“Il mondo è rotondo.
Il mondo è un seno.”
Lorenza Pieri, Volevo un regno più grande. Niki de Saint Phalle, Electa 2024
La casa editrice Electa ci offre un nuovo prezioso dono nella sua collana “Oilà”, vero cibo per la mente attraverso la vita di donne importanti nella cultura mondiale. Fra le ultime uscite questo Volevo un regno più grande di Lorenza Pieri sulle più rinascite itineranti di Niki de Saint Phalle. Più che una biografia in senso stretto, il piccolo e interessante volume ci propone la vivace ricostruzione di un’esistenza, percorrendo in lungo e in largo luoghi-persone-disordini-destino-arte. In definitiva, una scorribanda esemplare fra vecchio e nuovo mondo tanto geograficamente quanto per scelte e visioni multiple. Ne emerge a tutto tondo la figura della donna e dell’artista che Niki ha voluto incarnare, una ricerca costante nello sconfinamento di qualsivoglia regola. Donna inquieta e carismatica, rampolla di una famiglia dell’alta borghesia, de Saint Phalle ha saputo tradurre il trauma personale (l’abuso da parte del padre durante “l’estate dei serpenti”) in arte, non come terapia ma come vera e propria trasformazione alchemica. In questo, ha percorso un’altra direzione dallo stigma vulgato che accompagna tanta produzione artistica al femminile. Quanto ha scritto a mano sulle scale all’ingresso del suo incantato Giardino dei Tarocchi è senza dubbio indicazione riassuntiva per comprendere il suo intero percorso : “Se la vita è un gioco di carte noi nasciamo senza conoscerne le regole. Nonostante questo, tutti dobbiamo giocare la nostra mano”. Niki prenderà sempre decisioni forti, sia come moglie-madre sia come artista, mettendosi in gioco a qualsiasi costo e anche i frequenti problemi di salute fisica o mentale non ostacoleranno mai il suo continuo work in progress. Nasce così un universo fatto di colori senza compromessi, di rotondità ancestrali, di quadri bersaglio, di sculture gigantesche e di ‘corpo-casa’, di libri in forma di diario con disegni e parole intorno, di 22 arcani maggiori per la sua “autobiografia astrale”… e via di seguito in una concatenazione di progetti immaginifici. Lei, unica donna nella corrente del “Nouveaux realisme”, non semplice musa piuttosto artista a tutto tondo, eppure spesso contestata dalle femministe del periodo perché collegata e relegata al modello di femme fatale, eccessiva la sua seducente eleganza e troppi i suoi amanti. Niki è stata indubbiamente una pioniera per molti comportamenti e attitudini, in virtù del suo caratteriale spirito guerriero e forse per questo scomoda. Lo testimonia la sua arte, sempre equivalente a coinvolgimento e atto liberatorio, lo testimoniano i suoi incontri e relazioni, primo fra tutti quello con Jean Tinguely che formerà con lei una coppia di inarrestabili enfants terribles. Amore e squilibrio sono le cifre ricorrenti per una vera esploratrice di orizzonti colmi di possibilità, fino alla connessione con altri linguaggi artistici, lo documentano le numerose e feconde incursioni nel mondo del cinema, del teatro, della danza. Ecco che questo libro di Lorenza Pieri restituisce, con le sue bellezze e tutte le sue contraddizioni, un viaggio esistenziale ancora oggi ricco di suggestive riflessioni.
Elisabetta Beneforti
JEAN ARTHUR RAGAZZO
Arthur Rimbaud, I piedi nei gladioli, traduzione e cura di Giuseppe Conte, Ponte alle Grazie, 2020
“...è stato un ragazzo, nulla più che un ragazzo, a prendere il mondo per la collottola (…) quel ragazzo diciassettenne dai capelli d'oro e dagli occhi blu pervinca. A bas les vieillards! Tout est pourri ici “, chiosa Henry Miller nel suo Il tempo degli assassini. Del grande poeta francese rimasto per sempre un ragazzo, liquidata precocemente la letteratura per dubbi mercati oltremare, Giuseppe Conte traduce la presente scelta di testi. Non è davvero un caso che le poesie siano datate 1870 e immediati dintorni, dunque all'inizio del percorso artistico destinato a rifondare la Poesia, compreso Le bateau ivre con cui si presentò a Verlaine e che innescò un'oscillante relazione sentimentale e intellettuale. Chiude il volumetto L'éternité del 1872, sulla soglia dell'ultima e definitiva produzione con Una stagione all'inferno e Le Illuminazioni. La parabola del poeta come l'inventario della sua estetica sono già meravigliosamente racchiusi qui. Vagabondaggi e visioni, deragliamento dei sensi, ribaltamento delle strutture elementari e complesse del verso... Dopo queste scritture niente sarà più lo stesso in poesia e ancora oggi non si può che fare i conti con tanta ricerca. Possiamo anche aggiungere che proprio oggi, in tempi non sospetti di stesure poetiche spesso tanto ripetitive quanto manierate, ci aspetteremmo volentieri un novello Rimbaud che agiti le acque: dobbiamo essere assolutamente moderni, scriverà in Adieu.
Intanto Giuseppe Conte propone una versione rinnovata di queste poesie, vorremmo dire 'giovanili', una traduzione 'da poeta a poeta' nel solco della migliore tradizione italiana - pensiamo a Caproni, a Sereni, ad altre voci importanti del nostro '900. Conte ha il grande merito di restituire 'leggerezza' alle parole di Rimbaud, come anche una necessaria ariosità ahimé perduta in anni di barocche trasposizioni. Niente da fare, il passaggio linguistico del testo poetico è affare di poeti e non del 'mestiere'. Risiede proprio qui il grande pregio di questa collana di Ponte alle Grazie, inaugurata solo nel 2019 e già con diversi titoli all'attivo, tutti con traduttori d'eccezione : da Pontiggia a Zaffarano, da Biagini a Pugno, solo per citarne alcuni. Con la scelta per autori 'classici', la casa editrice fiorentina regala versioni nuove di voci irrinunciabili in una veste grafica curata, invitante tanto per il formato che per la copertina.
I piedi nei gladioli, dorme. Sorridendo come
sorriderebbe un bambino malato, fa un sonno:
Natura, cullalo caldamente : ha freddo.
I profumi non fanno fremere le sue narici.
Dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due fori rossi sul fianco destro.
Elisabetta Beneforti
Il condominio della ‘poesia’.
Alessandro Canzian, Il Condominio S.I.M., Stampa 2009, 2020.
Luigi Oldani
Questo libro del poeta ed editore Alessandro Canzian ci presenta un condominio luogo di vite, di tipi umani e se vogliamo estendere e creare una correlazione, tutti i poeti che conosce con cui ha relazione non sono forse un grande condominio…nel condominio ancora più grande della vita, del tutto…
Ho letto il libro in un fiato, per poi ritornarci sopra diverse volte, un testo poetico che offre anche una forte affabulazione, un racconto che si vorrebbe non terminasse, tanto sono avvincenti questi testi. Le varie persone che vi abitano sono presentate grazie a delle intuizioni, a dei particolari del loro muoversi o parlare, a dei rumori che producono, a come si vestono, a come sfuggono ad una conoscenza.
I testi mi hanno molto colpito, malgrado il tema non sia spensierato, per la loro leggerezza, penso al concetto che esprimeva bene Italo Calvino affermando che è qualità che può esprimere chi non ha macigni nel cuore ed è proprio questo che subito questi versi trasmettono: leggerezza appunto. Canzian infatti non vuole esprimere giudizi, imporre punti di vista o elucubrazioni mentali egotiche tanto care a molta poesia, qui si tratta di uno sguardo profondo del presente con occhi e cuore del poeta che si fa, che diventa ciò che osserva.
E tutto ciò mi piace molto perché è una chiara posizione non solo poetica in un mondo il nostro che ha difficoltà a osservare a comprendere gli altri, questo rivolgersi con ‘modestia’ e anzi in definitiva cercando bellezza (la poesia) nella vita difficile di ognuno di noi, del condominio, perché in effetti ognuno di noi può essere a pieno titolo un abitante di questo condominio.
E infatti questa descrizione ( ma sappiamo che è molto di più) degli abitanti ha la maestria di un tocco quasi magico, atto a inverare una sensibilità che sa farsi dono notevole e svelarsi solo nel rappresentare questa quotidianità.
Con alcuni tratti che riportano a questo grigiore quotidiano Canzian la illumina la vita dando dignità, in un certo senso a quel dolore quasi inespresso quasi incosciente.
“Non conosco la ragazza
di nome Olga, ma la penso.”
“Olga la sera investe
Tutta se stessa in un divano”
Le persone vengono così descritte con pennellate che mettono in evidenza quel sentore di routine della vita in cui la patina del tempo che passa trasforma tutto lasciandolo ‘uguale’, facendo della vita un piccolo momento nella grandezza dell’universo, un’ incapacità a superare quanto blocca l’umana esistenza in una tristezza che solo la bellezza-poesia potrebbero riscattare, muovere alla felicità che sta già lì, anche nei giorni grigi-noi ciechi a non vedere.
Molto ben architettata ‘la forma poetica’ che a seconda delle caratteristiche del soggetto descritto attua pause, rimandi, suspence che spesso si avvalgono di sapienti enjambement e anche di parole azeccatissime e ben calibrate, ma mai si arriva una retorica affettata o consolatoria, si rimane sempre in un ambito di espressione moderata al fine di mantenere uniforme un’ atmosfera modesta che riesce comunque a creare un pathos costante e avvolgente.
Carlo sono giorni che
non fa la doccia. Lo vedo
uscire con gli stessi
pantaloni, lo steso odore, per
questo sua madre l’ha sgridato
al telefono dicendo
che è inutile attendere l’attesa.
Ci racconta potremmo dire ‘il qui e ora’ della vita senza pensieri ‘pesanti’, talvolta si affaccia una breve ‘riflessione’ per un quotidiano spurgato dagli orpelli che lo offuscano, ridotto al minimo, depurato da tutto ciò che potrebbe fuorviarne una lucida descrizione. Ed ecco il dolore, mai esploso, trattenuto semmai, ed è qui la capacità di Canzian nel raccontare con delicata sapienza la persona, o le persone che sono varianti dell’umana natura, nella loro resa umana del vivere la vita.
Canzian con la poesia scritta ci dice però che c’è un’ansa da cui può affluire la magia verso i nostri giorni malgrado tutto ed è la poesia-non solo scritta- che va coltivata in ogni vita.
EPPUR ANCORA I NESPOLI
Antonio Sacco, Eppur ancora i nespoli, dissertazioni sullo haiku, NullaDieNuovoAteneo, 2020.
Ho letto con molto interesse il nuovo libro di Antonio Sacco Eppur ancora i nespoli, è con piacere che scrivo qualche considerazione soprattutto da scrittore di haiku che ama profondamente questo genere, sarò breve, non potrei fare altrimenti.
Questo testo si presenta assai composito, al suo interno troviamo una parte dedicata alla poesia/haiku, un’altra direi quasi didattica e un’ultima che presenta un genere, lo haibun che sviluppa uno speciale rapporto di armonia e di significati tra poesia e prosa.
Sacco è studioso e scrittore e il libro offre un’opportunità per conoscere al meglio il suo percorso tenendo ben presente questi due punti cardine.
Credo prima di tutto sia evidente che l’autore ha molto a cuore la diffusione del genere haiku e più in generale della poesia giapponese, questo intento risulta anche utile a far chiarezza rispetto ai tanti fraintendimenti a cui il genere è ancora soggetto. Si sono così creati spesso testi che non sono haiku, ma mere descrizioni della natura, o copie di ciò che si era letto e con superficialità si è cercato di emulare. Malgrado ciò oggi si possono trovare in occidente buoni scrittori di haiku, ma credo che una non chiarezza di base sia comunque rimasta, infatti questa poesia rimane, soprattutto in Italia, ancora non diffusa o male interpretata nonché considerata. La sua storia è complicata come la stessa scrittura, l’haiku dall’apparenza semplice è il risultato invece di un lavoro spirituale profondo e di composizione molto complesso. Penso che questa forma poetica di derivazione giapponese possa fare parte a pieno titolo della poesia occidentale, ogni scrittore porta se stesso e la propria cultura e dunque se si scrivono haiku lo si fa trasferendo in essi il nostro sentire accanto a quello verso l’oriente, in una profonda armonia. Deve però avvenire un cambiamento di ‘prospettiva’ spirituale, una sorta di assimilazione anche di quella per lo più Zen, Buddhista, ovviamente senza l’obbligo di divenire dei praticanti. Tutto ciò credo sia essenziale per far nascere haiku di un certo livello, accanto poi alla capacità artistica individuale.
Ecco perché diventa più che apprezzabile un lavoro di diffusione culturale che però deve tenere ben presente, come fa questo libro di Sacco, che lo haiku è una Via molto speciale, con determinati caratteri e peculiarità, altrimenti, lo affermo con decisione, si fa altro. Dunque ‘haiku occidentali’ ma con una comprensione dell’esistente che non può rinunciare alla conoscenza e alla ‘pratica’ dell’oriente spirituale.
Sacco nella parte dedicata ai saggi sa spiegare molto bene alcuni esempi o tentavi di molti poeti alle prese con questo genere, la sua evoluzione e soprattutto come orientarsi, come imparare a leggerlo e ‘partecipare’ da lettore alla sua ‘realizzazione’, come predisporre il nostro animo alla ricezione di un tale particolare scritto che ripeto solo apparentemente offre un grado alto di intelligibilità.
Non dimenticherei inoltre come spesso si afferma in oriente che solo ‘cuore e mente puri’ possono far sgorgare con estrema semplicità e spontaneità l’arte.
Per quanto riguarda la parte dedicata alla poesia Sacco ha deciso di accompagnare a ciascun haiku un commento, una sorta di invito per una maggiore comprensione, anche se questi haiku con la loro forza di allusioni, rimandi, significati, sanno esprimersi anche ‘da soli’.
Ho molto apprezzato questi testi riconoscendoli subito come portatori di una sottigliezza e raffinatezza nell’esprimere qualcosa di ‘indicibile’, un approccio contemplativo che sa vedere ogni movimento della complessità della Vita. Molti di loro sanno inoltre esprimere bene il concetto di impermanenza, molto caro allo Zen e basilare per una buona riuscita degli haiku. Essi affrontano varie situazioni e tematiche, alcuni possono sembrare più classici, con un filo rosso che li riconduce quasi direttamente a una cultura orientale, altri affrontano e trasmettono un sentore più occidentale e talvolta situazioni quotidiane dei nostri giorni, ma nessuno di essi scade a semplice descrizione o a un giochetto naturalistico e ‘romantico’.
Sacco conosce molto bene l’aspetto formale degli haiku, le varie caratteristiche che ne fanno arte raffinata, pregna di leggerezza, che apre a una conoscenza della Vita, al ‘vuoto’ Zen.
Ben reso è un aspetto che amo particolarmente e che è essenziale e difficilissimo, il Kireji, che produce una cesura, il salto che porta l’haiku in un oltre che se può apparire comprensibile tanto spazio lascia al mistero, alla magia dell’universo e… alla capacità del lettore.
Come non ricordare alcuni haiku che mi sono piaciuti particolarmente, ma non i soli.
andare via –
anche il pruno saluto
i propri petali
cerca equilibrio
la punta di un cipresso -
calura estiva
pioggia d’inverno
sopra ogni ago del pino
brilla una goccia
una libellula:
nelle sue ali un lampo
d’arcobaleno
falce di luna:
ricordi passati di campi
appena mietuti.
sboccia il pesco
mentre compongo versi
piccolissimi
Trovo quest’ultimo haiku particolarmente bello, di una leggerezza totale, aperto a un invito di conoscenza che però è e deve rimanere modesto, di una modestia ‘profonda’, un auspicio per tutti coloro che scrivono haiku.
Luigi Oldani
“Il nostro desiderio di diventare rondini”- Poesie e lettere di Attilio e Ninetta Bertolucci, a cura di Gabriella Palli Baroni (Garzanti Editore, 2020) racconta l’incanto intimista della dimensione sentimentale senza confini, in ogni gentile e tenue sfumatura, attraverso la rappresentazione lirica di luoghi, ambienti e ricordi abituali e la descrizione spontanea di un’elegia degli interni intorno a domestiche e familiari rivisitazioni romantiche. I testi, composti dalle poesie e dalle lettere che hanno congiunto costantemente l’alleanza emotiva dei protagonisti nel miracolo dell’amore e nella solennità della poesia, manifestano la partecipazione appassionata alla bellezza, leggera e sensuale delle dichiarazioni d’amore. La consapevole riconoscenza di un’infinita confidenza di complicità, celebra la lealtà della memoria nell’esperienza sensibile della tenerezza. Le parole, patrimonio dell’anima, concedono la percezione di un tempo ulteriore nell’esistenza, evocano l’idea di una vita prolungata, nella compiacenza felice di narrarsi il mondo interiore con l’intento comune di divulgare l’eternità. Il libro promuove gelosamente il consenso a custodire la sorgente degli affetti e a proteggere la relazione con la realtà. Le poesie di Attilio Bertolucci dischiudono i periferici collegamenti degli orizzonti e sconfinano nell’armonia medianica della voce interpretativa e dello sguardo narrativo. Il riassunto artistico, dolce e temerario della vita si intreccia al vincolo del possesso biografico accompagnando la fiduciosa empatia del filo di continuità, la somma amplificata di ogni eloquente promessa sostenuta da impronte invisibili nelle emozioni d’amore, nella generosità del desiderio. L’affabilità amorosa che unisce Attilio e Ninetta Bertolucci nelle lettere, congiunge l’elemento distintivo della stabilità, scrivendo e fermando su carta la sintonia emotiva, con un’accordo d’intesa verso un tragitto privato di crescita umana e spirituale, un’unione solida e resistente in cui la conoscenza reciproca del rispetto sostiene sempre la pienezza esistenziale e mantiene la sensibile espressione dell’accoglienza e della presenza benevola della quotidianità. Il libro è un ideale tangibile di donazione alla soave amorevolezza, nella virtù necessaria ad esaltare la dedizione di chi amiamo e a riconoscere la solidarietà. La speranza nutre la grazie reciproca di ogni comunicazione leggendo, nella prospettiva dei sogni e nella gioia di vivere, la tendenza della volontà ad aggiungere forza comprensiva nella storia e a raggiungere il privilegio naturale di condividere il tempo, sostenendolo a vicenda. La disponibilità alla progettualità nell’unione è l’esortazione principale del libro ed invita ad un impegno verso l’essenziale, dolce e magica percezione del mondo affettivo. Il titolo del libro “Il nostro desiderio di diventare rondini”, preso da una lettera scritta da Attilio a Ninetta, è metafora e simbolo dell’amore coniugale, un aspetto segreto della semplicità e della saggezza, strettamente legato alla predilezione per un atteggiamento capace di riconoscere la purezza del corteggiamento. Il rinnovamento dello spirito libero che incrocia l’anima incoraggiando l’impulso al viaggio da compiere insieme abbracciando l’unicità di volersi bene.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Amore a me...
Amore a me vicino
di tua crudeltà mi consola,
fuori è notte e cade
una dolce pioggia improvvisa.
La famigliare lampada rivela
le intime e care cose,
amore parla e parla di te
sommesso, come acqua fra erbe alte.
Madrigale
Sì: ho colto i garofani alteri
delle tue guance,
e avevano corolle sì rance
con sì bizzarri screzi neri...
Ma sotto i tuoi occhi
son cresciute viole,
come di marzo al primo sole,
sulle rive dei fossi.
La rosa bianca
Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent’anni,
un po’ smemorata, come tu sarai allora.
Questa sera il sole...
Questa sera il sole tramonta nei tuoi occhi
l’inverno vi si spegne, lenta brace tranquilla.
Così la gente indugia per le strade che l’ombra
non ha toccato ancora, ma il fumo appena
da umili camini intimamente annuvola.
Tu lascia che ristagni sulle case ed offuschi
i lontani del cielo che scolora.
Finché un’altra pena
porti la notte, vigilia della primavera.
L’amore coniugale
Ma se la pioggia cade
la camera s’oscura...
L’amore ancora dura
che le gocce più rade
la finestra più chiara
i tuoi occhi più neri
e oggi come ieri
come domani. Amara
sui tetti umidi brilla
la giornata nel sole
che si volge sulle viole
risorte stilla a stilla.
Non
Non mi lasciare solo se io
ti lascio sola
e intorno a te la luce
è quella che fa piangere
dei giorni ordinari,
non allontanarti con passo
fiducioso in direzione
dell’estate e non
considerare rassegnata
la fatalità delle averse e del sole,
non acquistare viole in prossimità della casa.
I nostri corpi
I nostri corpi, cara, in questo letto
famigliare nell’aria ferma dell’amore
mentre al di là delle finestre chiuse
le stagioni piangendo se ne vanno.
Ma il ritorno dei cieli nuvolosi
e fioriti della tarda primavera
ombrerà i muri la luna errando
sperse lucciole sulle nostre salme.
Cercherò la parola mare
per quante volte l’ho scritta
cercherò di non farmi dominare
dalla perversità della rima
o dalle immagini aperte.
Meglio la chiusa parola
che travesta il mistero
meglio celare il pensiero
di ciò che tocca a ciascuno.
Si concentra il dolore
là, dove il palmo finisce
e sul polso le vene si fanno
sottili meandri di delta
azzurri, quella parte di me
che si faceva tua.
Nel buio i tuoi occhi
falene,
falsi miraggi di cieli;
inganno
nei nostri nomi
impressi a fuoco
la certezza di un disegno stabilito.
Mi hai assegnato la notte
e per te hai preso i raggi,
la vittoria del giorno.
Simile alla fuga del capriolo incauto
è quella del cuore
per sottrarsi ai sortilegi dell’ombra.
Tu sei
dove nulla si perde del vissuto
e di vissuti diversi ti alimenti,
non nell’angusto spazio
delle case di pietra
al cui richiamo cedo talvolta
per trovarti,
ma nell’anima del mondo
con tutto ciò che è stato dato
di pollini, di suoni e di silenzi,
di tempeste e di quiete,
di tempi e mutamenti
come dono.
testi di Carla
Malerba tratti da Poesie Future, Puntoacapo edizioni.
La poesia di Carla Malerba ha una sua particolarità: si stende a ventaglio generando una musicalità interna che rende l’idea di un ampio respiro, e dà aria. Il linguaggio, piano e articolato, avvolge e penetra. . . Ne deriva la sensazione di una dolcezza inquieta, viva: essa pulsa e coinvolge, quasi il vissuto personale si trasformasse in una forma di comprensione del mondo. . .
Ma l’Autrice va oltre… apre alla prospettiva di una poesia in cui la mancanza si trasforma in fattore vitale, forza pur imperfetta: “Ecco ti trovo/ in questi scarti di attimi/ in questo mio imperfetto accudimento.”
. . .Ne consegue una linea poetica affascinante, in cui si alternano immagini limpide, di purezza assoluta: “simile alla fuga del capriolo incauto/ è quella del cuore/ per sottrarsi ai sortilegi dell’ombra”
(Dalla prefazione di Ivan Fedeli a Poesie future, Puntoacapo edizioni)
…quella dell’Autrice è un’abitudine alla poesia, un pensare in maniera poetica per poi salvare con sapiente maestria sulla carta questi suoi pensieri. . .
Non si potrebbero esprimere meglio certe immagini di giorni vissuti, certi colori dell’anima immobile di fronte a se stessa, consapevole dei propri limiti, ma anche de propri desideri e delle proprie ansietà di salvezza: “Tu sei/dove nulla si perde del vissuto/ e di vissuti diversi ti alimenti.”
(Dalla postfazione di Gemma Mondanelli a Poesie future, Puntoacapo edizioni)
Carla Malerba
Carla Malerba è nata in Africa Settentrionale, dal 1970 risiede in Italia. A Tripoli, sua città natale, ha frequentato il Liceo Scientifico Dante Alighieri e ha pubblicato i suoi primi versi su quotidiani locali.
Iscritta alla Facoltà di Lettere Moderne a Catania, deve interrompere gli studi a seguito di eventi politici legati al suo paese d’adozione. Si laurea nel 1986 presso l’Università degli studi di Siena con una tesi sulla poesia per l’infanzia. Ha insegnato Materie letterarie ad Arezzo, città nella quale vive tuttora.
Ha pubblicato: Luci e ombre. Arti Tipografiche Toscane, Cortona1999
Creatura d’acqua e di foglie. Ed. Calosci, Cortona 2001
Di terre straniere. Ed. La Vita Felice, Milano 2010
Vita di una donna. Ed. La Vita Felice, Milano 2015
Poesie future. Puntoacapo Editrice, giugno 2020
Alcune sue liriche sono presenti:
-nell’antologia Novecento non più-Verso il Realismo terminale (premessa di Guido Oldani, La Vita Felice 2016)
-nei gruppi letterari Pioggia obliqua-Scritture d’arte, in Fiordalisi-Menti Sommerse, in Tanti pensieri.
Ha ricevuto riconoscimenti per la poesia inedita in alcuni concorsi nazionali.
Laura Garavaglia, La presenza viva delle cose, Living things, puntoacapo, 202
Traduzione inglese di Annarita Taviani , Prefazione di Dante Maffia.
Un libro estremamente interessante, non solo per la versione anche in lingua inglese, soprattutto per il lavoro linguistico che vi sta a monte, un lavoro sulla parola e sul ritmo particolare insito in ogni testo.
Sono poesie da leggere anche perchè raccontano momenti quotidiani e altri di riflessione di suggestione, carpiti a questo vortice chiamato vita.
"Il mio scritto (...) vuole stimolare la curiosità e l'interesse per entrare nella magia di una poesia che io ritengo una delle più ricche e valide degli ultimi tempi, anche per una ragione che molti trascurano. La voce di Laura Garavaglia è voce di donna, di poeta che non nega la sua femminilità e la sua sensibilità. Ed è per questo che è riconoscibile e saudente, ricca di risonanze, di approdi, di verità indeite, perchè"...niente toglie la speranza / di un futuro ricordo". (Dante Maffia
La presenza viva delle cose
Onde i ricordi
divorano la sabbia della mente
tornano senza forma
nell'oceano della memoria.
Siamo solo ricordi all'orizzonte
nella presenza viva delle cose.
“La notte passerà senza miracoli” di Daniele Vaienti (Edizioni del Faro 2019 - Collana “Sonar. Parole e voci” diretta da Paolo Agrati) è il libro d'esordio del poeta e performer cesenate attivo nel circuito dei poetry slam e della recitazione, dettato dalla libera e smaniosa tenacia descrittiva, ritmata in un andamento sonoro che emana le sue radici nella misura tagliente e drammatica dell'umanità celebrata come “un gruppo di bambini all'angolo della strada che parlano della fine del mondo”(Jack Kerouac). I versi ricercano l'esistenza della familiarità e si riappropriano delle espressioni private, quotidiane e semplici, comuni alle confessioni emotive che rivelano il rifugio consolatorio di ogni esperienza ideologica e pratica, tangibile e autobiografica. La diffusione della poesia è la magnetica registrazione esistenziale incisa su materiale resistente all'usura del tempo. La deformazione di visioni concrete e carnali, (una foto, le sigarette, l'autunno) permette di immaginare una licenza onirica e reale, in cui la vita è il passaggio comunicativo di ciò che si scrive con passione e per la propria felicità. La scrittura ipnotica e confidenziale di Daniele Vaienti, è una benevolenza dell'ebbrezza, nella padronanza di un vissuto in cui la tecnica e la battuta serrata ed incisiva decantano un'autonomia sentimentale che tormenta le imprevedibilità e le contraddittorietà degli affetti, gli ostacoli della disperazione nella loro profondità allusiva. L'intensità scritta oltre i versi segue il distacco dalla poetica convenzionale e si nutre dell'improvvisazione letteraria coinvolgendo i simboli emotivi del magico vortice teatrale, compagno, in ogni commento, delle risorse emotive del poeta. Il poeta esiste nell'istantaneo presente liberando l'agguato della nostalgia e del ricordo nelle vibrazioni svincolate dei sentimenti. I testi catturano l'inviolabilità dell'amore, contro l'inevitabile sconfitta del mondo e la lacerazione delle sue costrizioni ed esortano alla necessità di una nuova concezione di beatitudine, di salvezza verso il richiamo alla vita autentica e alla complicità dell'istante. La scoperta di sé stessi, del pensiero assolto dai pregiudizi, dei valori umani, della coscienza collettiva è il traguardo di una compiuta affinità poetica con il viaggio individuale verso un'assegnazione alla speranza. L'esigenza artistica nasce da un desiderio di libertà di espressione, di dinamismo vitale e indagando nel senso del bene comprende l’universalità dei contenuti e la ricerca intima del tutto.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Nient'altro
Si tratta di imparare
l'esistere
senza la pretesa
d'essere.
Accadere,
attenti
a non cadere.
Quel silenzio
Sparo sorrisi a salve
contando i treni
persi e da perdere
per riuscire a scordare
quella voce che assente
alza di una tacca
il volume del silenzio.
( testi trati dal libro)
Testimonianze di voci poetiche, 22 poeti a Parma, Puntoacapo, 2018.
(Coordinata da Luca Ariano e Giancarlo Baroni)
Un viaggio nella poesia che mantiene uno stretto legame con la città di Parma.
Luca Ariano, Giancarlo Baroni, Daniele Beghé, Luca Bertoletti, Edmondo Busani, Guido Cavalli, Stefania Cavazzon, Mauro De Maria, Antonia Gaita, Angelo Gasparini, Alberto Manzoli, Giuseppe Marchetti, Max Mazzoli, Michele Miccia, Alberto Padovani, Bruno Piccini, Giovanni Pizzigoni, Laura Puglia, Maria Pia Quintavalla, Alma Saporito, Alessandro Silva, Franco Vecchi.
ULTIMA VELA
Esiste una frequente leggenda cittadina che vuole lo scrittore confinato a tempo in uno spazio dato per realizzare opere compiute. Quello scialbo proponimento scolastico che per mettere insieme parole e poi frasi sia necessario isolarsi da ogni contingenza. Niente di così inesatto. Fino dalle prime pagine di Ultima vela, Francesco Belluomini ci prende per mano e noi lo seguiamo nel suo lungo viaggio esistenziale fatto tanto di scrittura quanto di circostanze e svolgimenti. Il canzoniere di tutta una vita, tracciato imperscrutabile di un cantastorie e giramondo. Proprio qui si individua la bellezza di fondo di questa raccolta uscita postuma, vale a dire una scrittura urgente e necessaria che senza compromesso alcuno segue le volute degli anni. La biografia di Belluomini uomo e poeta è tutta contenuta in queste poesie nei più dettagliati risvolti. Attraverso molta parte del secolo scorso le andate e i ritorni di lui (nomade per vocazione o per necessità) si intrecciano con politica, letteratura, incontri, frequentazioni. È un canovaccio autentico in cui si sente come una voce che ne fa dettato, quella da lui definita “gestazione” in imprevisti luoghi di scrittura. Ci viene fatto il racconto dei tanti mestieri svolti, da venditore sulla spiaggia a cuoco poi guardiano notturno e infine da mozzo a sottoufficiale. Belluomini è stato soprattutto un marinaio, dalla sua Versilia al resto del mondo, ma nell’alternanza ad altri impieghi con quella scrittura sempre presente e necessaria. Ogni lirica della sua storia non è un corpo a sé quanto si lega indissolubilmente alla precedente e alla seguente, in una sorta di romanzo in versi che è testimonianza e testamento spirituale. La bellezza del suo scrivere sta tutta in una struttura, strofica come metrica, che è enunciazione semplice e diretta di avvenimenti o riflessioni. Niente di queste forme suona spoglio o affettato perché ricco di decantazioni dalle letture altrui, siano classici o romanzi di genere. Parola per parola incastonata/ con tanto di variabili linguaggi, ecco la sua lingua personalissima che non perde mai occasione per farsi narratrice ora di estasi e meraviglie ora di attacchi e polemiche. Le metriche, le rime, le varianti/narrative tracciate a briglia sciolta altro non sono che le mille sfaccettature della sua anima sempre pronta a capire, a provare, a ascoltare le contingenze d’intorno. Sarà allora la stesura del romanzo sull’eccidio a Sant’Anna di Stazzema, o l’impegno come consigliere comunale, o l’approdo inevitabile al Premio Camaiore da lui fondato e diretto con la moglie Rosanna Lupi. Nella sua città tutta preti e madonne porterà nomi importanti della scena poetica nazionale e internazionale, quello spirito di costante aggiornamento e esplorazione che animava Belluomini. Forse glielo aveva insegnato il mare, compagno insaziabile di spostamenti. Il Mediterraneo e gli Oceani popolano molte pagine di Ultima vela, divenendo volta per volta distanza, confine, plurime possibilità. Il mare è specchio limpido dunque veicolo d’elezione per sogni e speranze, ammirabile nel suo abbracciare continenti e città da un capo all’altro. Il mare è culla di elezione in cui scrivere perché non se ne può fare a meno. In tutto questo e proprio grazie al suo lungo racconto, Francesco Belluomini ci appare come una di quelle figure significative delle nostre file letterarie, da curare e ripubblicare in nuove sagge edizioni. A libro ultimato ci resta il suo sguardo, la sua straordinaria capacità di guardare e poi fissare in veloci istantanee i mondi da lui visitati o i personaggi incontrati. L’impatto visivo tanto è forte quanto richiama plurime suggestioni nell’intensità dell’immaginario marino e umano :
I FOLLI
Su questo mare schiacciato da bonacce
galleggiano ingavonate sulla dritta
le snelle navi che sfidavano i venti
con braccia e mani salde sul timone.
Barche a tòrzo lasciate alla deriva
senza più vele, senz’alberi maestri,
vuoti scafi protetti dal fasciame
per scarrocciare a lungo in naufragio.
Francesco Belluomini, Ultima vela, Samuele Editore, 2018
Elisabetta Beneforti
Dieci cento mille Sandro Penna, a cura di Gandolfo Cascio e Fabrizio Cavallaro, Edizioni Forme Libere , 2018.
(...) Sandro Penna poeta e uomo, per noi curatori di questo omaggio-tributo, risiede in luoghi della nostra formazione esistenziale e letteraria, fortemente radicati e certi, come solo un poeta naturale e "prevaricante", essenziale e raffinatissimo come lui avrebbe potuto rappresentare. Penna lo si ama o lo si detesta, mi disse una volta un amico scrittore. Io penso che lo si possa amare o sentirsene rifiutato a seconda del gioco prospettico, di natura squisitamente poetica, in cui ci si pone nei confronti (direi) della vita stessa, e del significato della poesia. Cesare Garboli si spinse a definire Penna uno dei poeti più importanti del Novecento, addirittura il più importante, qualora si volesse dar credito alle classifiche. (...) Noi curatori crediamo, quindi, che Penna sia un fenomeno della poesia, della letteratura, e della stessa vita. Perciò, avvicinarsi al suo emisfero "narrativo", folgorante per brevità e completezza, per apparente semplicità e reale complessità, ritrovabili anche sul versante psicologico, poteva voler dire solo imbastire un omaggio di gratitudine alla sua figura di poeta e di uomo libero, un tributo assolutamente scevro da qualsiasi tono didascalico, così come lo abbiamo concepito e come si sono configurati i contributi poetici che hanno via via composto il libro. Abbiamo lasciato, anche in accordo con l'editore, piena libertà di scelta, diremmo espressiva, evocativa, agli amici poeti che hanno accettato di essere coinvolti in questa antologia: alcune delle voci più importanti del panorama letterario italiano, che tanto generosamente hanno voluto partecipare. Vogliamo attestare loro la nostra amicizia e gratitudine. L'idea era che ognuno contribuisse con una "PoesiaPerPenna", ovvero un regalo, quasi che Sandro Penna potesse accogliere (immaginiamo con l'eleganza caustica e definitiva dei suoi giudizi) nelle proprie mani questo cadeau in forma di poesia, attestato di stima, di amicizia personale (per chi l'ha conosciuto personalmente) o di riconoscimento, ascendenza, filiazione (per chi come noi, ad esempio, lo ritiene maestro indiscutibile e rivoluzionario della poesia del novecento e oltre).
Intendo ringraziare, per tutto questo il co-curatore e mio amico personale Gandolfo Cascio, per il suo essenziale e prezioso apporto, e per averci creduto praticamente da subito. E all'amica decennale e pregevole poetessa Angela Bonanno per aver, anch'essa da subito, sposato il progetto.
Le cose migliori nascono sempre dall'entusiasmo. E dalla cura.
Dalla Presentazione di Fabrizio Cavallaro
IL POETA DEI POETI
We few, we happy few,
we band of brothers.
William Shakespeare, Henry V, IV iii 18-67.
Per quanto Sandro Penna ce l’abbia messa tutta a starsene in di- sparte e vivere la sua vita, non c’è stato verso. Ancora ragazzino fu accolto in pompa magna nella raggiante e superba setta dei poeti. Da loro fu trattato come nessuno mai: senza invidie, né gelosie o sgambetti; anzi, fu subito ammirato e protetto, rispettato e coccolato da tutti: sia quelli della generazione precedente, sia quelli della propria e da chi è venuto dopo. Ancora oggi il culto di Penna è vivacissimo e si manifesta in un’incondizionata adorazione.
Il primo ad accorgersi della novità e lucentezza di questa poesia fu Saba. Penna gli s’era avvicinato per lettera nel 1929, quando gli spedì un mucchietto di versi, rimandosi però per timore o per burla? – Bino Antonione (il cognome è quello della madre). Il destinatario ne rimase ben impressionato e volle comunicar- glielo. Tre anni dopo Saba è a Roma per consultare Weiss, allievo di Freud e, per un po’, medico anche di Penna. Sarà proprio lo psichiatra a combinare un incontro in cui il giovane, un attimo prima della partenza di Saba, gli reciterà a memoria quei versi di Bino. Il resto della storia lo sanno tutti: Saba telegrafa alla moglie e le comunica che resterà in città perché ha trovato un Poeta. L’attore improvvisato aveva lasciato cadere la maschera, e da quel colloquio nascerà il suo primo libro, Versi intimi, per la cura del poeta-libraio:
Ho pensato di fare due o tre copie dattiloscritte delle sue incantevoli poesie, e di o dirle a qualche amico verso il compenso (si capisce al poeta) di L. 100. Sono circa quaranta poesie, dattiloscritte su carta antica (simile a questa); la scelta è stata fatta da me .
In seguito, Saba rammenterà l’amico in diversi luoghi delle Scorciatoie e nella Storia e cronistoria dove, in parte, gli dà l’onore della pensata di Parole. Ne parla a Solmi come d’un figlio: «Lo udii lodare senza riserve i primi versi di Sandro Penna. Diceva, ammiccandomi: “Cossa tene dise? El xe mio o!”».
La dichiarazione di paternità è ovviamente da intendersi come l’a ermazione del proprio primato all’interno d’un certo côté novecentesco (‘antinovecentista’ o, per l’appunto, sabiano). Ne consegue che Penna eredita il privilegio della primogenitura, venendo a trovarsi come il secondo «tra cotanto senno».
Un fratello maggiore va invece considerato Montale (si levano soltanto 10 anni) che Penna conosce sempre nel ’32 a Firenze. Ci sarà uno scambio di poesie, riguardo reciproco, e anche con lui inizia un bel carteggio .
Dall'introduzione di Gandolfo Cascio
I POETI PRESENTI NELL'OPERA (alcuni dei quali scomparsi)
Fernando Acitelli
Antonella Anedda
Lino Angiolini
Saragei Antonini
Attilio Bertolucci
Gaetano Blaiotta
Angela Bonanno
GIANCARLO BARONI, SGUARDI DELL’ARTE, Grafiche Step, 2017
I poeti hanno parole e hanno sguardi, si nutrono vicendevolmente di entrambi i linguaggi. Fermano un’immagine che passa loro accanto come compongono parole in volteggi di significati, curiosi e affascinati. I poeti hanno spesso una lucidità visionaria che nasconde infinite commozioni. È quanto realizza Giancarlo Baroni con la sua plaquette fotografica Sguardi dell’arte. Il lavoro proviene da una mostra parmense della primavera del 2017, quel “Sguardi e Risguardi” tenuta insieme a Giovanni Calori autore della sezione Reflections on New York. Gli scatti di Baroni prestano attenzione alla ‘grande arte’ che si incontra lungo la strada camminando, quali fossero tracce o indicazioni o pure casualità. Siano questi i cartelloni pubblicitari di musei, lavori in corso d’opera dei madonnari, basse riproduzioni di quadri famosi in qualche mercatino delle pulci. Durante il percorso ci imbattiamo così in Marilyn Monroe, Monnalisa, donne del Parmigianino, personaggi di Caravaggio, la ragazza con l’orecchino di perla, e ancora Van Gogh, Warhol, un particolare della Venere di Botticelli…. Tutte quante icone enigmatiche disperse nel nostro quotidiano metropolitane. Le celebrità si confondono nell’anonimato, gioco inquietante ma realissimo e mai scontato. Quasi come venisse indicata per loro una nuova collocazione, anche con l’intento di ricollegarle ai materiali in origine : Prima di essere immagine del mondo/verità oltre gli occhi/sei carta muro tavola/liscia superficie bianca/polvere variopinta/dalla materia grezza nasce/questa bellezza che ammiro. Sfogliando la plaquette quello che ci accompagna è un emozionante gioco di sguardi, noi guardiamo gli occhi nei dipinti e loro sono il nostro specchio. Ecco i rimandi e pure occasioni tanto estetiche quanto emotive. Giancarlo Baroni è riuscito benissimo in un compito certo non facile, vale a dire di consegnare la bellezza di un volto iconografico sottratto al suo naturale contesto di appartenenza e riconsegnato nel suo essenziale e forte impatto. Le immagini di Sguardi dell’arte non hanno l’intenzione di raccontarci tutto, non esauriscono in se stesse un senso. Anzi, chiusa l’ultima pagina continuano a suggerirci riflessioni e domande. La provenienza e la destinazione delle opere d’arte è questione ancora aperta. Il poeta Baroni non ci ha offerto semplicemente immagini descrittive, visivamente apprezzabili, quanto i molteplici significati che sono in grado di racchiudere.
Elisabetta Beneforti
In amore
Fabio Scotto, In amore, Passigli, 2016.
Fabio Scotto è traduttore di poeti francesi (ad esempio Yves Bonnefoy, di cui ha curato per “I Meridiani” L’opera poetica) e poeta a sua volta (diverse le raccolte pubblicate: la prima è del 1988 e l’ultima , In amore, del 2016).
In amore accoglie toni, temi, spunti, stimoli, voci, argomenti, differenti e a volte contrastanti. Lo sguardo del poeta si distende e si espande, è molteplice e variegato; questa ampiezza costituisce un tratto distintivo e una caratteristica fondamentale del libro. Una delle numerose qualità del testo sta proprio nel riuscire a rendere omogenea e armoniosa questa copiosa e rigogliosa pluralità.
Liriche amorose e drammi, riferimenti autobiografici e cronachistici, ritratti affettuosi e invettive, descrizioni e allusioni, versi che ora si distendono ora si contraggono, passato e presente, si intrecciano, convivono, dialogano, si confrontano.
Lo scrittore Gabriele Morelli, nella sua stimolante Prefazione, scrive: “La straordinaria qualità della poesia di Fabio Scotto proviene da un flusso emotivo che assume il presente come punto di partenza, lo avvolge e dilata in un movimento che va avanti e indietro, aggregando momenti e materiali di vita e di storia vissuti in tempi diversi che trovano un loro centro nella parola”.
L’amore di cui l’autore parla non si limita all’aspetto sentimentale e passionale, non coinvolge unicamente due innamorati, ma interessa tutti gli uomini, l’intera umanità e la stessa natura (“Ha mille anni il cedro che ci guarda / lunghe braccia distese verso l’alba / radici profonde dentro il ventre della terra”). L’indagine si estende fino a scontrarsi con la faccia in ombra dell’amore, quel disamore che continuamente lo insidia e lo mette in crisi, che provoca sofferenze e dolori.
Il libro di Scotto è uno sguardo vasto, partecipe e appassionato su un mondo colmo di bellezza e desideri e contemporaneamente saturo di bruttezza e patimenti.
L’aspetto più tipicamente amoroso e passionale resta comunque rilevante. Baci (“Ti bacio le mani / le ciglia / la bocca”), carezze (“bisognoso di carezze e d’olio sulle ferite”), sguardi (“Rinasco nei tuoi occhi ad ogni sguardo”), incontri, abbracci, contatti, condivisioni, amplessi che creano fusioni (“Tienimi con te, in te”), voci che consolano (“sei voce amorevole che lenisce ogni pena”).
Il male è sempre in agguato (“Ma del male si nutre / la gioia di un momento”), si insinua fuori e dentro di noi assumendo aspetti e gradazioni differenti. Può manifestarsi come solitudine, abbandono, sconforto, ferite, cicatrici, minacce, e può addirittura deflagrare in violenze crudeli e intollerabili che riguardano sia la singola persona che la collettività.
Scrive Morelli: “Difficile separare i diversi momenti della scrittura, dove la tematica amorosa si intreccia, si fonde con altre istanze, e su tutte s’impone la denuncia del presente storico che diventa critica”, e ancora: “il poeta è vicino alla sofferenza dell’uomo, condanna l’ingiustizia, gli orrori della guerra, la violenza che colpisce i più deboli”.
La più drammatica attualità irrompe più volte nelle pagine incendiandole di indignazione e commozione. E’ il caso sia di questa poesia intitolata “Bataclan. 13 novembre 2015”:
“La musica è finita
ora fischiano pallottole sul capo
giù la testa, amico
che ci fanno fuori come cani
per la sola colpa di esser vivi
di un sorriso, di una sera di svago”
sia di questo poemetto, struggente e colmo di pietà, intitolato
“Lamento per Aylan Kurdi, tre anni, siriano”:
“Riverso sulla spiaggia
a pancia in giù
la maglietta rossa
i pantaloni corti
le scarpine addosso
i capelli bagnati
Chissà se senti la sabbia accarezzarti,
se ascolti l’onda che ti ha ucciso
e ora ti sfiora il viso”.
Fabio Scotto sa con maestria trasformare anche la tragedia in canto, in una musica aperta e fluente, tanto che, nota Gabriele Morelli nella Prefazione: “Talora si ha l’impressione che il testo sia stato concepito per essere udito più che letto”.
Giancarlo Baroni
ALBERTO TONI
IL DOLORE
Samuele editore,2016
“Fossimo stati sempre lì/sulla linea dell’orizzonte”: il respiro di queste poesie è ampio, il loro dettato racchiude una leggerezza tutta calviniana e la scansione piana interna ai versi appare forte di significati. Nell’ultima sua raccolta Il dolore , Alberto Toni ci passa una poesia nuova e antica allo stesso tempo. Una lirica sull’uomo e per l’uomo, il poeta da una parte del foglio e il lettore dall’altra. È poesia ‘antica’ quando si aggira nel solco della migliore tradizione italiana (leggi Ungaretti,Montale,Rosselli,Caproni,Penna), mai ridotta a gioco di citazioni piuttosto testimonianza di un’eredità irrinunciabile. Allora sono echi e rimandi che valgono come fil rouge da una all’altra delle sette sezioni che formano il libro. Ma Il dolore è anche poesia ‘nuova’ quando non rimane nel perimetro di lemmi tradizionali dando invece spazio ad una voce autentica fuori da qualsiasi manierismo. Una poesia ‘umanista’ , si potrebbe dire, prima ancora che lirica o civile benché si nutra di entrambe. “Politica di passaggio,pericoli,strade asfaltate o vincoli appena percepiti. La scrittura avanza e si materializza, ricuce i tasselli familiari, non riposa, ma incide. Pomeriggi di lavoro. La distanza è la stessa.” Alberto Toni ci scrive necessariamente dalle pieghe del quotidiano con uno sguardo minimale (mai minimalista) che dall’inquadratura del piccolo si espande e si allunga verso più direzioni. E molti sono i motivi visitati, uno per uno : la sua è una poetica fatta di oggetti, luoghi, persone care o di passaggio, alla fine tutte occasioni per narrare il momento che “il dolore si sposta,è sponda”. Il dialogare qui è ininterrotto, accompagna racconti che valgono come fermo immagine di momenti, di ricordi. Gli sfondi cittadini e naturali si fanno elementi di un insieme a cui attingere, dentro cui far procedere un’esistenza e le sue evoluzioni. Se “la città/ è spazio e linea,tutta una nebulosa”, la natura offre elementi utili all’allegoria come la trota sannita assolutamente resistente nei suoi percorsi impervi. Lei che “al raggio e alla pioggia sopravvive,/ rinasce di giorno in giorno, smilza che fugge.” La poesia di Toni vale come approdo di riflessioni, allineamento anche incostante di occasioni ed epifanie nei suoi dolori tanto individuali che universali. Nessuna consolazione è tracciata, invece viene delineata una ferma consapevolezza che accompagna il dolore. “Sapessero che stare è riandare una volta,/ più volte nell’addio/ e dentro il dolore.” Tutto si muove, in un cambiamento inevitabile che è accettazione che è vivere accanto. “ In ultimo,ma non ultima l’impresa:/ritrovare il nesso vita poesia difesa,/ raccogliere le forze,evitare la resa.” Una raccolta decisamente bella e con Roberto Mussapi diciamo che Il dolore è “uno dei più bei libri degli ultimi tempi”.
Elisabetta Beneforti
Umana, troppo umana
Poesie per Marilyn Monroe
A cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo,
nino aragno editore, 2016
Nel giugno scorso avrebbe compiuto 90 anni. Marilyn Monroe la diva, la donna, eterna bambina, fata e strega, persona e personaggio. Partendo da questo anniversario e seguendo le suggestioni poetiche di Pasolini e Bellezza a lei dedicate, Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo hanno chiamato a raccolta voci significative di poeti italiani contemporanei come testimonianza di una figura tanto controversa quanto indelebile.
Umana, troppo umana si offre subito come un autentico libro-tributo, declinate all’occasione le varie circostanze che cronaca e leggenda ci hanno fornito lungo i decenni. Quanto è stato di una vita e di una morte, di amori e di passioni illuse, di inevitabili manipolazioni mediatiche, di destini incrociati e ineludibili. Ma al tempo stesso ogni circostanza racchiude una grazia nascosta, un prezioso doppio che vale da delicato riscatto. Filo rosso a percorrere i testi qui raccolti , nonché motivo ricorrente di identificazione con il mito-Marilyn, è il corpo. Quel corpo, possiamo dire, oltraggiato di amore e storie e al tempo stesso rappresentazione di uno spirito fragile. Nessuno spazio a tesi postume o correzioni, solo un dettato poetico che nella sua varietà non risulta mai scontato ne’ banale – per questo vada un ringraziamento speciale ai due curatori che con questa raccolta hanno dato segno di una indubbia ricchezza lirica del panorama italiano odierno. Voci che ci hanno restituito vividi gli stills di memorie pubbliche e private, immancabili immagini che condividiamo a omaggiare memoria della Monroe e “sua(ferita) grandezza”. Buon compleanno, Marilina.
Elisabetta Beneforti
Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi, La Vita Felice, 2017.
L’ebbrezza a cui fa riferimento il titolo della recente raccolta poetica di Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi (La Vita Felice, 2017), non ha un rapporto stretto e diretto con quella sensazione di offuscamento e insieme di esaltazione che l’alcool momentaneamente provoca. La poesia, particolarmente bella, che apre il libro e che lo intitola è, a questo proposito, abbastanza esplicita:
Mi sveglio la mattina
e non sento il corpo se non come un peso
abbandonato alla deriva della prima luce:
sarà questa la più dolce e chiara
percezione del reale che ci resta?
Tutto il resto, intanto, è preparare piani segreti
mappe di resistenza, attraversare campi minati
e tagliare barriere di filo spinato
fino a quando la porta si richiude sul mondo
e possiamo deporre un fiore rosso
ai piedi del letto della nostra piccola pace.
Alfredo Rienzi, critico e poeta raffinato, nella Prefazione parla di “ebbrezza sui generis” e scrive: “Di quale saggezza, dunque, sono portatori gli ubriachi? Chi sono costoro e perché ammiccano sulla soglia, se l’autore, come si vedrà, predilige in realtà come strumenti una lucida riflessione e una pensosa rielaborazione delle cose che accadono? L’indagine, infatti, viene condotta con tenacia alla luce della ragione, attirata e attivata dalla percezione del reale e sviluppata con consapevolezza a volte feroce”.
Sgombrato il campo dall’equivoco che il titolo poteva ingenerare, proviamo a individuare alcune caratteristiche salienti del testo di Stefano Vitale.
Il principale e prevalente aspetto è la costante condizione di pausa e di attesa: “Desideriamo soste felici di sospensione”; “Intanto io resto / controfigura di me stesso / dietro le quinte ad aspettare il segnale / per lo spettacolo che sta a cominciare”; “Restiamo qui ad aspettare / un segnale dal futuro”; “La mente intanto resta in solitaria attesa / nel freddo suo naufragio”).
Una situazione di attesa che viene accentuata da movimenti lenti, da gesti ridotti al minimo, da un tempo rallentato e quasi bloccato (“metto il tempo in gabbia”), da un torpore esistenziale. L’ubriacatura sembra perciò consistere in una assenza “di noi a noi stessi”, in un’apatia che attutisce l’angoscia:
Poi si sta dentro a una stanza
ore e ore in silenzio
nel grigio presente dei minuti pesanti.
Seduti come sul bordo di un precipizio
aspettiamo il momento dei saluti
fingendo d’essere normali
facciamo i nostri conti
del tempo andato a male
ciascuno col suo lumino
acceso in mano.
Gli uomini, “eterni dilettanti della vita”, hanno la materia e la sostanza delle proprie illusioni e dei propri inganni, dei propri errori e delle proprie imperfezioni : “Siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli”. Vittime della nostra solitudine tendiamo spesso ad isolarci (“Arroccati nell’angolo cieco / delle nostre mura”), a sussurrare a bassa voce più che a dialogare con chiarezza (“Abito questo silenzio / bastione di fredda compostezza”). L’appartarsi, il mimetizzarsi, il “diventare muro, insetto, foglia”, sono un’arte raffinata che insegna a evitare possibili disfatte, a “scegliere la posizione / della giusta distanza” senza lasciarci troppo coinvolgere. Il rischio che si corre e il prezzo da pagare sono una specie di separatezza, di lontananza, di isolamento e di distaccata partecipazione “Guardiamo gli altri passare / immaginiamo da lontano le loro vite”.
La saggezza degli ubriachi è un libro impregnato di pessimismo; un pessimismo che rifiuta gli eccessi emotivi a favore di una lucidità riflessiva, che chiude la porta alla disperazione e la apre a un disincanto del tutto privo di cinismo.
La scrittura misurata ed equilibrata di Stefano Vitale raffredda i toni evitando acuti drammatici o profonde cupezze e, scrive Rienzi nella Prefazione, “la fluidità del dire, la sobria eleganza dei componimenti, le calibrate assonanze e la compiutezza sintattica fanno sì che l’invito alla lettura risulti agevole da accogliere”.
“Siamo figli di un destino comune”, afferma l’autore scansando una deriva solipsistica e mettendo in risalto le nostre condivise fragilità , siamo “cose tra le cose / posate per caso sulla tavola del tempo”. Ma, come “archeologi di noi stessi”, continuiamo per fortuna a non arrenderci, a cercare quei “fossili della speranza” che ci permettono di apprezzare la vita: frammenti di gioia e di serenità. Rimedi e forme di resistenza apparentemente minimi: “Giorno dopo giorno / sorvegliare le gemme / arrampicate verso il cielo / abbeverare le foglie oppresse dal sole / liberare i vasi dai fili d’erba / e sperare nel fiore”, lasciarci incantare da un sorriso o da “…una traccia di polvere / che brilla in controluce”, pronunciare una parola “certa e precisa”, farci guidare da un canto “piccola ostinata intima luce”.
C’è un forte vento che sale
nella stanza a ripulire l’orizzonte
così mi giro dall’altra parte del mondo
e canto, sottovoce, canto.
Giancarlo Baroni
Anna Toscano, Una telefonata di mattina,
La Vita Felice , 2016, euro 12 , pag.78.
La poesia iniziale traccia il percorso che seguirà poi l’intera raccolta. Dice: “Io con le parole faccio cose” e, aggiunge poco dopo, “Con le cose faccio parole”. Più che una dichiarazione di poetica, l’ammissione della volontà e del desiderio di aprire il proprio io e i propri versi al mondo e alla vita (anche quella più abituale e quotidiana). Leggiamo per intero questo testo significativo:
Io con le parole faccio cose
con le parole svuoto una stanza
con le parole compio una danza
cucino un risotto, vado al ridotto.
Con le cose faccio parole:
scelgo un baule
e lo riempio di sillabe nuove.
Le parole dell’autrice non dialogano, dunque, con se stesse ma con le cose; a loro volta le cose trovano la propria compiutezza e piena espressività nelle parole che le nominano. La poesia possiede spesso questa dote e questa virtù: di offrire occhi nuovi a chi guarda, di dare smalto e speciale lucentezza a ciò che viene osservato.
Nei libri, a volte, ci sono concetti e frasi che, con qualche variazione, si ripetono e si richiamano formando una specie di ritornello e di sottile filo rosso. E’ il caso, assieme alla precedente, di questa composizione intitolata “Le parole”, di cui citiamo le prime due strofe: “Le parole diventano pelle / non si può parlare / ma sfiorare, toccare // la pelle diventa parole / se ne può parlare / scrivere, raccontare …”. Assistiamo così, nella raccolta di Anna Toscano, a un dialettico scambio, a una specie di parziale e instabile osmosi, fra la dimensione letteraria e quella esistenziale, fra idee ed esperienze, fra l’attimo dell’intuizione e il momento della concretezza.
Come sappiamo, oggetti senza particolari pretese, situazioni e occasioni giornaliere, suscitano in noi ricordi, emozioni, pensieri, immagini, versi. Per esempio: “…il tintinnio / del cucchiaino nel bicchiere”; “il rumore della fontana”; “l’odore della pioggia”; la gonna, “quella nera carina”, appena indossata; “un caffè un cinema / una telefonata di mattina”; “gli scaffali di una libreria”.
E poi, oltre alle cose, ci sono le persone” (amici, amiche, familiari, incontri casuali, gente amata o scomparsa):
E poi ci sono le persone,
mia nonna ai fornelli
ad esempio
mica è andata via
è qui
come allora,
con tutta la sua liturgia.
E inoltre ci sono i luoghi frequentati e amati: “Venezia / limpida e ghiacciata”; “quel bar della stazione / a Milano”; i vicoli stretti e il Compianto di Niccolò dell’Arca a Bologna; “il rumore delle città che ho attraversato, / camminato, il loro suono, la loro melodia”.
Nella Prefazione, Valeria Viganò perfettamente scrive: “Finite le pagine di questo libro, abbiamo visto lo scorrere e il ritornare, calcato sabbia, acqua e asfalto e respirato l’aria strana della vita. Sì, è vero, confessiamolo, abbiamo anche ondeggiato impauriti tra i marosi dei sentimenti, ci siamo smarriti tra sconosciuti, eppure dopo avere tanto vagato nei pensieri siamo tornati con Anna a Itaca, arricchiti, confusi e migliori”.
Giancarlo Baroni
Lucia Cupertino, Non ha tetto la mia casa. Antologia poetica, Editrice: Casa de Poesia, San José, Costa Rica.
Composta di testi inediti oppure pubblicati nelle riviste letterarie on line “La macchina sognante” e “Fili d’aquilone”, la breve antologia poetica di Lucia Cupertino Non ha tetto la mia casa – No tiene techo mi casa (pubblicata con il patrocinio del Festival Internacional de poesia de Costa Rica; chi volesse approfondire può contattare l’autrice: onitrepucaicul(at)gmail.com) rivela, già dal titolo, la sua aspirazione e propensione a superare e oltrepassare barriere, confini, frontiere, recinti e steccati. Il libro, ad esempio, è bilingue: ogni testo in italiano è accompagnato dalla corrispondente versione in spagnolo.
Nonostante la giovane età (è nata a Polignano a Mare nel 1986), Lucia Cupertino conosce il mondo e lo visita con lo sguardo dell’antropologa culturale e non della turista (ha svolto ricerche incentrate sul mondo indigeno in Argentina, Messico, Colombia, Spagna, Germania, Australia); uno sguardo tutt’altro che neutrale e distaccato anzi profondamente e intimamente partecipe guidato, com’è, da un convinto atteggiamento di adesione e di simpatia, di comprensione e di coinvolgimento razionale ed emotivo, verso ambienti, cose, vicende, persone, con cui la Cupertino entra in contatto e che incontra. Nella sua poesia gli scenari si ampliano e si dilatano, si spazia “da un continente all’altro”; la casa dell’autrice è il mondo e dal mondo i suoi versi, “in cerca d’altrove”, traggono ispirazione e spunti. Nella nota introduttiva, in maniera suggestiva, spiega: “Il vento e i passi mi hanno tratto storie straordinarie al cuore, tristi e perfino crudeli come altre piene di speranza e luce. Io le ho solamente raccolte. A volte schegge di Storia sono rimaste intrappolate nella rete della scrittura, altre volte pura polvere di stelle, visioni impalpabili, la gloria della natura che si rigenera, nonostante tutto. Quando le pareti della mia anima aderiscono al mondo, lì trovo la mia casa”.
Una bella e significativa poesia dice:
NON HA TETTO la mia casa e neppure pareti
…il tappeto è un velluto di felci.
Non ho chiavi né serrature
perché la mia porta sono alberi
e si aprirà con gli anni, restando
a decifrare i segreti del bosco.
La poetessa si immerge nella natura, si spoglia e si alleggerisce (“DISFARSI DI TUTTO / anche del sacco tiepido”), si rigenera (“possiamo riposare coperti da un albero”), ascolta il respiro della terra, ne diventa parte e ne viene accolta, assimila usi, costumi, abitudini, rituali, e poi, spinta e stimolata da una curiosità infinita e da un incontenibile entusiasmo, parte per nuove esperienze, per altri luoghi:
E’ tempo di sostare
osservare le nubi transitare
sorpassarci e correre ad altre vallate
smettere di ripetere i naufragi dell’inerzia
lievitare come il cielo nuovi parti.
Le terre che l’autrice visita non sono però un’Arcadia immune da drammi e violenze, anzi spesso sono intrise di sangue, crudeltà, abusi, sofferenze, barbarie e ingiustizie:
MOSUL è il vapore di un tè
inebriante e spaventoso
a ogni sorso dalla tazza
un mostro si sprigiona.
In una delle circa trenta poesie che compongono la raccolta, alle “quattrocento querce” che corteggiano e rasserenano l’autrice si intrecciano, in un groviglio di gioia e disperazione, i quattrocento colpi “di machete fucili coltelli”.
Lucia Cupertino sa sempre da che parte stare, al fianco cioè di chi ha più bisogno, di chi quotidianamente e incessantemente fatica, di chi si impegna con spirito fraterno e solidale, di chi subisce torti; da loro Lucia ottiene forza, energia, passione, racconti, bellezza (“La bellezza è la ricchezza del cosmo”) e soffio vitale: “Quante vite ho ricevuto in dono”.
Nel 2016, assieme al libro di cui abbiamo parlato, è uscita un’antologia di vari autori intitolata Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terra d’ulivi edizioni), composta di testi forti e intensi in prosa e in poesia, di cui Lucia Cupertino è curatrice insieme a Bartolomeo Bellanova, Pina Piccolo e Gassid Mohammed. Il libro, che affronta un problema complesso, drammatico, enorme e che tutti ci coinvolge, che offre parecchie testimonianze e riflessioni, si conclude con questo augurio: “Chi viene dal mondo ci dona una parte di sé … solo intrecciando le radici potremo piantare un vitigno duraturo e giusto. Vorremmo condividere con i lettori l’auspicio che il sostantivo migrazioni possa riappropriarsi del suo più alto significato di umanità, di dolore, di paura, d’inquietudine e soprattutto di quella speranza di un altro mondo possibile a cui non possiamo rinunciare, pena la rinuncia al nostro stesso essere uomini”.
Giancarlo Baroni
Pitture e pittori nei libri
di
cinque poeti italiani contemporanei
Fra penna e pennello, fra poesia e pittura, si sa, esiste una specie di competizione-collaborazione, un saldo e profondo rapporto di scambio reciproco non privo tuttavia di frizioni e tensioni. Entrambe aspirano a rappresentare, intensamente, il mondo di cui parlano oppure che dipingono nel momento della sua maggiore espressività.
Vorrei però subito toccare, senza approfondirlo, l’argomento che mi interessa e che riguarda l’ammirazione che i poeti provano e dimostrano (anche oggi) verso la pittura, i pittori e i quadri. Un’ammirazione che li spinge a tradurre le immagini in versi (lavoro difficile e insidioso), che li invoglia a raccontare, descrivere, illustrare a parole e interpretare in modo originale le opere pittoriche preferite. Una stima e un apprezzamento che possono trasformarsi in un omaggio e in un tributo che il poeta fa al pittore, dove il primo, in uno strano scambio di ruoli, ritrae il secondo.
Recentemente sono uscite alcune raccolte poetiche che si confrontano, almeno parzialmente, con pittori e pitture. Ne citerò brani e testi significativi. Il mio vuole essere un lacunoso contributo per eventuali ulteriori approfondimenti. Segnalazioni e consigli da parte dei lettori sono graditi.
Ne Le acque della mente (Mondadori, 2016), Rosita Copioli si confronta per esempio con La Madonna del parto di Piero della Francesca; con La Vergine delle rocce di Leonardo; con Apollo e Dafne del (o dei) Pollaiolo (“Andrea o Piero del Pollaiolo, o entrambi, / tra il 1470 e il 1480 dipinsero una piccola tavola / a olio, / che raffigura la metamorfosi di Dafne in alloro, / così come la racconta Ovidio…”). Nel suo viaggio fra capolavori e protagonisti dell’arte l’autrice incontra Claude Monet (“Voleva l’involucro della luce / l’istante / il movimento infinitesimale / nascosto all’occhio nudo”); Pablo Picasso (“La pittura è una forma di magia / che si pone tra l’universo e noi”), Jackson Pollock.
Nella prima sezione della raccolta Un punto di biacca (La Vita Felice, 2016), Anna Elisa De Gregorio si identifica con la lattaia protagonista della tela indimenticabile di Vermeer (“Le mattine d’autunno, benedette / di luce, a Delft, valgono cento perle. / In casa adesso io sola sono sveglia, / puoi trovarmi in cucina / con il giallo corpetto e il viso assorto”); ammira la Deposizione di Rogier van der Weyden (“Un punto, come luce, / di biacca: goccia per goccia dipinge / le lacrime e separa / il pittore sul volto di ciascuno”); intravede e sbircia un affresco di Cimabue ad Assisi: “Spiare dalla porta / che per grazia è socchiusa, / angeli ai quattro canti della terra”.
Roberto Rossi Precerutti, autore di Rimarrà El Greco (Crocetti Editore, 2015),si ispira alla magia e all’estro dell’artista spagnolo di origine cretese che ha messo in contatto la tradizione artistica orientale con quella occidentale dell’Europa (Creta, Venezia, Roma, Toledo: le città di El Greco). I versi si accordano con le raffinatezze, le ascensioni, i misteri, delle immagini (“Lacrime versa Toledo sul corpo / che conserva una luce come d’oro, / mentre si scava nel tremendo l’ombra / che nessun angelo trasforma in nube”). La raccolta precedente di Rossi Precerutti, La legge delle nubi (Crocetti, 2012), si apriva con una corposa sezione intitolata Un sogno di Lorenzo Lotto.
A questo isolato pittore geniale, Lorenzo Lotto, nato a Venezia e morto a metà Cinquecento a Loreto dove si era fatto oblato della Santa Casa, il poeta marchigiano Francesco Scarabicchi, da sempre interessato alle arti figurative, dedica un libro intitolato con ogni mio saper e diligentia (Liberlibri, 2013). Nei seguenti endecasillabi, struggenti e intensi, Lorenzo viene raffigurato, vecchio e solitario, emarginato e silenzioso, mentre ci fissa: “Vi guardo dal ciglio della storia, / dal limite concesso all’invecchiare, / dal mio silenzio che non ho salvato / per un’offerta al dio che mi trascura / in questa casa dove il vento volta”.
Dell’eccentrico pittore bresciano Gerolamo Romani detto Romanino, quasi coetaneo del Lotto, ci parla (nel dialetto di Sirmione) la poetessa Franca Grisoni in Croce d’amore (Crus d’amur): “Lui venuto fin qui a chiamarci / e tu, nostro Romanino pittore, / coi santi hai risposto / e i tuoi talenti”. Questo volumetto, pubblicato da Interlinea nel 2016, è l’unico, fra i libri che abbiamo segnalato, ad essere arricchito dalle riproduzioni delle opere (affreschi e tele) a cui le liriche si ispirano. Nell’Introduzione Giuseppe Langella precisa: “ la Grisoni non gareggia con la fonte figurativa, ponendosi, semmai al suo servizio”.
Giancarlo Baroni