della beat-generation nati da reali esperienze zen), è altrettanto facilmente degenerata nel velleitario e nel groviglio gratuito, fino al puro caos. Forse, dichiarando come chiave della propria poetica una leggerezza associata con la precisione e tesa a escludere la "vaghezza", Calvino non si è solo adeguato ai precetti dell’Oulipo ma ha preso personalmente le distanze da quella deriva anarchica, caotica dell'immaginario tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta che, rivendicando non di rado dei rapporti con lo Zen, ha finito in realtà per creare nuove, spesso intollerabili forme di pesantezza. La domanda che dovremmo porci oggi è: questo comprensibile partito preso in favore della forma non ha condizionato la grande opera di Calvino, non le ha ristretto le vie d’accesso ai territori dell'altrove, non le ha, almeno in parte, impedito di riconoscere che, come sapeva Leopardi, senza l'espressione del "vago" è assai difficile creare vera poesia?
Lo zen è stato definito, fra l'altro, la via del paradosso. Mai come oggi il mondo avrebbe bisogno di ritrovare il gusto vitale, creativo del paradosso, cioè la forza di un pensiero "oltre la dóksa", oltre i luoghi comuni. Se dall'Oriente cinese e giapponese brillano ancora, per noi, le grandi lezioni dei maestri ch’an e zen, le loro parole caustiche e pacate, i loro colpi di bastone più lievi di libellule, i loro sorrisi più taglienti di spade, dalle cavità arcaiche del nostro vecchio Occidente è soprattutto Hermes, il dio della magia e dell'arte dei legami, il supremo custode di tutte le soglie, i passaggi e gli incroci del senso, a tornare verso di noi per aiutarci a riscoprire l'universo della creazione in modo insieme erratico e lucido, immaginoso e curioso, attento e flessibile. Non ho la minima idea di quale peso critico abbia il mio libro Forme della leggerezza; tutto quello che so è che, realizzandolo, invocavo idealmente Hermes come mio protettore: Hermes, il dio più "obliquo" e inafferrabile, meno "politicamente corretto" ma più estroso, aereo, inventivo e guizzante, sempre in viaggio fra la terra e il cielo, la vita e la morte, il concreto e il fantastico, il visibile e l'invisibile. Ispirare i propri tragitti di lettura a Hermes vorrebbe dire per i critici d'oggi, io credo, poter tornare a fare del proprio esercizio interpretativo una vera avventura, un'odissea fra le parole nutrita dal sentimento della metamorfosi infinita del mondo. Il primo grande allievo di Hermes nella letteratura occidentale non è forse Odisseo? Certo Odisseo non è solo un modello di sottigliezza, flessibilità e acume: la sua "mente colorata", la sua metis lo porta a essere anche un istrione, un bugiardo, un mistificatore. Ma anche nelle bugie può essere custodita una verità, come sapeva Oscar Wilde che si preoccupava della loro decadenza nel troppo razionalistico mondo moderno. Per quanto mi riguarda, mentendo a me stesso e ai miei pochi, benevoli lettori, concluderò queste divagazioni collocandomi sulla soglia ideale del mio libro come se fosse un piccolo circo, e come se io fossi l’imbonitore in caccia di un pubblico. Lasciatemi indossare per qualche momento la livrea rossa, con galloni dorati, di quest'umile ciarlatano; lasciatemi dire: "Entrate, entrate, signore e signori! In questo regno delle meraviglie potrete scoprire la leggerezza come mito, come fiaba, come Fata Morgana, come prestigio d'Oriente, come caso e destino, come gioiello e inganno, come rischio e sortilegio, come fremito erotico e bara di freschezza, come fuoco tragico e catartico, come splendore di sirene e di stelle, come mormorio d’acque e danza di vini nei calici... Entrate, entrate! Grazie.”
(2010)
di Gabriella Palli Baroni
"Realtà dei luoghi e poesia: Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi" in AA.VV., "Patrie poetiche. I luoghi della poesia contemporanea", a cura di Elisabetta Pigliapoco, peQuod, Ancona 2010.
Nel suo ultimo libro La casa del poeta (Garzanti 2008, prefazione di Bernardo Bertolucci) Paolo Lagazzi si racconta mentre racconta Attilio Bertolucci, un Attilio assai caro e amato, poeta trasparente e misterioso, sciamano e mago, ispirato e ispiratore, e ricrea intorno a lui un mondo («mito, prospettiva, metafora») di radici e di futuro. Non è forse nata lì a Casarola, nel luogo della Casa del poeta, la Camera da letto, l’opera forse più innovatrice del nostro Novecento poetico? E non sono nate in quel piccolo paese tra i monti alcune tra le più importanti poesie di Viaggio d’inverno e delle altre raccolte, poesie che Lagazzi rilegge in questa sua opera, che tiene dell’autobiografia e della biografia, del racconto e del saggio, unendo nella struttura le componenti di un genere letterario che, dopo gli esempi di Cesare Garboli o di Pietro Citati, si sta consolidando con nomi di più giovani autori?
È stato il poeta Bertolucci a documentare poeticamente, con ardore e pietà, la vita per noi perduta, a far entrare epifanicamente il ricordo del passato nel presente, i luoghi e i volti della sua vita nella poesia. Pittore supremo d’interni e d’esterni, di luci e ombre, Bertolucci nella Camera da letto ha fatto di Casarola il luogo mitico delle origini, ma ne ha fatto anche il teatro struggente di gioie e dolori, dell’allegria del bambino Bernardo «in volo sullo slittino» e dell’orrore della ferocia del rastrellamento tedesco, che trasforma un pacifico consorzio umano in lutto e sofferenza. Non solo. Nelle poesie i tetti d’ardesia, l’ antica casa di pietra, la lucertola scolpita sull’ingresso, i prati profumati di garofanini campestri, i boschi di castagni, disegnano un paesaggio caro, al quale sono affidati i moti del cuore, un paesaggio la cui bellezza è accarezzata dallo sguardo di chi conosce e teme la perdita e l’abbandono.
Ora Lagazzi, scandendo alcuni capitoli sotto titoli che richiamano titoli bertolucciani (Verso Casarola, At home, Ninetta, Solo, Fogli di un diario delle vacanze, Ritratto di uomo malato, Ritornare qui), dopo aver rievocato in apertura (Un giorno d’aprile) un ultimo struggente addio nella casa romana di Via Carini, ci riconduce lungo vie familiari, ci descrive soggiorni estivi, ci parla di Ninetta compagna fedele e ospite cortese, ritorna ad interrogare i versi appenninici, affida Casarola e il suo paesaggio di Terre alte, cieli profondi, così veri e vissuti, all’assoluto dell’arte: «un assoluto di terra e di cielo, recalcitrante ai manierismi novecenteschi, refrattario alle categorie e alle misure». Un assoluto che solo è suo, del poeta e della sua poesia.
È vero peraltro che la poesia di Bertolucci risponde ad altre sollecitazioni della vita e della realtà: Baccanelli, cui Vittorio Sereni pensava, durante la prigionia in Africa del Nord, come «casa della cara poesia»; Parma, città dell’amore e della giovinezza, della scoperta del cinema e bozzolo dorato di Sirio, di Fuochi in novembre, della Capanna indiana; Roma infine, mai interamente amata perché terra di autoesilio, ma anche sostanza dei componimenti segnati dal dolore e dalla malattia, dal pendolarismo senza scampo tra i luoghi più cari e la città «troppo bella» e non sua. Ma è certo che la casa di pietra di Casarola, costruita dagli antenati maremmani e restaurata dalle cure amorose di Ninetta nel 1956 (si ricordi il componimento Restauro di un tetto) e il rustico paese montano sono stati per Bertolucci la patria poetica, in cui ritrovare, come Worsdsworth, «le ragioni del suo essere» e della sua vocazione di scrittore e da cui dar voce, tra sogno e veglia, alla propria invenzione romanzesca in versi. Luogo di vita domestica, il paese di Casarola è stato forse il vero naturale cartone della poesia che sfiora la prosa, facendo esistere nel poema-romanzo un mondo perduto, ma riportato al presente dalla memoria involontaria e dal disperato desiderio di fermare lo scorrere del Tempo e la fine delle cose.
2. Chi abbia frequentato a lungo e spesso Attilio e Ninetta nella casa romana (non a Casarola, incontrata da chi scrive solo nel tempo eterno dei versi e ritrovata intatta dal vero dopo la morte del poeta; ma non è l’arte più vera del vero?), chi, si diceva, ha amato il poeta e la sua Musa, ritrova in questo libro di Lagazzi gli stessi riti gentili, la stessa eleganza inglese dell’abito, gli stessi gesti amorosi e pacifici, la stessa armonia di vita di coppia salda e unita, sempre luminosa pur tra le rovine. E risuonano nella memoria gli inviti al lavoro («Dobbiamo lavorare» «Lavoriamo») che, nel salotto dell’appartamento al quinto piano, che «gli usignoli e i merli dalle piante della clinica» (26 marzo) allietavano, avevano preceduto la lettura della Camera da letto, commentata poi per il Meridiano Opere. Inviti cortesi e fermi, quasi il compito di leggere le sequenze rispondesse a piacere e a necessità, quella stessa necessità che aveva guidato la composizione del poeta, la sua immensa creazione. E altri frammenti di conversazioni, dall’ordito ricco e un po’ volatile, generose di cultura e d’arte, si affacciano alla memoria, vivide intermittenze del cuore. Ma questo è forse il dono del grande poeta ai suoi interpreti- amici: far sì che, attraverso l’ascolto e l’amore per la sua opera, qualcosa di profondo, di vero, d’immutabile trascorra e s’incida fino a far riunire, quasi in un abbraccio intimo, le anime e le parole.
Paolo Lagazzi tuttavia, con passo personale, con una consonanza dovuta a lunga intimità, dipinge il suo poeta attraverso i colori e le ore di ventiquattro estati; restituisce il trascorrere dei giorni e le abitudini quotidiane: la passeggiata mattutina dalla casa alla curva che precede il diruto ponte sul Bràtica, le pause durante le quali componeva i capitoli della Camera, facendo del «cammino» e della «sosta» (così importanti nel simbolismo del Viaggio d’inverno) la cifra della sua poesia en plein air e del bisogno di rallentare la fuga del tempo. Lo descrive mentre accende il caminetto (quanti fuochi nella poesia di Attilio!); ne richiama il gesto antico con cui versa il vino all’ospite; ripercorre quel mondo di boschi e acque e persone (la famiglia proprietaria della locanda Tramaloni presso cui il giovane studioso soggiornava, famiglia funestata dalla morte del figlio ventenne) frequentate con amicizia sincera; lo accompagna attraverso le linee guida del suo esercizio critico iniziato sin dalla tesi di laurea, la prima tesi svolta sulla poesia bertolucciana e fonte di grande soddisfazione per l’autore. Qui Lagazzi sa anche dire di sé, delle sue letture, del suo cammino verso e con Bertolucci, di chi, come Luciano Anceschi, che pure aveva riconosciuto in Lirici nuovi del 1943 il valore del giovanissimo poeta, ha abbandonato e di chi ha scelto. Così ecco Gaston Bachelard, chiave per comprendere la rêverie bertolucciana; ecco Pietro Citati, maestro di eleganze interpretative; ecco la cultura zen affacciarsi nella valutazione del rapporto con il vivere; ecco soprattutto lui, il poeta, guida preziosa lungo i sentieri magici e segreti della sua arte. Un’arte che ha in sé la moralità della pazienza montanara, il sentimento della sacralità dell’esistenza, della sua «luce» e del suo «buio», ma anche della sua sostanza umana, del suo mistero. Su questo insiste Lagazzi nel leggere le poesie appenniniche, sottolineando la qualità simbolica del paesaggio e salvando sempre la sottile ambiguità della poesia, l’essere questa difesa ed «esorcismo» contro il caos, la sofferenza, la morte. Di questo Casarola porta il segno divenendo «il paesaggio più capace d’impennate e strapiombi, di avventure e d’occasioni epifaniche, di bilanci e di rischi radicali; lo scenario più contradditorio e drammatico, più concreto e più elusivo; “una terra per viverci”, e il luogo in cui è più arduo e dolce morire».
Per questo a Casarola si può ritornare ascoltando le parole della poesia: di Attilio Bertolucci, riletto dalle nostre voci mentre si cammina lungo i sentieri ch’egli percorreva fino alla Bora del Bosco, dove sedeva di fronte agli antichi capanni di pietra, scrivendo i suoi versi; di altri poeti, che in lui si sono riconosciuti, riconoscendone l’alto magistero. Perché Casarola, in cui si è manifestata la «sostanza creaturale della vita», è parte di quel destino fatale, che è il destino perenne della poesia.
3. Infine non possiamo non far cenno della Prefazione Con Paolo L. di Bernardo Bertolucci. Giocata sul filo dell’ironia e insieme dell’emozione («Sorpreso, commosso, smarrito»), di un’emozione «così intensa da diventare quasi indescrivibile», comunica il pensiero della liturgia sottile, della strategia segreta e coinvolgente, della «mappa segreta e accuratissima» dei luoghi in cui è avvenuta l’identificazione tra il poeta e il suo interprete-amico-testimone. Luoghi da entrambi esplorati, intimamente conosciuti nella suprema «illusione della poesia», in quella «bolla poetica» del padre, in cui «nessun altro aveva mai avuto accesso», «bolla» da cui i figli avevano cercato «scampo», ma in cui Paolo L., come affettuosamente veniva chiamato, aveva invece trovato senso e conforto.
Gabriella Palli Baroni
Il saggio di Carla Stroppa è stato pubblicato (con qualche variante) col titolo Light stone nel suo libro, Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura, Moretti & Vitali, Bergamo 2016.
Light stone
Di fascino parla il romanzo di Paolo Lagazzi Light stone (Passigli). Un fascino totale, rapinoso e invasivo che emana da una fanciulla giapponese e investe il sensibilissimo e talentuoso violinista protagonista della storia, affascinando a sua volta il lettore. Un fascino leggero come l’aria che si respira e di cui non si può fare a meno, o come l’essenza sfuggente del femminile, ma insieme pesante come una pietra che colpisce la mente e il cuore, come tutte le cose che con la loro ineludibilità imprigionano l’Io e rischiano di pietrificarlo.
Come non pensare a Calvino e alla sua lezione americana sulla leggerezza? Per affrontare la pesantezza pietrificante delle vicende umane occorre il filtro della leggerezza di Perseo, che ha guardato la Medusa che pietrifica chi la guarda protetto da uno scudo-specchio capace di confondere il piano letterale con quello della riflessione, perfetta metafora dell’attitudine mercuriale che dischiude la letteratura, che rende possibile coniugare in modo “magico” la leggerezza di uno stile “alato” e la tragicità dei contenuti.
La fanciulla che affascina il violinista, Shoko, si presenta subito come portatrice di un’alterità conturbante, etnica ma non solo. Niente di rassicurante in lei. Né madre, né compagna, né moglie, in nessun modo complice, appare piuttosto come l’incarnazione di una ninfa, sfuggente, cangiante, radicalmente sconcertante. E’ come una sirena che rapisce l’anima e la mente del protagonista che però non si fa legare come Ulisse al palo della nave, ma si lascia trascinare nelle profondità del mare dell’inconscio dove il destino si fa incomprensibile, vertiginoso avanzamento nei meandri di un labirinto in cui si animano tutti i fantasmi dell’alterità, o dove, detto in termini psicoanalitici, si agitano le proiezioni più contorte della psiche e si complicano i rapporti sino a rendere inestricabile il filo che lega gli individui tra fantasie, paure, desideri, speranze, rancori, infiniti e intricati equivoci. L’altro è il tramite di questa animazione che destabilizza, ma che nel contempo porta a galla qualcosa di profondo che diversamente non sarebbe mai emerso, a scapito, per il protagonista, dell’interezza dell’esperienza di sé e a scapito, per l’autore, della sua vocazione letteraria.
L’Oriente si basa su un sistema mentale, estetico e simbolico profondamente “altro” da quello occidentale, e questo rende la storia ancora più perturbante. Shoko sintetizza in sé le caratteristiche dell’iki (la grazia nella tradizione giapponese) che “in quanto fenomeno di coscienza è seduzione, intesa come instaurazione di un rapporto duale con l’altro sesso che si realizza compiutamente grazie alla Irrealtà su cui si fonda l’ideale etico” (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki). Questo ideale etico coincide, mi pare, con l’ideale poetico di Paolo Lagazzi, la bellezza irreale della Musa, della Ninfa, della Geisha che incarnano il mistero e l’essenza della seduzione femminile.
Benché inafferrabile, la Bellezza, come diceva Stendhal, è una promessa di felicità. Come resisterle? Proprio questa felicità sempre agognata, rincorsa, corteggiata, allusa, fa percorrere al protagonista i labirinti oscuri e insidiosi dell’anima i cui confini, come diceva Eraclito, “non li trovi anche a percorrere tutte le strade: così profondo è il logos che essa comporta”.
Non si trovano i confini dell’anima perché è eterna, infinita, ma cercandoli si trovano quelli dell’Io. Ed è tragico questo ritrovamento perché consegna ad un disperante sentimento d’impotenza e alla percezione dello scarto insostenibile tra la luce dell’incanto poetico che brilla sempre nella mente dell’artista ermetico e la pesantezza incoercibile delle cose contingenti. Questa percezione imprigiona l’Io dentro i limiti che circoscrivono la sua reale possibilità di movimento. Non a caso il violinista fa un sogno ricorrente: sogna di essere rinchiuso in una prigione senza sapere perché. Romano Guardini descriveva così l’essenza della malinconia: essa appartiene all’anima che coglie in un unico, tragico atto la bellezza inebriante del creato e i limiti invalicabili dell’Io desiderante. In questo scarto c’è la tragedia della vita e della morte ma anche la possibilità metamorfica della coscienza.
Il violinista è letteralmente posseduto dall’imprendibilità della fanciulla, dai suoi continui tira e molla, dal suo essere creatura fuori dal tempo e dallo spazio, dal suo essere creatura iki, diversa dalla moglie, dalla figlia e dall’agente artistica, che pure sono necessarie alla sua esistenza reale, affettiva ed emotiva. Shoko certo è la pienezza aurorale, prima di ogni perché, prima di ogni differenziazione dell’Io, è quella irradianza misteriosa alla quale l’artista ermetico non può rinunciare e per la quale pagherà prezzi altissimi. Forse è la musica stessa e Francesco, violinista, la insegue rapito.
Shoko attiva la mistica tensione verso l’Uno, matrice per antonomasia della visione simbolica che riunisce in sé le polarità della vita e consente la magica percezione delle corrispondenze nascoste fra i fenomeni. Consapevole più del suo personaggio, lo scrittore avverte: all’origine di questo incantamento e di questo percorso vi è la stanchezza, quella di “un viandante giunto a fondo (…) nell’abbandono, nell’accettare il proprio essere inerme, senza calcoli né difese”. Cosa importa, però, se Shoko porterà alla perdizione? Proprio da quella posizione si può giungere “alla semplicità delle cose impossibili quando rinunciamo a contenerle in un’idea”.
Tutto l’impianto narrativo si regge su una forte e leggera filosofia sapienziale che ricorda L’asino d’oro di Apuleio. Forse anche Francesco, abbagliato come Lucio dalla magia erotica di una fanciulla, si mette senza saperlo sull’impervia strada dell’iniziazione ai Misteri di Iside. Per compiere questo cammino occorre una certa “asinina” condiscendenza verso l’insensatezza del mondo, intrecciata ad un’alta, benché celata, fiducia nei propri gusti estetici e nella filosofia di fondo della propria opzione esistenziale.
Un luccichio d’infanzia non dimenticata aleggia in tutto il romanzo. E’ ancora un sogno del protagonista a segnalarlo: si vede in compagnia di Shoko; la accarezza teneramente, ma ad un tratto le chiede di attenderlo sul marciapiede perché si deve assentare per risalire per qualche minuto nella casa “dove da bambino…”. Ciò che si intromette tra Francesco e il suo oggetto di desiderio è forse la necessità di confrontarsi con il bambino che vive sempre in lui e che lo tormenta con sogni irrealizzabili, tuttavia gli offre ad un tempo lo stupore, la meraviglia, lo sguardo aurorale che gli adulti più adattati hanno irrimediabilmente perduto.
Sognare, ci dice lo scrittore svelando la tragica e paradossale consapevolezza del poeta, “è un diritto, forse l’unico vero diritto a noi concesso dalle potenze invisibili per risarcirci dal peso della morte – della morte di tutto: della bellezza, della musica, delle stelle, dell’amore, della speranza”. Tragica consapevolezza certo, eppure assoluta fedeltà alla propria sognante opzione.
Ma il sogno più radicale e straziante è quello di poter trovare qualcuno nella vita, un altro da sé a cui confessarsi totalmente, da cui essere totalmente rispecchiato, da cui essere accolti senza residui e senza giudizio, con cui poter instaurare un dialogo vivo e risolutivo del senso di sé. E’ proprio un sogno questo, un bisogno primordiale destinato ad annullarsi nel confronto con l’altro che è veramente altro e mai potrà assecondarlo. L’unico ponte percorribile fra sé e l’altro è quello della parola narrante, la parola che seduce veicolando un paradossale e profondo piano di verità dell’anima. E’ lei (l’anima) la Musa, la Geisha che si dà e poi si sottrae ad arte, compare e scompare, leggera come una piuma svolazza attorno al designato, lascia intuire qualcosa di sé, poi per via della sua natura metamorfica si trasfigura, mostra altri volti inquietanti, oscuri, vicini e accattivanti, lontani come un miraggio…
In questo ondeggiare sta la quintessenza della seduzione erotica, la cui natura riporta all’iki come fenomeno di coscienza. Cos’è questa seduzione? È una possibilità infinitamente dislocabile, rinviante. E’ il gioco erotico che non si esaurisce mai perché mai cade nella realtà del rapporto ordinario. Non è mai volgare (come in Occidente). Essa danza sempre con grazia suprema sul filo, sospeso nel vuoto, che lega gli amanti senza mai avvicinarli del tutto, senza mai separarli del tutto.
Ma la donna che evoca tutto ciò col suo modo d’essere, nella realtà non può sostenere la proiezione di assoluto che lei stessa evoca. Questa è una grande questione: la donna portatrice di un archetipo che non si cura dei limiti dell’Io è ugualmente vittima di qualcosa che la trascende. Per questo si confonde e confonde l’altro che è caduto nel suo raggio di radianza. Questo tipo di donna inciampa nei suoi stessi passi. E’ smarrita quanto il suo malcapitato cavalier servente. Impossibile instaurare una relazione: tutto si gioca nell’inseguimento dell’anima libera dai lacci della realtà, vacuo e sublime anelito che può dirsi solo nella visione interiore, mille volte affrescata nella parola poetica e nelle immagini dell’arte, nella musica.
Il violinista intuisce il disastro di questo amore impossibile, contorto, pieno di risvolti oscuri, pieno di vuoto, ma decide coscientemente di aderirvi e di non cedere al disincanto e al cinismo, fantasmi sempre in agguato quando un amore non funziona. Il suo gioco è quello, inesausto, di chi sta perdendo tutto al tavolo verde, ma spera al di là di ogni logica probabilistica nell’ultima puntata perché, senza speranza, la sua vita non avrebbe più senso e nessuna domanda sostanziale nascerebbe dalla sua anima.
Non importa se ad un certo punto Francesco sospetta, intuisce, forse comprende che la “sua” Shoko può essere una escort o chissà mai cos’altro. Non importa perché in ogni caso “un fascino, una grazia radicata in una diversità irriducibile alle ragioni comuni” lo tiene sempre avvinto. E’ un angelo Shoko, un demone, è celestiale e perversa e lui desidera rimanerle fedele come un cane. Per sempre. Sarebbe troppo facile ridurre questo anelito ad un banale equivoco relazionale o ad una pura e semplice psicopatologia. In realtà questa folle fedeltà a lei è fedeltà alla realtà dell’anima dell’artista e alle sue irrinunciabili imago. Shoko è solo l’inconsapevole tramite, la creatura reale che dà sostanza psicologica a ciò che per il violinista è incomparabilmente superiore al senso di realtà, a ciò che è leggero e pesante e in ogni caso ineludibile. Lei è un’ipotesi, una mera possibilità, è l’innocenza paradossale e infantile del perverso polimorfo. Per il poeta può rappresentare la mistica aspirazione all’Uno, la gnostica pienezza del prima di ogni differenziazione dell’Io pensante e del dopo. Non è detto che il ritorno sia sempre impossibile. Per qualche mistico lo è stato.
Shoko ad un certo punto sparisce nel nulla. Ed è proprio allora che l’esperienza dell’altro, dalla proiezione su una persona esterna si introietta e diviene esperienza dell’altro dentro di sé. Il violinista si rende finalmente conto che la sua vita è stata orchestrata da un’alterità spiazzante che dal dentro determinava tutto quanto. Noi psicoanalisti diremmo che è il momento del “ritiro delle proiezioni”. “Tutta la propria vita cominciò a sembrargli un romanzo senza trama scritto da un autore senza nome, stranito da ciò che faceva”.
E’ il momento dei bilanci: aveva concesso troppo spazio alla musica dell’impossibile e i rapporti con le persone vive e vere ne avevano sofferto. Le sirene lo avevano travolto e lui non si era fatto legare al palo. Aveva tradito gli affetti vicini e veri e di questo ora prova tutta la colpa.
Il mistero del femminile archetipico, metamorfico, dai mille volti era stato il tramite della sua arte ed era stato il tormento che aveva complicato la vita di tutti i giorni.
E dunque: tradire la vita o tradire la vocazione? Domanda senza risposta su cui fiumi di parole sono state scritte e infiniti esempi la storia ci ha consegnato.
In ogni caso un sentimento veramente umano ed etico nasce qui; sull’orlo del baratro, a trattenere il violinista dalla tentazione di lasciarsi morire sotto i ponti, fra i negletti, gli emarginati assoluti, sono gli occhi vivi e veri della moglie e della figlia.
Le ultime pagine del libro posseggono la struggente intensità di un’anima che consegna alla scrittura la tragedia del tracollo esistenziale.
Si spoglia di tutto, il protagonista, e accetta l’umiliazione più assoluta.
La musica più bella nasce qui.
Carla Stroppa
Recensione di Sauro Damiani di La stanchezza del mondo e di Light stone (romanzo ambientato fra l'Italia e il Giappone) è uscita in Soglie a. XVII n. 3, dicembre 2015;
PAOLO LAGAZZI, La stanchezza del mondo (Ombre e bagliori dalle terre della poesia), Milano, Moretti&Vitali, 2014
Light Stone, Bagno a Ripoli-Firenze, Passigli, 2014.
Quando si leggono i saggi di Paolo Lagazzi il piacere della lettura è assicurato. Raramente è dato di trovare una prosa tanto viva ed elegante che però nulla conceda alla “bella pagina”, a un superficiale e narcisistico edonismo. Infatti Lagazzi, raffinato scrittore, è anche raffinato critico; nelle sue pagine la bellezza si sposa alla conoscenza, la leggerezza all’intelligenza. A Lagazzi pare attagliarsi perfettamente la categoria di critico-scrittore. Possiamo concordare. Precisando, però, che in lui l’acume critico e la nobiltà letteraria non si congiungono accidentalmente: i due elementi sono invece connessi in modo intimo e necessario: quel tipo di critica richiede quel tipo di prosa e non altra. In La stanchezza del mondo Lagazzi scrive che oggi i critici, prigionieri di una presunta oggettività scientifica o di una rigida parzialità ideologica, sono “troppo spesso incapaci di cogliere il canto segreto e necessario della poesia” (p.104), canto che scaturisce dalla “fragranza della vita”, in un connubio indissolubile. Una critica che intenda essere fedele a questo intimo legame dovrà dunque farsi aperta e duttile, aderendo fedelmente al palpito, alla verità della poesia-vita, cogliendo il bello là dove è, senza preconcetti, senza schematismi. Quella di Lagazzi potrebbe essere detta una democrazia critica, disposta ad accogliere tutto, liberamente, caldamente, con la gioia di condividere orizzonti di bellezza e di senso. Per questo motivo le pagine critiche di Lagazzi, sempre così puntuali, godono anche di una invidiabile freschezza, che le rendono degne di essere antologizzate in un ideale volume che raccolga il meglio della critica contemporanea.
Lo stile critico dell’autore, refrattario alle “trappole del pensiero unico” e aperto all’ascolto delle voci più diverse, si oppone alla tendenza odierna di stilare canoni, poetici e non, che per Lagazzi altro non sono che espressioni di “opportunismo o complicità tra critici, editori e poeti”. Ma al di là di questa ragione, per il nostro quella tendenza sorge innanzitutto dal rifiuto pregiudiziale di riconoscere “la stanchezza del mondo” nella quale tutti siamo coinvolti. Una letteratura all’altezza della situazione, infatti, non può essere che “grande gioco, intarsio erratico e fluido, danza fra autenticità e finzione, toccata e fuga di rivelazioni e fate morgane” (p.24); una letteratura, quindi, che rifiuta la costrizione in schemi precostituiti e in analisi “scientifiche”, le quali, lungi da essere oggettive, non fanno che tradirne la sostanza vivente. Non fa meraviglia che Lagazzi, come vedremo meglio sotto, sia tanto vicino alla sensibilità orientale. Mentre infatti l’Occidente scinde la realtà in elementi contrapposti, con l’illusione di meglio circoscriverli e dominarli, l’Oriente ha una visione unitaria del mondo, ne illumina il dinamismo, la costitutiva relazionalità, l’insolubile e metamorfico intrecciarsi. Da qui anche il profondo interesse di Lagazzi per la spiritualità zen, della quale è eloquente esemplificazione la mirabile lettera a Patrizia Trimboli che chiude il libro. Quasi a conclusione vi è riportato e commentato il noto apologo zen dell’uomo inseguito da una tigre e che sull’orlo dell’abisso assapora la dolcezza di una fragola: “uno di quegli istanti in cui l’effimero e l’eterno coincidono” (p.256). Davvero non si poteva dire meglio.
Ma che cos’è la “stanchezza” di cui l’autore parla fin dal titolo? Più che un movimento psicologico o una condizione storica, la stanchezza, per Lagazzi, è un trascendentale, cioè la condizione a priori per comprendere il mondo in cui viviamo, i sentimenti che ci animano, la cultura che esprimiamo. Da non confondersi col nichilismo, la stanchezza è più pervasiva e insidiosa, è un “sentimento di fine prossima del mondo” (p.15), una nebbia che chiude l’orizzonte, una colla, una mucillaggine, sabbie mobili nelle quali lentamente affondiamo, rassegnati e impotenti. La prosa metaforica di Lagazzi sa trovare espressioni di rara felicità ed efficacia per rappresentare la condizione di “senilità del mondo” che, volenti o nolenti, abitiamo. La poesia è chiamata a testimoniare senza occultamenti questa realtà, a “dar voce a una mancanza di voce” (p.17). Ma, paradossalmente, è proprio dal fondo di questa fedele testimonianza – insieme accettazione e reazione – che la poesia rinasce nuova e fresca, capace di cantare, con leggerezza danzante, il “mistero amoroso e doloroso” del mondo, come Lagazzi splendidamente scrive. La poesia è la fragola sull’orlo dell’abisso, la cui dolcezza il saggio zen sa assaporare pienamente nel momento stesso in cui ne coglie la fugacità.
Da questa condizione e da questa testimonianza scaturisce una necessità, insieme storica, culturale e spirituale: quella di raccogliere le voci di coloro che abitano le “terre della poesia” sì da comporre un fondamentale “sillabario”, radice di una lingua che accomuni quanti, soffrendo la stanchezza del mondo, sentono l’esigenza di ristabilire un rapporto autentico col mistero dell’essere. Alla poesia viene dunque affidata una funzione salvifica. Solo se le terre della poesia diventano la terra di tutti l’Occidente potrà uscire dalla condizione agonica in cui attualmente versa. Il sottotitolo del libro è Ombre e bagliori dalle terre della poesia, e Piccolo sillabario poetico è il titolo della parte più cospicua del volume, nel quale l’autore raccoglie quanto era venuto scrivendo negli ultimi anni su 36 poeti italiani. Disposti in rigoroso ordine alfabetico, essi sembrano costituire il nuovo alfabeto di una nuova lingua, di una nuova umanità. Un afflato grandioso percorre dunque questo libro, comprensibile pienamente solo da chi partecipi al sentimento, acutissimo, di trovarci tutti a un punto di non ritorno. Non tanto e non solo un libro di saggi, quello di Lagazzi, quanto un libro profetico e sapienziale. Non ci si inganni, però sul termine “profetico”. Lagazzi è ben lontano dal tuonare come i profeti dell’Antico Testamento; la sua è una voce mite e suadente che conosce tutte le sfumature della lingua; una voce che si indirizza agli uomini di oggi, disincantati eppure in attesa di una parola di verità, di una sapienza che si mescoli fraternamente alla loro travagliata vicenda. Profetico, il libro, nel senso di una giudizio chiaro sul mondo, alla luce di una verità che è insieme bellezza: la dolce e nutriente verità della poesia.
Un sillabario, dunque. Sillabario che, come Lagazzi scrive nel breve scritto introduttivo, Istruzioni per l’uso della stanchezza, comprende solo alcuni dei poeti che “parlano” all’autore. Esso va da Sauro Albisani a Emilio Zucchi, passando, in una incompleta esemplificazione, per Paolo Bertolani, Fabrizio Dall’Aglio, Luciano Erba, Umberto Fiori, Franco Loi, Gian Ruggero Manzoni, Giancarlo Pontiggia, Paolo Ruffilli, Fernanda Romagnoli, Alberto Valli Fassi von Karuk Soheve. Poeti noti e meno noti, tutti però amorosamente considerati, tutti perfettamente individuati nelle loro caratteristiche, senza pretese di razionalistica oggettivazione. Lagazzi rifugge da tecnicismi e formalismi, preferendo inserirsi creativamente nel flusso dei versi citati, intrecciando la sua voce a quella dei poeti, in un tessuto finissimo ed accattivante, di esemplare tenuta letteraria. In tutto il libro aleggia poi la presenza, quasi numinosa, di Attilio Bertolucci – di cui Lagazzi è lo studioso principe – nella cui “voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza” (p.18).
Quella luce che, malgrado tutto, splende nei versi alti e intensi di Fernanda Romagnoli, la quale “sa riattivare, con una forza unica nella civiltà della rinuncia alla lirica, il pathos dell’autentica poesia sapienziale” (p.165). Figura di primo piano nella poesia del secolo scorso e tuttavia trascurata dalla critica, la Romagnoli trova in Lagazzi un interprete ideale. Come lo trova Paolo Bertolani, grande e non adeguatamente apprezzato poeta dialettale, il quale “sa ricondurre la coscienza romantica del nulla alla luce di una moderna ferita eppure mai arresa nel bisogno, nell’ansia di testimoniare la bellezza” (p.50). Bellezza: parola-chiave del libro, da Lagazzi poeticamente definita come lo “scatto superfluo della vita, questo seme di piccole offerte che innervano il tempo in fuga, che accendono di una luce segreta la nostra povertà” (p.53). Mirabile nell’individuazione delle caratteristiche di ogni singolo poeta anche attraverso nessi e analogie illuminanti, Lagazzi è anche, come ho già detto, mirabile scrittore. Critica, letteratura e vita si stringono in un triplice nodo, come è testimoniato anche dagli sparsi riferimenti biografici nei quali appare il rapporto amicale che il nostro intrattiene con non pochi poeti.
Critico-scrittore, Lagazzi. Piacevole sorpresa è ora quella di avere un Lagazzi che si cimenta col romanzo. Tuttavia, diversamente da tanta pseudo letteratura che invade le librerie e la cui ragion d’essere è quasi esclusivamente economica, Light stone, primo romanzo di questa notevole personalità letteraria, nasce da una vera necessità interiore, dal bisogno di portare a chiarezza un nodo di problemi sentito come vitale. Il protagonista del romanzo incarna una figura che, come vedremo, viene da molto lontano nella nostra storia culturale e che però è diventata estranea alla sensibilità dell’uomo di oggi, sordo alla voce dell’Assoluto. Bene ha fatto Lagazzi a dargli nuova vita. “Light stone” (pietra luminosa, ma anche pietra leggera) è la traduzione di un verso di una nota poesia di Bertolucci ad opera del protagonista del romanzo, Francesco Alberti, come omaggio a una ragazza giapponese, Shoko Mitabe, conosciuta durante una tournée in Giappone, “il paese più incomprensibile e seducente del mondo”. Francesco è infatti un violinista; ma, si noti bene, un “violinista-avventuriero”, scrive Lagazzi, cioè un improvvisatore, la cui musica è dunque legata al transeunte, all’inafferrabile: alla “toccata e fuga”, come ama dire l’autore. Durante una seconda tournée di dieci anni dopo, incontrata di nuovo Shoko, Francesco scopre di essere perdutamente innamorato della ragazza, di trent’anni più giovane di lui. Tornato in Italia, Francesco, abbandonandosi totalmente al fuoco di una passione divorante, riprende, come dieci anni prima, la comunicazione via email con la giovane, la quale non si sottrae al rapporto verbale, mantenendo però un atteggiamento ambiguo, fra promessa e distacco, che alimenta ancor più la passione dell’uomo. La comunicazione avviene in inglese, una lingua che non appartiene a nessuno dei due protagonisti, segno dell’impossibilità di una relazione profonda, che superi tutte le barriere: una relazione da anima ad anima. Francesco è sposato, non infelicemente, con Patrizia, e ha una figlia. Egli non sembra negare, ma semmai relativizzare l’amore coniugale, e si lascia andare totalmente a un altro genere di amore. È l’amore-passione, finemente analizzato da Denis de Rougemont in L’amour et l’Occident, che ha il suo prototipo nella tragica vicenda di Tristano e Isotta; l’amore impossibile, che non solo non cerca il rapporto fisico, ma lo fugge (anche se il protagonista non ne è consapevole); l’amore per l’amore, che si nutre solo di sé stesso, come Petrarca ha mostrato in modo insuperabile. È l’amore legato necessariamente alla morte. Amore e morte, il binomio tipicamente romantico (si pensi solo a Leopardi), che percorre tutta la storia dell’Occidente, dal Medio evo in poi, che ha il suo acme nel romanticismo, che sembra poi perdersi, ma che ecco rinasce a nuova vita nel romanzo di Lagazzi. Intrecciato al tema dell’amore-passione, in Light stone è sviluppato quello dell’individuo impacciato e goffo, del poeta deriso dai mediocri, come l’albatros di Baudelaire le cui ali troppo grandi stridono con le misure terrestri. Francesco è infatti uno fuori posto, la cui vita si realizza essenzialmente all’interno della propria psiche, in un rovello e groviglio incessanti e insolubili; un inetto, come certi personaggi di Svevo e di Tozzi. Il sentimento di inettitudine e di fallimento provato da Francesco rende la sua passione per Shoko ancor più tormentosa e ossessiva e ne costituisce un alimento costante. Shoko, l’Oriente: il lontano, l’Altro, che si presenta col volto di una giovinezza quasi immateriale, trasparente, di leggerezza angelica, e per questo ancor più inafferrabile. “Un elefante innamorato di una farfalla” è Francesco nei confronti di Shoko. L’impossibilità di un amore privato è dunque l’allegoria di un’impossibilità culturale. Francesco ama il Giappone, ha studiato e praticato lo zen, cerca di appellarsi alla sapienza di questa antica spiritualità; ma alla fine essa nulla può di fronte alla travolgente potenza di una passione coltivata e alimentata con tenacia, in una fedeltà estrema alle sue tragiche ragioni, a un destino storico ancor prima che individuale. “Destino”: parola centrale del libro; ma parola che l’autore sa far diventare narrazione, romanzo, col sapiente e accorto uso della tecnica dell’anticipazione: tutto è già scritto, lottare è vano. Shoko, leggera e imprendibile, che si dona e si sottrae, che allude a una possibilità senza scopo e ancoraggio, è l’espressione vivente dell’iki, termine tipicamente giapponese, intraducibile nella nostra lingua, che riassume i significati di seduzione, energia interiore e distacco: una seduzione, dunque, fine a sé stessa, che fugge il rapporto carnale e rifulge solo nella rinuncia. Detto in altre parole, Shoko è il simbolo della Bellezza. Ma come sapevano bene i romantici, la bellezza è ambivalente. Shoko, che agli occhi di Francesco a un certo punto si eleva ad angelo, a figura salvifica (la donna-angelo della poesia medievale), in una delle sue incessanti metamorfosi si rivela come donna di facili costumi, oscuro demone nato per la dannazione dell’amante. “Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme/o Beauté?”, scrive Baudelaire in una celebre lirica. Chi è Shoko? Demone o angelo decaduto? A questa seconda alternativa vuole credere Francesco. Shoko, scoperta in mutandine in uno dei masochistici viaggi di Francesco su internet alla ricerca frustrante della vera identità della ragazza, agli occhi dell’innamorato non resta contaminata nella sua “sostanza angelica” (p. 210): è un angelo in esilio, un alter ego di Francesco, albatros reietto e calpestato. Gli opposti si toccano.
Dopo vari anni di corrispondenza, vissuti dal protagonista fra speranza e delusione, nella tensione di una possibilità che non può né deve realizzarsi, a un certo punto la ragazza interrompe la comunicazione. Per Francesco, respinto in un quotidiano poco poetico, è l’ora di interrogarsi davvero su sé stesso. In una pagina di rara lucidità egli si rende conto che la sua passione non era altro che la maschera di una “incapacità di amare”. Il suo anelito all’Altro era solo, per dirla con Hegel, un “cattivo infinito”, cioè un infinito che non si incarna nel finito, che rifiuta l’“ardua scommessa di una famiglia” (proprio come il cattivo infinito esaltato dalla sensibilità iki). Ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Il destino deve compiersi. Francesco si accosta di nuovo allo zen. Ma questa volta è uno “zen di strada fondato su esperienze erratiche”, come scrive splendidamente Lagazzi. Egli dunque, il violinista-avventuriero, si lascia andare a una nuova avventura, fedele a una sua immagine di libertà. La notte esce di casa e portando con sé il violino comincia una vita in mezzo ai barboni, “poeti del caos, paria ricchi di paradossi”. L’albatros, “le roi de l’azur”, si cala nei bassifondi. Gli estremi si toccano, in una paradossale mistica dei marciapiedi.
Siamo alla fine. Francesco dona il suo violino a una derelitta come lui. Una notte, mentre sta attraversando una strada, viene investito da un TIR. Ancora gli estremi che si toccano: l’essere purificato dalla sofferenza e divenuto leggero, nuda anima, è travolto da un mezzo pesante. Cadendo, a Francesco sfugge il borsalino, il cappello elegante e démodé, perfettamente intonato al suo portatore. Passa una moto, “forse giapponese” (cioè, necessariamente giapponese) che lo schiaccia, riducendolo a “qualcosa di molto simile a una pietra leggera”. La metonimia di Francesco muore, con una significativa metamorfosi. Ma il Francesco in carne ed ossa, travolto dal TIR, è morto? Domanda senza senso in riferimento all’”idiota sacro” quale Francesco è, l’essere insieme “miracolato e impotente”, che, misticamente, ospita tutti gli opposti.
Il romanzo di Lagazzi ha radici autobiografiche. Ma l’autore si distanzia dalla materia, che sente scottante, con un abile gioco di specchi, introducendo, nella breve premessa dall’eloquente titolo “Non chiamatemi Ismaele”, la figura del narratore, secondo un procedimento tipico di una modernità che ha perduto il contatto immediato col mondo e che moltiplica i dualismi; figura non a caso presente in Light stone, romanzo dell’impossibilità dell’unificazione. Light stone, ricchissimo di significati, è volutamente poverissimo degli elementi che ci attenderemmo in un romanzo, prima di tutto i dialoghi. Il libro è invece occupato quasi totalmente dai rovelli interiori di Francesco che danno modo a Lagazzi di far risplendere la sua prosa leggera e metamorfica, fatta di catene metaforiche, di antitesi tipicamente petrarchesche, di immagini seducenti. Alcune pagine sono davvero di grande letteratura, come la visita al cimitero della setta Shingon, “espressione del più irriducibile nichilismo”, a cui Francesco non riesce a credere, convinto, come gli ha insegnato lo zen, che “il nulla e il tutto, il pieno e il vuoto, la vita e la morte sono i due volti di una stessa realtà”. Che cos’è la realtà? Chi siamo noi? La risposta a un punto interrogativo è un punto interrogativo. Questa risposta-non risposta è il romanzo di Lagazzi: è la poesia, la pietra (pesantezza e oscurità, e stanchezza) leggera e luminosa.
Sauro Damiani
12 Aprile 2017 GABINETTO VIESSEUX FIRENZE
Premio Montale Fuori di Casa 2017
per la critica letteraria e la saggistica
a Paolo Lagazzi
Motivazione
Intellettuale proteiforme, raffinato critico letterario, saggista, scrittore, studioso di letteratura italiana e straniera del Novecento e di poesia giapponese, Paolo Lagazzi è sì tutto questo ma molto di più. Sfugge ad ogni definizione questo attento conoscitore del buddismo zen, questo esploratore di costellazioni magiche, di miti e leggende, questo sottile cultore di musica, cinema e pittura. Se Doriano Fasoli riconosce in lui uno dei critici letterari contemporanei più originali ed eclettici, Davide Rondoni evidenzia la sua peculiarità di critico “entusiasta”, capace di introdurre chi lo segue ad una curiosità vera verso il significato dell'esistenza .
Da ultimo Lagazzi si è confrontato anche con il romanzo pubblicando nel 2014 per la casa editrice Passigli "Light stone", quasi una summa dei suoi più grandi amori: la poesia di Attilio Bertolucci (da un verso del quale prende titolo il libro), la cultura giapponese, la filosofia zen, la musica. Il risultato è un libro elegante, raffinato, poetico e struggente, tagliente come una pietra di luce.
Biobibliografia essenziale di Paolo Lagazzi
Paolo Lagazzi, saggista e scrittore, è nato a Parma nel 1949 e dal 2002 risiede a Milano.
Per anni ha alternato gli studi regolari (liceo classico, laurea in Lettere moderne presso l’Università di Bologna) con esperimenti, esplorazioni, ricerche in ambiti diversi: la musica, i giochi di prestigio, la pittura, la meditazione Zen.
Come saggista si è occupato di letteratura antica e moderna, occidentale e orientale, e di magia, buddhismo, arti e cinema.
Ha collaborato e collabora a molte fra le più note riviste letterarie e di cultura italiane e straniere e a diversi quotidiani, in particolare “Avvenire”.
Ha partecipato come relatore a numerosissimi eventi e convegni letterari in Italia e all’estero.
Fa parte del Comitato direttivo dell’Accademia Mondiale della Poesia di Verona e dei comitati di redazione delle due riviste italoamericane “Gradiva” e “IPR”. Dirige per Moretti & Vitali, insieme a Giancarlo Pontiggia e Stefano Lecchini, due collane, una di poesia e una di saggistica. Cura, presso l’Archivio di Stato di Parma, l’Archivio “Attilio Bertolucci”.
Diversi suoi testi sono tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e giapponese.
I suoi libri di saggistica sono:
- Attilio Bertolucci (La Nuova Italia 1981, premio Biella per la critica 1982);
- Comparoni e “l’altro”. Sulle tracce di Silvio D’Arzo (Diabasis 1992);
- Rêverie e destino (Garzanti 1993);
- Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, prefazione di Valerio Magrelli; Moretti & Vitali 2006, prefazione di Emanuele Trevi);
- Dentro il pensiero del mondo (I Quaderni del Battello Ebbro 2000);
- Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Archinto 2002);
- La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci (Garzanti 2008, prefazione di Bernardo Bertolucci);
- Forme della leggerezza (Archinto 2010);
- Otto piccoli inchini (Albatros 2011);
- Le lucciole nella bottiglia. Il mondo di Umberto Piersanti (Archinto 2012);
- La stanchezza del mondo. Ombre e bagliori dalle terre della poesia (Moretti & Vitali 2014);
- Come ascoltassi il battito d’un cuore. Incontri nel cammino di Attilio (Moretti & Vitali 2018);
- Il mago della critica. La letteratura secondo Pietro Citati (Alpes 2018).
- Come libellule fra il vento e la quiete. Fluttuando tra Giappone e Occidente (La Vita Felice 2019).
- Quella ricchezza detta povertà. I sentieri di Paolo Bertolani (CartaCanta 2020).
- I volti di Hermes. Magie Inganni Sortilegi Rivelazioni (Moretti & Vitali 2023).
- La seduzione della leggerezza. Tre sguardi eccentrici su D’Annunzio (Mondo nuovo 2023).
Ha realizzato inoltre un libro-intervista con Attilio Bertolucci, All’improvviso ricordando (Guanda 1997), tradotto integralmente in giapponese da Yasuko Matsumoto col titolo Luce di Parma (Paruma no hikari, Shichō-sha,Tokyo 2009).
Come scrittore d’invenzione ha pubblicato:
- due libri di fiabe (La scatola dei giochi, con illustrazioni di Stefano Spagnoli, Diabasis 2000; La fogliolina, con disegni di Viviana Lagazzi, Editing 2006);
- un libro di racconti (Nessuna telefonata sfugge al cielo. Piccole storie notturne, Aragno 2011);
- un’intervista immaginaria (Mondo uovo. Dialogo veritiero con l’uovo di Colombo, illustrazioni di Laura De Luca, La Vita Felice 2013);
- due romanzi (Light stone, Passigli 2014, Premio “Città di Fabriano” 2015; L’isola della colpa, scritto insieme a Daniela Tomerini, Passigli 2021).
Ha curato più di quaranta volumi per molti editori diversi; ricordiamo in particolare i “Meridiani” Mondadori, da lui curati e introdotti, delle opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012).
Di Bertolucci ha curato anche, con Gabriella Palli Baroni, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (Diabasis 2014).
Per l’editore Tallone ha curato un’antologia della poesia di Davide Rondoni, Visioni della vita rapita (2018).
Per InternoPoesia ha curato insieme a Caterina Raganella un’ampia scelta delle poesie di Fernanda Romagnoli, La folle tentazione dell’eterno (2022).
Nell’ambito della poesia giapponese ha allestito sei antologie:
- La saggezza dei maestri zen (Guanda 1994¹);
- Il muschio e la rugiada (Rizzoli 1996¹);
- due scelte dell’opera di Kikuo Takano: Secchio senza fondo (Fondazione Piazzolla 1999) e Nel cielo alto (Mondadori 2003);
- La nuca di Maitreya di Makiko Kasuga (Moretti & Vitali 2011);
- Cinquanta foglie. Tanka giapponesi e italiani in dialogo (Moretti & Vitali 2016).
Il 12 aprile 2017 ha ricevuto presso il Gabinetto Viesseux di Firenze il premio “Montale Fuori di casa” per la critica letteraria e la saggistica.
BIBLIOGRAFIA SCELTA DEGLI SCRITTI sull’opera critico-saggistica e narrativa di Paolo Lagazzi:
Tra gli articoli sparsi:
- Giorgio Manacorda, Epico e lirico: un poeta centauro, “Repubblica” (“Mercurio”), 23 febbraio 1991.
- Giorgio Cusatelli, Il tempo imprendibile, “Gazzetta di Parma”, 5 marzo 1991.
- Stefano Lecchini, Per un ritratto dell’interprete, ibidem.
- Giancarlo Pontiggia, Bertolucci, i suoni della vita in una casa di campagna, “Avvenire”, 14 aprile 1991.
- Maurizio Cucchi, Al fuoco di Bertolucci, “Il Giornale”, 26 maggio 1991.
- Pier Luigi Bacchini, Il suono di una sola mano. Chiose, nèumi e candele nel commento di Paolo Lagazzi alle poesie di Attilio Bertolucci, “Verso” n.6, giugno 1991.
- Giancarlo Pontiggia, “Al fuoco calmo dei giorni di Attilio Bertolucci”, “Poesia” n.41, giugno 1991.
- Donatella Bisutti, Per studiare il nostro ’900, “Millelibri” n.44, luglio-agosto 1991.
- Peter Hainsworth, Montale and after, “TLS” (“Times Literary Supplement”) n. 4618, 4 ottobre 1991.
- Roberto Barbolini, Vietato guardare, “Panorama”, 31 gennaio 1993.
- Enzo Siciliano, Storie di coppie e destini incrociati, “Corriere della Sera”, 8 marzo 1993.
- Vincenzo Pardini, Il «mistero» Silvio D’Arzo, “La Nazione”, 9 marzo 1993.
- Oreste Macrì, D’Arzo rivisitato, “Gazzetta di Parma”, 12 marzo 1993.
- Pasquale Maffeo, D’Arzo, i percorsi della solitudine, “Avvenire”, 3 aprile 1993.
- Daniela Attanasio, Indagine su tre poeti, “Leggere” n.53, 1993.
- Emilio Zucchi, Sciabolate di luce, “Gazzetta di Parma”, 7 maggio 1993.
- Leopoldo Carra, La lingua innamorata. E la poesia vi trova corpo, ibidem.
- Marzio Dall’Acqua, A prova di postero. Le preziose carte affidate a Lagazzi, ibidem.
- Doriano Fasoli, Poesia da camera, “Il Manifesto”, 19 giugno 1993.
- Donatella Bisutti, LETTURE DI POESIA, “Millelibri” n.66, luglio-agosto 1993.
- Giancarlo Pontiggia, “Paolo Lagazzi, Rêverie e destino”, “Poesia”, novembre 1993.
- Idolina Landolfi, Tandem D’Arzo-Lagazzi, “Il Ponte”, a. XLIX n.12, dicembre 1993.
- Angelo Lacchini, “Paolo Lagazzi, Rêverie e destino”, “Otto / Novecento” n. 2, 1994.
- Paolo Mauri, La bottega del mago, “Repubblica”, 10 maggio 1994.
- Roberto Barbolini, Scrittori come stregoni, “La Voce”, 21 maggio 1994.
- Idolina Landolfi, “Paolo Lagazzi, Per un ritratto dello scrittore da mago”, “Michelangelo” a.XXIII, n.2, aprile-giugno 1994.
- Marco Belpoliti, I ficcanaso della letteratura nel gioco di prestigio delle parole, “Il Manifesto”, 20 ottobre 1994.
- Giovanni Maccari, “Paolo Lagazzi, Comparoni e «l’altro»”, “La Rassegna della Letteratura Italiana”, settembre-dicembre 1994.
- Beppe Sebaste, Segni di luce. I versi e la grafica dello Zen, “Gazzetta di Parma”, 15 dicembre 1994.
- Massimo Onofri, Variazioni sul tema. La giovane critica, “L’Indice” n.1, gennaio 1995.
- Gualtiero De Santi, Nel pulviscolo della poesia, “Hortus” n.17, I semestre 1995.
- Alessandro Zaccuri, Lettore, questo verso è come un rock, “Avvenire”, 5 febbraio 1995.
- Paolo Ruffilli, La poesia italiana? Sempre più vitale nonostante l’ostracismo dei media, “Il Resto del Carlino”, 20 maggio 1995.
- Giancarlo Pontiggia, Una strana polvere. Altre voci per i nostri anni, “Poesia” n.86, luglio-agosto 1995.
- Idolina Landolfi, Officina parmigiana, “IBC” n.4-5, luglio-ottobre 1995.
- Stefano Lecchini, Parole come ali. Danzando sulla musica del Karma, “Gazzetta di Parma”, 10 maggio 1996.
- Giancarlo Pontiggia, Basho, le parole della luce, “Avvenire”, 18 maggio 1996.
- Ronchey & Scaraffia, Il muschio e la rugiada, “Panorama”, 18 luglio 1996.
- Gianni Riotta, Il muschio e la rugiada, “Io Donna” (“Corriere della Sera”), 20 luglio 1996.
- Luigi Reina, Il muschio e la rugiada, “Poiesis”, settembre-dicembre 1996.
- Emilio Zucchi, Il muschio e la rugiada, “Poesia” a.X n.103, febbraio 1997.
- Pier Luigi Bacchini, Il mistero e la lucertola. Come i ricordi possono diventare stimolo per il futuro, “Gazzetta di Parma”, 1 aprile 1997.
- Mario Andrea Rigoni, Bertolucci, autoritratto di un padano cosmopolita, “Corriere della Sera”, 19 aprile 1997.
- Pietro Citati, Poemi d’amore e ombra, “Repubblica”, 23 aprile 1997.
- Massimo Onofri, Due chiacchiere sull’Italia con Attilio Bertolucci, “L’Unità”, 10 agosto 1997.
- Bruno Quaranta, Bertolucci, la sera dei ricordi, “Tuttolibri”, 21 agosto 1997.
- Stefano Crespi, Conversazioni - L’esprit di Bertolucci, “Sole-24 Ore”, 7 settembre 1997.
- Franco Loi, La luce del Kami per ideogrammi, “Sole-24 Ore”, 5 ottobre 1997.
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- Stefano Lecchini, La luce, l’incanto. Paolo Lagazzi, la critica come magia, “Gazzetta di Parma”, 29 maggio 2000.
- Enzo Siciliano, Che male c’è se il critico è un po’ new age, “L’Espresso”, 17 agosto 2000.
- Giancarlo Pontiggia, “Paolo Lagazzi, Dentro il pensiero del mondo”, “Poesia” n.142, settembre 2000.
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- Franco Loi, Lo zen e l’arte dei sogni, “Sole-24 Ore”, 25 febbraio 2001.
- Umberto Piersanti, Paolo Lagazzi e la critica oggi, “Pelagos”, a. VI, n, 7/8, 2001/2002.
- Alberto Bertoni, Paolo Lagazzi lettore “dentro il pensiero del mondo”, ibidem.
- Salvatore Ritrovato, Il pensiero della poesia, ibidem.
- Leopoldo Carra, La critica contemporanea. Intorno a “Dentro il pensiero del mondo” di Paolo Lagazzi, ibidem.
- Paolo Ruffilli, Tutto Citati in un Meridiano curato da Paolo Lagazzi, “Il Resto del Carlino”, 5 ottobre 2005.
- Claudio Toscani, Tra Spirito, storia e quotidiano, “L’Osservatore Romano”, 17 dicembre 2005.
- Leopoldo Carra, Ristampa – “Per un ritratto dello scrittore da mago” di Paolo Lagazzi, “Diario” n.37/38, 29 settembre 2006.
- Flavia Giacomazzi, Elogio del saltimbanco, “Stilos”, 21 novembre 2006.
- Daniele Piccini, E come si diventa lettori?, “Famiglia Cristiana”, 7 maggio 2007.
- Giancarlo Pontiggia, Ricordo ancora, quando, “Pelagos” n.11, settembre 2007.
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- Giancarlo Pontiggia, Lagazzi racconta le estati con il poeta Bertolucci, “Avvenire”, 31 maggio 2008.
- Roberto Galaverni, «LA CASA DEL POETA»: IL BERTOLUCCI DI PAOLO LAGAZZI. Le extrasistoli di Casarola, “Alias” n.23, 7 giugno 2008.
- Maurizio Cucchi, Bertolucci e Rebora insegnano, “Tuttolibri”, 14 giugno 2008.
- Paolo Ruffilli, LA CASA DEL POETA DI PAOLO LAGAZZI, “Il Quotidiano”, 12 luglio 2008.
- Bianca Garavelli, Gli spazi e le storie delle belle lettere, “Avvenire”, 23 luglio 2008.
- Enzo Golino, Il caminetto di Attilio, “L’Espresso”, 13 agosto 2008.
- Nicola Crocetti, EMOZIONI IN VERSI, “Monsieur”, settembre 2008.
- Rosita Copioli, “Paolo Lagazzi, La casa del poeta”, “Poesia e Spiritualità”, a.I n.2, novembre 2008.
- Vivian Lamarque, LA CASA DEL POETA di Paolo Lagazzi, “Io Donna” (“Corriere della Sera”), 20 dicembre 2008.
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- Maria Luisa Spaziani, La casa del poeta sull’Appennino, “Corriere della Sera”, 12 gennaio 2009.
- Luigi Fontanella, Paolo Lagazzi “nella casa” di Bertolucci, “America Oggi”, 3 gennaio 2010.
- Giorgio De Rienzo, Paolo Lagazzi: la bizzarria dei racconti notturni sussurrati dal dio Ermes, “Corriere Dalla Sera”, 26 giugno 2011.
- Pietro Citati, Gli dèi greci abitano il romanzo moderno, “Corriere della Sera”, 17 luglio 2011.
- Massimo Onofri, Il prestigiatore Lagazzi e la “magia” della letteratura, “Avvenire”, 9 luglio 2011.
- Paolo Ruffilli, I racconti di Paolo Lagazzi, “Il Quotidiano”, 26 agosto 2011.
- Luigi Fontanella, Lagazzi fa il verso a Hitchcock e Capra, “America Oggi”, 16 ottobre 2011.
- Romano Costa, Paolo Lagazzi, Hermes con humour, “Alias”, 29 ottobre 2011.
- Raoul Bruni, Sotto le ali di Ermes, “L’Indice”, dicembre 2011.
- Donatella Bisutti, “Paolo Lagazzi, Nessuna telefonata sfugge al cielo”, “Atelier” n.64, dicembre 2011.
- Stefano Lecchini, “Paolo Lagazzi, Otto piccoli inchini”, “Poesia” n.268, febbraio 2012.
- Elena Salibra, “Paolo Lagazzi, Le lucciole nella bottiglia. Il mondo di Umberto Piersanti”, “Soglie” a. XIV n.2, agosto 2012.
- Alessandro Moscè. Rime, ambiente e magia di Umberto Piersanti, “Corriere Adriatico”, 20 ottobre 2012 (poi in “Atelier” n. 68, dicembre 2012).
- Davide Barilli, Lagazzi, un critico letterario a colloquio con l’uovo di Colombo, “Gazzetta di Parma”, 29 dicembre 2012.
- Stefano Lecchini, Tokyo, nel cuore della grazia, “Gazzetta di Parma”, 12 dicembre 2014.
- Bianca Garavelli, Lagazzi e la poesia, una luce che resiste a ogni stanchezza, “Avvenire”, 16 gennaio 2015.
- Marco Ostoni, Segnalibro [su Paolo Lagazzi, La stanchezza del mondo], “Corriere della Sera”, 2 febbraio 2015.
-Luigi Fontanella, “Light stone”, ovvero il “quasi amore” di Paolo Lagazzi, “America Oggi”, 5 luglio 2015.
- Alessandro Moscè, Paolo Lagazzi e la riconoscibilità di un’amicizia reale e fantastica, “L’Azione”, 18 luglio 2015.
- Carla Stroppa, Un vecchio violinista travolto dal fascino di una fanciulla rapitrice dell’anima, “QuiLibri”n.30, luglio-agosto 2015.
- Renato Minore, Paolo Lagazzi, “Light stone”: il musicista e la sua geisha, un amore impossibile, “Il Messaggero”, 28 agosto 2015.
- Adele Desideri, Il tormentato errare di un cacciatore di suoni. A proposito di “Light stone” di Paolo Lagazzi, “Gradiva” n.48, Fall 2015.
- Sauro Damiani, “Paolo Lagazzi, La stanchezza del mondo e Light stone”, “Soglie”, a.XVII n.3, dicembre 2015.
- Michele Brancale, Come si finisce per strada? La fragilità di Francesco lo spiega, “La Nazione”, 7 gennaio 2016.
- Enzo Rega, Il viaggio inquieto di chiunque, “clanDestino”, 6 marzo 2016.
- Michele Brancale, Lagazzi, la strada della vulnerabilità, “IL GIORNO”, “Il Resto del Carlino” e “La Nazione”, 16 aprile 2016.
- Ugo Piscopo, Lagazzi e i richiami dell’Oriente, “Il Quotidiano del Sud”, 20 giugno 2016.
- Ugo Piscopo, “Paolo Lagazzi, Cinquanta foglie”, “Gradiva” n.51, Spring 2017.
- Isabella Spagnoli, Lagazzi, famiglia tra arte e scrittura. – Dani, Vivi e Paolo: tanka, disegni e racconti surreali, “Gazzetta di Parma”, 1 agosto 2017.
- Davide Rondoni, Se il critico sente il cuore della poesia, “Avvenire”, 2 agosto 2018.
- Stefano Lecchini, “Paolo Lagazzi, Come ascoltassi il battito d’un cuore. Incontri nel cammino di Attilio”, “Blow Up” n.244, settembre 2018.
- Gabriella Sica, “Paolo Lagazzi, Come ascoltassi il battito d’un cuore. Incontri nel cammino di Attilio”, “Poesia” n.346, marzo 2019.
- Roberto Caracci, Il fascino magico e alchemico di Pietro Citati. L’omaggio di Paolo Lagazzi al più ammaliante dei critici italiani, “QuiLibri” n.53, maggio/giugno 2019.
- Rosita Copioli, Lagazzi e Citati, la critica come innamoramento, “Avvenire”, 22 agosto 2019.
- Giuliano Ladolfi, Paolo Lagazzi: tre modi di fare i critici oggi, “Atelier” n. 97, marzo 2020.
- Davide Brullo, Paolo Lagazzi, ovvero: la critica come illusionismo e il critico in forma di sciamano. ibidem.
- Gian Ruggero Manzoni, Contro il tempo, ibidem.
- Giancarlo Pontiggia, Piccolo omaggio a Paolo Lagazzi, ibidem.
- Paolo Ruffilli, Le riserve impreviste della poesia, ibidem.
- Pasquale Di Palmo, Leggerezza ed empatia in tre libri di Paolo Lagazzi, “Gradiva” n.57, 2020.
- Giorgio Amitrano, A ovest dello Zen. Prelievi da un’intrepida laggerezza, “Alias”, 12 aprile 2020.
- Alessandro Zaccuri, Il dialetto universale di Paolo Bertolani, “Avvenire”, 28 agosto 2020.
- Stefano Lecchini, “Paolo Lagazzi, Quella ricchezza detta povertà”, “Blow Up” n.268, settembre 2020.
- Bianca Garavelli, Il mistero dell’isola senza nome, “Avvenire”, 14 maggio 2021.
- Stefano Lecchini, “Lagazzi e Tomerini, L’isola della colpa”, Blow Up”, aprile 2021.
- Roberto Galaverni, Invece lei è stanca di essere pura, “Corriere della Sera”, 1 maggio 2022.
- Nadia Scappini, L’eterno ci tenta, “Vita Trentina”, 10 luglio 2022.
- Roberto Mussapi, Visioni di Hermes. Leggero, non frivolo, “Avvenire”, 18 aprile 2023.
- Camillo Bacchini, Paolo Lagazzi. Letteratura, intimo sortilegio dell’anima, “Gazzetta di Parma”, 18 aprile 2023.
- Giuseppe Conte, Messaggero, veloce e anticonformista. L’inafferrabile Mercurio è la divinità perfetta per la nostra epoca, “Il Giornale”, 28 maggio 2023.
In volume:
- Eraldo Affinati, La critica darziana, in AA.VV., Silvio D’Arzo. Lo scrittore e la sua ombra, Vallecchi, Firenze 1984, pp. 81-84.
- Massimo Onofri, Ingrati maestri. Discorso sulla critica da Croce ai contemporanei, Theoria, Roma-Napoli 1995, pp. 165-166.
- Jean-Pierre Jossua, La passione dell’Infinito nella letteratura, Argo Edizioni, Ragusa 2005, pp. 157-170, passim.
- Valerio Magrelli, Prefazione a Paolo Lagazzi, Per un ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, Reggio Emilia 1994.
- Emanuele Trevi, Il Tao della critica, prefazione a Paolo Lagazzi, Per un ritratto dello scrittore da mago, Moretti & Vitali, Bergamo 2006.
- Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporanei, Bompiani, Milano, 2007, pp. 234–235.
- Massimo Onofri, Recensire. Istruzioni per l’uso, Donzelli editore, Roma 2008, pp. 85-86.
- Bernardo Bertolucci, Con Paolo L, prefazione a Paolo Lagazzi, La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci, Garzanti, Milano 2008, poi in La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), Garzanti, Milano 2010, pp. 137–139.
- Gabriella Palli Baroni, Realtà dei luoghi e poesia: Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi, in AA.VV., Patrie poetiche. I luoghi della poesia contemporanea, a cura di Elisabetta Pigliapoco, peQuod, Ancona 2010, pp. 140-144.
- Roberto Caracci, Per una liberazione delle linfe mercuriali della critica. La proposta citatiana di Paolo Lagazzi, in Epifanie del quotidiano, Moretti & Vitali, Bergamo 2010, pp. 183-187.
- Alessandro Moscè, Paolo Lagazzi e la dimora di Bertolucci, in Galleria del millennio. Viaggi letterari 2004-2014, Raffaelli Editore, Rimini 2016, pp.30-31.
- Carla Stroppa, Light stone, in Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pp.233-243.