La pagina, con differenti testi, viene presentata per gentile concessione dell'autrice e o dell'autore a Pioggia Obliqua
NICOLAS CUNIAL
Fotografia: Chiara Dazzi
NICOLAS CUNIAL
BLACK IN / BLACK OUT
Planetario
Forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro
(poi pulisco lo giuro)
si vive in un tempo protocollato
tra visite da calendario e l’orario
del deperimento / del farmaco effetto.
Si vive di schemi e gioco di ruoli
di costanti silenzi scontati
per mostrarcisi male / malati.
Ma c’è un momento in cui mi do conto
che sono felice: è quando disegno
i miei occhi più grandi del mondo
perché lo contengo nel nero del bulbo
e il bianco contorno è l’universo
in cui nuoto di notte se mi addormento
se il giorno l’ho perso a muovere scacchi
con chi fa la cronaca dei gesti più semplici:
«guarda, lei ha preso una penna
guarda, lui sta toccando la tenda»
e silenziosa mi fissa gli spacchi
coi suoi pianeti disabitati.
Dipingo soltanto il circo che vedo
io bestia lasciata alla sete di gioco
costretta incastrata dove non si respira
in questa camicia che non si stira.
Forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro
(poi pulisco lo giuro)
si vive di sedute e dosaggi
di diritti pestati e ora detriti
di pasti scaldati e assaggi gentili
per evitarci il più dei conati.
Si vive di docce in divisa
divisi dall’altro
l’amore è bandito ma se si fa buio
se le luci si spengono
arrivano mani a intrufolarsi nel letto
e può succedere che non siano mie
ma di chi ha più voglia
e non sa cosa tocca ma sa ricucire
senza parlare/mostrare/manie.
Così la mattina con le dita pastello
ritraggo lettini vibranti / il cigolio
le spinte e gli strappi degli organi scelti
il suono e la voce che mai dice addio
né dice: «ciao sono io, è stato stupendo».
No: qui è un rancio di sesso randagio
la regola vuole che va bene fin quando
i grembi non crescano / non ci sia parto.
Forse confondo le confusioni
perché mi conto più dubbi che giorni
ma ho due pianeti al posto degli occhi
li disegno sul muro
(poi pulisco lo giuro)
adesso che ho finito lo spazio
e il planetario è completo
mi legate le mani con cinghie
a un letto disfatto da carne di scarto
(avanti uno e poi l’altro)
in attesa del turno delle briglie di cuoio
con l’urlo di unghie dal corridoio / esasperato
(avanti uno e poi l’altro)
è richiesta in reparto
la morte che perde
ché non mi prende se mi attaccate
la testa a uno schermo / lo sguardo all’inferno
fermo fissato / un cristo all’altare
con particole in ferro freddo sui lobi
io cimice in camice sacrificale
addento indolente un sorriso di legno
per preservare lo smalto del ghigno
dai crampi che vengono a farmi la festa
una scossa che straccia che scassa la testa
per farmi confondere le confusioni
diradare la nebbia planetaria dagli occhi
rotolati all’indietro per le convulsioni
e così eliminare ogni dubbio futuro
per cancellare i disegni sul muro.
Forse ho confuso le confusioni
nel cassetto di casa ho più dubbi che assiomi
e due pianeti al posto degli occhi
che disegno sul muro, in silenzio, da solo.
Di queste follie io sono le stanze
che non accettano pareti bianche.
In discotesta
La depressione è come una festa
che non ha fine. E in discotesta
va tutto bene, ma fuori
fra le rovine/deserte/polari
il vento molesto non smette di dire:
«forse a te piace non stare bene»
(ma in discotesta
c’è la musica alta / spacca le orbite
che se ci parliamo non ci capiamo
ma in fondo che importa, tanto qui conta
che la mia faccia dipinta a sorriso
non pianga solvente sopra la tinta
o mostrerebbe che sotto a ‘sto trucco
c’è un volto da guerra, quasi distrutto
e c’è
la spinta di testa per l’uso di droga
gocce e pasticche che pompano pace
che pompano voglia di
gioire/sudare/cardioalitare
per almeno un paio di ore
il tempo che vi è necessario
a scordarvi che muoio / pensarmi guarito
io che casco se spinto
da una parola / la forza di un dito
e c’è
la fatica per ogni mio gesto
per alzarmi dal letto / dal divanetto
per raggiungere il bagno, lo sforzo
di salutare chi neanche conosco, lo strazio
nel guardarmi allo specchio
e sentirmi alla vita fissato
dai soli magneti / della fame / del fiato
e c’è
il distacco dei piani
io nell’arena da solo e il mondo sul cubo
che si dimena nel buio che sputa
e vuole soltanto che io mi diverta
perché confonde l’abisso e la noia
così mi tira dentro le fila
come se questo fosse la vita
non il problema ma la porta d’uscita)
la depressione è come una festa
che non ha fine. E in discotesta
non va così male, ma fuori
fra le rovine/deserte/polari
il vento molesto non smette di urlare:
«forse dovresti vedere qualcuno»
nulla è più vero
e quel qualcuno dovrei essere io
ma non mi vedo
e da qui grido che anche se esco
da questo locale / dal male
comunque sarei ostaggio del freddo
delle rovine/deserte/polari
e fra il morire sicuro di gelo
e ballare con l’aria da morto
non c’è differenza
quindi meglio far festa
aspettando che fuori l’inverno
o si consumi o entri qui dentro.
Amoressia
A digiuno di sguardi da mesi
domandi: «cosa mangiamo stasera?»
(per vomitarlo domani?)
hai la pelle che ti avvolge le ossa
ti fa da coperta scomoda stretta
ed è più fredda della bilancia
che non può misurarti l’accuratezza
dei falsi grammi d’aria che mangi
senza una fame precisa
che rigetti la sera riversa sul cesso
attenta soltanto a non sporcarti i capelli
(ma non preoccuparti: ci sto io a tenerteli
fermi, a vederli spezzarsi
tra le mie mani)
quasi ho paura se ci si scopa
che tu possa ingoiarmi e pentirti
oppure spaccarti, strapparti a metà
o romperti in due: tra te madre e un figlio inatteso
non avrei che il desiderio di un lampo
decesso. Perché
lo ammetto: non sono in grado
di darti alcun nutrimento
(io che confesso la mia disfatta
mi sembro più uomo che parassita)
e tu sei felice così, lo so
ma il tuo baricentro è l’assurdo
ti appoggi di stento con un occhio all’istinto
(che smorzi a morsi e poi lo risputi)
e l’altro rivolto a te specchio / cruna dell’ego
in attesa famelica che il tuo riflesso
sia più sottile del tuo sogno maniaco
fino al punto finale
di vederti sfilare attraverso:
un fantasma di carne
da setacciare
su terra magrissima.
Marcia dell’insonne
a Dome Bulfaro
Brucia l’ansia appena posi
la tua carne sopra il letto
e ti raschia la nevrosi
prima ancora del sospetto
che stanotte resti acceso
nonostante la stanchezza
e ti vedi che già preghi
una morte / la ricetta.
Nella stanza catacomba
non s’infila alcuna luce
ma il silenzio d’oltretomba
è crepato da una voce
senza timbro senza tono
e ti canta un ritornello
tanto aguzzo e bastardo
che somiglia ad un coltello –
tu non dormi tu non dormi.
Non ci badi ed alloggi
in un sogno che agonizza
e t’incagli nel sussurro
che quel sonno lo violenta
ed esplode in un suono
che ti urta da vicino
così scappi col pensiero
pur restando dentro il cranio
ma quel verso domicilia
tra le pieghe del lenzuolo
e t’inquina dal cuscino
con il fiato nell’orecchio –
tu non dormi tu non dormi.
E ti giri ti rigiri
nella culla del delitto
te la sudi come in guerra
strozzi sguardi sul soffitto
la condanna ti comanda –
ora àlzati e cammina –
scatti in piedi vai per casa
a cercare droga buona
ma la scorta è già finita
e del pusher non v’è traccia
vai di gocce giù a cascata
ed attendi la discesa
ma su in testa la granata
non zittisce quella pena –
tu non dormi tu non dormi.
E ti sventri con la doccia
che ti ustiona pelle e nervi
non si calma nella pancia
quel groviglio di serpenti
perciò voti la lettura
prendi in mano la recherche
ma sei tu che perdi tempo
per cui provi con la corsa
ma ti manca già il respiro
dopo appena mezzo metro
il tuo corpo non risponde
e meccanico ti spinge
verso il peggio della notte
che conosci troppo bene
dove premi tasti a caso
della tele che t’imbianca
che tu pensi sia d’aiuto
ma t’annoia non ti stanca
che tra film a basso costo
spot nocivi per il lutto
ti ripeti in catalessi
le disnote del reato
(tu non dormi tu non dormi)
e il cervello si ribella
disconnette la corteccia
e raccolto nel tuo coma
rassegnato nel pigiama
ti accontenti della vista
d’un terrazzo fronte mura
ma la luce d’alba sporca
ti cancella il tuo diritto
torni in casa e di corsa
ti rituffi nel tuo letto
giusto il tempo da bestemmia
che indovina cosa suona?
È la sveglia che beffarda
fa la stronza e ti domanda –
hai dormito? hai dormito?
Esci fuori sia di casa
che di testa e al lavoro
non ignorano le borse
piene colme sotto gl’occhi
e si fanno largo i mostri
col refrain che conosci –
tu non dormi tu non dormi –
e col bianco cartongesso
della notte sulle guance
dici «grazie sì sto bene»
ché non sai cos’altro dire
nel frattempo nelle vene
brucia l’ansia in acconto
che t’aspetta come sposa
nel tuo letto refrattario.
Sputi resa dai sospiri
resti privo di te stesso
non sopporti la sentenza
così penetra un pensiero
non ha senso quest’andare
vai vivendo così stremo
che stanotte quasi quasi
te la dormi sotto un treno.
sovrastruttura
negazione / scenografia del diluvio
la fin es necesaria
y la lluvia
no tan cara.
hai preparato questa farsa in vitro
che già si è fatta scena nella stanza
e indossi la tua maschera che stilla
lacrime che fanno presa e morsa
nello stomaco. e mi attraversi tutto
ti depositi su in gola dove occupi
lo spazio che era tuo e che riempi
di vuoti costruiti in cardiocrampi
imbastendo col tuo falso colloquiale
un sipario che separa sguardi e mondi
come dire il senso puro della vista
da ciò che la conquista. ti vantavi
dell’ottimo raccolto di carezze salivari
e colpi a spinta e moti per lo schianto
sesso stantuffato per il solo vano gusto
di non sentirti sola se io me ne andavo
a calci in cuore ad inseguire un senso giusto
del soffrire tutto questo. e sappi adesso
che hai detto che il tuo grembo è una tomba
di un codice genetico che di noi fu somma
prediligo lo starmene sommerso
sdraiarmi nel fondale di questo corpo stanco
della schiuma che ti pende dalla bocca
che se evapora condensa sulla mia
ma in te per te non è che ira fioca
e in me per te è grave malattia. vorrei
tanto trattenermi ma tu non lo permetti
e io così fradicio non riesco a stare zitto
ma già non mi sopporto in questo mio grondare
parole fabbricate in caso di conflitto
e cucite su misura per le tue feritoie. anzi
me ne vergogno nonostante la tua voglia
di un oceano di sangue. e provo doppia colpa
una per lasciarmi annegarmi in etanolo
l’altra l’implorare per una via di scolo. e prima
che la polpa all’osso non attracchi
cerco un molo a cui mirare / un faro che mi fori
questa nebbia statica sugli occhi
pronta a liquefarsi per farsi tua alleata
come se ‘sta carne non fosse già costretta
a dichiararsi arresa e levarsi in ritirata.
ti avrei anche perdonata ma non sai cos’è il perdono
hai eretto una scena amoralittica!
spento le campane messe a guardia e senza dirlo
messo in marcia le parole contro la mia grazia
e negata l’occasione di piantare tenda in mare.
vuoi costringermi alla rabbia! sembra che ti piaccia
se più ti urlo addosso tu più mi piovi contro!
e la fretta già ti crepa quella dolce boccadiga
da cui ti esce un’altra piena.
e ci si inonda ancora. in mezzo alla burrasca.
come se non ti bastasse tutta l’acqua che è caduta!
che mi costringe al nuoto aggrappato a un cuore d’odio
senza via d’uscita senza voglia di un esilio
dalla tua perfetta
scenografia del diluvio.
rabbia / morfologia dell’assenza
sei un’immagine virtuale una cardioproiezione
che lancia a caso trappole in attesa di uno scatto.
vivi sola e in posa nel mio schermo bianconotte
dove dormi sopra un letto di ossa rotte con piacere.
e non ti riesco a eliminare. sei un virus
resistente pure al sonno e alla farmacotagliola.
per questo inalo nebbia. per nasconderti la voce.
ma se sputo fuori il fumo ho paura di formarti
se lo tengo troppo a lungo dovrò dedicare il cancro
a te che mi hai giocato senza posta in palio
e hai barato a perdere. e al banco c’era un dio
annoiato dalla sfida e con una lama in mano.
e più attacchi / più mi scarti
sei un’ombra che s’insinua nello sguardo chiuso.
mi rompi la realtà se mi distrae un’altra voglia.
e ho ancora le catene che parlano al ricordo
di quando ero tuo. raggiante e indemoniato.
sei una statua cava che dà forma alla prigione.
hai inscritto l’ora d’aria nel programma di tortura.
non lasci riposare neanche il boia col tuo nome.
e nelle ragnatele mi hai lanciato spazzatura
di come saremmo stati. sai come martoriarmi
hai speso anni ad allenarti mentre io dormivo
con la schiena al muro in un sogno soffocato.
e più manchi / più mi stanchi.
sei lo stillicidio che dà ritmo ai tuoi controlli.
la tua rotta i miei rottami delle nostre collisioni.
hai scarnito questa casa per farne la mia bara
e costruisci eclissi quando il sole non mi entra.
e se crolla qualche stella resta in cielo la tua firma
che brilla in negativo solo quando guardo io.
sei una presenza muta ed è questa la tua forza
ma mi hai freddato già una volta. la seconda
ha la scadenza incisa su una scatola di xanax.
e più attacchi / più mi scarti / gli scarti.
e più manchi / più mi stanchi / gli avanzi.
mi resta qualche avanzo di collera tra i denti.
vieni tu a disincastrarli con fiammiferi già accesi.
e scoppi i tuoi petardi ai piedi dell’assuefazione
per metterla più in luce come se la tua miseria
non ti fosse sufficiente a inquinarmi la memoria.
e più mordi più m’infetti. non lasci che s’asciughi
il rivolo di sangue che mi sale lungo gli occhi.
rosso ed accecato vago armato non amato
finché trovo in orlo al baratro un grammo di silenzio.
più mi manchi e più mi stanchi.
indebolito lascio che i tuoi piani per bruciarmi
prendano l’avvio. sarò io la scintilla.
ché al di là dell’astinenza
studio ancora la tua forma
la morfologia dell’assenza.
patteggiamento / architettura del fuoco
usavi parole incollandole ai gesti.
come sempre e mai. ma nulla rimane
se lo àncori al tempo. e di questo delitto
m’incrimini e invochi un giudizio sommario
senza ascoltare le prove a mio carico. no. io
non credo alla tua versione di noi di
coppia spaiata incastratasi a forza che
nel tentativo di farcire le falle
celate dal sipario a forma di spalle
muore. no. è il tepore più comodo
che ci ha scavato. da corpi umani a crateri
e i panorami lunari / lontani.
guardami. potresti scambiarmi le gambe
con le lancette e farmi correre indietro.
ma no. senti l’urgenza di minare la strada.
e prima che ogni atomo esploda
raschi tutto il collante fra le nostre distanze.
basterebbe lo schianto delle mani focaie
sui nodi di nervi e di paglia che vivono in gola
per brillare il tuo folle ideale di stele e scoprire l’assenza
dei nostri nomi scolpiti. ché il destino
è un mosaico di pietre lanciate alla cieca.
un concetto corrotto. inventato
da chi evita corpi se ha ricordi indigesti.
ma tu non mi credi. e nutri la brace.
rifiuti la storia se non carbura la tua e
cancelli le tracce del mio passopensiero
sul tuo cardioconcerto e oltre il velo del cranio.
va bene. ma io non intendo sdebitarmi dell’odio.
a ognuno il passato che vuole e il diritto al riciclo.
si ha una vita soltanto e io non condanno chi
se la reinventa ogni volta che il cuore si scuce.
ti lascio dipingerti preda dato che sbrani
le pelle sterrata dal nostro stare allacciati.
se è ciò che cerchi / fino alla fine / sarò ciò che cerchi / lo giuro.
giuro stragiuro mi arrendo per l’ultima volta.
piango benzina per la mia sete.
rendo la cenere sterile. morte alle fenici domestiche.
e spremo dal silenzio ogni dubbio.
concentro nell’ultima mossa d’appiglio
la forza di darci l’estremo saluto.
tu sfama di voce l’incendio. e accendi l’incenso che
copre ogni sogno e lasciali fuori dal sonno.
aspetta che il suono del tuo perdono si faccia silenzio.
infine. sbroglia l’ingorgo dei resti. le scorie di noi.
fino a resettarti la trama. e se non bastasse
ad obliarmi / a farti mancare la frana
non dovrai che incolpare le ore. le ore
sul divano di cui eravamo estensione
incapaci di alzarci dalle nostre paure
ci hanno reso un roseto ammantato di spine.
eravamo stupendi oltre il tempo e gli eventi.
ma se spezzo i momenti quanto fragili e secchi.
ognuno inquilino del suo rogo privato.
pronto ad ardere insieme alla propria ragione.
se è questo che cerchi non voglio più oppormi
che il mio amore ama anche chi lo assassina.
e lo brucia. innescando il disastro.
il trasloco da corpi sfioriti e di fumo
a pixel di luce
nell’architettura del fuoco.
depressione / purgatorio della voce
passo dopo passo dopo passo dopo passo dopo passo dopo
passo dopo passo che cosa mi ci è rimasto?
passo e pesto: il pasto di tempo stempiato col puzzo di vecchio
a pensarmi già sotto: sepolto da un lotto di terra che mostra ai
lombrichi la via più veloce verso i miei buchi. ma spero
nell’orgia funebre in aria tra le mie ceneri e polvere a pioggia.
non parlo: non posso. non porto nemmeno la penna alla voce:
non scrivo: di norma io parlo col bianco di un foglio che sporco
se dico. ma resto in silenzio che impasto con mani saldate
formato preghiera: che lei incistita qui nella memoria almeno
non faccia cancrena.
resto: residuo. respiro la morte che sogno gorgogli in ritardo
dal polso rovescio. qui a galla forzata: nella vasca che pesca il
diluvio di dentro: sgorgo dall’io più mesto che vesto di rovi
incarniti: ed eccomi in abito d’alibi dei miei detriti.
propago le crepe: preparo il martirio che segue nell’imma-
ginario suicidio: e dall’alto mi sembro un infante che scalcia
contro la morte: o un latitante d’inverno che più del perdono
cerca una fine apparente nel suono di un treno che vivo lo
scagli lontano.
chi fugge. chi distrugge le prove. chi si protegge dallo
strapiombo: e io moribondo fattomi figlio del mio stesso
pianto: è tutta la vita che muoio: che scappo dall’odio: dal
cappio di questo comodo caldo delirio fiabesco: ed eccomi qui
nel da dove non esco: non riesco.
y aquì estoy mon amour aquì estoy y seguro que hoy no me voy
y aquì estoy mon amour aquì estoy.
e qui sto: esisto: insisto: scoperto nel mio stesso imbroglio a
volermi più morto che sveglio: e un orologio mal messo
sgonfia con sprezzo un tramonto più sporco dell’unico timbro
che emetto: il cardiosospiro: bacio che lancio di taglio sulla
città vestita di ghiaccio.
ritorna qualcosa: uno sparo di labbra: una risposta che alza la
posta: che porta la pace: e calo la notte giù in gola: smuovo le
corde alla foce: torno ad urlare: canto: lo svenimento della
luce: suono la fine
l’estradizione
dal purgatorio della voce.
accettazione / geografia del disgelo
ciao città clessidra
ho spento tutte le sveglie. stanotte e fino a mattina
voglio pestarti la schiena gelata
e godermi l’istante in cui capovolgi la faccia. nonostante
la violenza del freddo ricordi le sue carezze più stanche.
le tue insegne mi colano dentro la vista.
ti sciogli più lentamente di quanto l’orologio conceda.
hai perso il vizio di mostrarmi il suo viso
su pareti sgualcite dando colpa alla pioggia.
e alla mia cardioimmaginazione rotta.
sai la citi ogni volta che rifletti l’intermittenza dei neon
sulle tue guance di vetro. anche lei sparava e spariva.
andava a nascondersi tra le tue vertebre. per questo
ho le mani a forma di sberle lanciate ai tuoi viali.
e sui palmi la mappa in rilievo delle tue strade.
ma passeranno le forme. passeranno stanotte.
lascio alla marcia del ghiaccio lo sforzo
di eliminare ogni traccia del lutto. ora
c’è da godersi la parata dei mostri
sotto lampioni spioventi. sono i ricordi. hanno
disertato i miei geni. vanno a morire
perché io non mi possa più compatire.
città clessidra
possiamo accogliere il sole. invitarlo ad entrare
a stampare la luce sulle nostre assonanze.
abbiamo una storia in comune di bombe e macerie.
di amori presi per mano a passeggio e poi persi
in un aborto. nell’ammutinarsi.
ma adesso è tempo di amarci tra simili.
ti lancio i miei desideri più lividi. e
scambio nel cuore il suo col tuo nome.
ora che lei è svanita nel buio e il buio è scomparso
da questo lato del volto
lascio passare promesse rubate
le grondaie scolare le voglie più zuppe
e ti itinero ogni ventricolo vicolo
ogni piazza di spaccio d’ossigeno.
e ti leggo le saracinesche abbassate
in un movimento di palpebre. così
sarò la tua cartina epidermica e i volti
di tutti i tuoi monumenti strappati coi denti
e messi in valigia coi miei primi trent’anni. così
saremo soli. saremo salvi.
città clessidra
siamoci cura da adesso in avanti
da adesso che posso tornarmene a casa
e guardarmi allo specchio senza vedere
prima lei nel riflesso. e se guardo bene
vedo che ancora mi gocciolo addosso.
ma presto sarò asciutto. sarò un uomo
di nuovo caduto dal cielo. sarò
la geografia del disgelo.
Fotografia: Chiara Dazzi
Nicolas Cunial
Ha pubblicato tre libri di poesia: Pillole di carne cruda (2012); Carie di città (2013); Il sosia zero (2015), tutti per Edizioni La Gru. Ha pubblicato il romanzo L’innocenza della fuga (2016) con David&Matthaus. È stato vice Presidente della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Tutte le sue opere sono rappresentate dall’Agenzia Letteraria Edelweiss.
L’innocenza della fuga, David&Matthaus, 2016
Il sosia zero, Edizioni La Gru, 2015
Carie di città, Edizioni La Gru, 2013
Pillole di carne cruda, Edizioni La Gru, 2012
PIERGIORGIO VITI
da Se le cose stanno così.
Non andavo all’asilo volentieri,
perché le suore volevano
che indossassi quel grembiule
che mi rendeva uguale agli altri
e io invece mi sentivo diverso;
quando i compagni giocavano
io stavo per conto mio,
quando bisognava stare zitti,
a volte li infastidivo.
Ma loro – le suore intendo –
non mi punivano mai
e alle quattro, terminati i giochi,
ci facevano dormire sdraiati a terra,
in uno stanzone enorme.
Mia madre, quando era bel tempo,
nello stanzone enorme
non voleva che ci dormissi
e mi veniva a prendere;
nel buio, un rettangolino di luce:
mia madre e la suora sullo sfondo,
e io mi sentivo in colpa
di aver interrotto i sogni degli altri
di essere stato un intruso nei loro sogni.
Rachele
parla sempre a vanvera,
qualcuno dice
che le manca qualche venerdì.
Però lei sorride a tutti,
gira con una tracolla,
una polo da maschiaccio,
gli occhiali a fondo di bottiglia,
i capelli a spazzola
e quelle tette grandi
che non piacciono agli uomini.
Rachele
non piace agli uomini,
ma in fondo è felice
di essere così,
forse anche
di essere respinta,
perché si sente libera
di salutare dalla finestra
chi vuole,
di andare al bar degli operai
per prenderli un po’ in giro,
di spingere al parco
i passeggini degli altri.
Ride Valentina, ride
seduta sul divano,
dice che ha una parrucca diversa
per ogni occasione, che le mani
a volte non afferrano gli oggetti.
“Parestesia si chiama” , ma in fondo le cose
stanno bene dove stanno, e per qualsiasi
bisogno ha angeli custodi
in tutto il quartiere. Insomma
il cancro è una pacchia, penso,
mentre accendendosi una sigaretta
mostra delle foto, è felice.
“Devo morire di cancro,
mica di depressione” e poi
racconta di strani liquidi
che le escono dai piedi,
ogni volta che va dalla tossicologa.
“Sei quasi Gesù”, le dico, “ti manca
una Maddalena che te li asciughi
quei piedi”, mentre lei continua a ridere.
Ride Valentina, ride
non sa che i suoi occhi fanno più luce
di un intero pomeriggio a Roma.
(la maga)
Proprio non ti merita, quello
lascialo stare, che già
liscia altri capelli, imbocca altri seni,
è un serpente senza squame.
Scorda la sua ombra chiara
sul cuscino, l’eco della voce
che domanda dove sono le camicie,
evitalo come la rogna,
l’ortica che, rapinosa,
sviscera i tuoi muri.
(sopra i settanta)
Faremo la fila in farmacia
per uno di quei medicinali
che non hanno le vocali,
porteremo a spasso un cane
da compagnia, certo, anche se sta zitto…
Pisceremo più spesso in autostrada
per un viaggio sui sessanta all’ora,
inventeremo scuse all’oculista
ad ogni rinnovo della patente
e metteremo punti fermi
alle domande dei nipoti,
perderemo le dita
tra i loro capelli biondi
e a volte cambieremo canale
ma solo per farli contenti.
Fabio non è come tutti gli altri.
Qualcosa gli morde il cervello
e parla, parla del suo passato,
mai di cosa farà domani.
Ieri, al telefono,
ha raccontato della naia,
delle coincidenze perse,
di quando fu punito
perché aveva i capelli lunghi…
Fabio nei suoi racconti
ci si perde sempre,
come quella lettera del babbo
mai arrivata,
con centomila lire dentro.
Non esce più di casa,
è giallo come un panno sporco,
sta male, uno di quei mali
che ti ingoia pure le budella,
e passa le giornate
a smazzare solitari e tirar giù
qualche santo,
eppure prima non stava mai fermo,
lo vedevi in bici dal mattino
a respirare la nebbia
appoggiata sopra i campi,
e il figlio
il figlio se ne frega,
ha un’amante fresca
che pare un ciclamino,
e la domenica stanno via,
migrano, hai capito,
come le rondini
quando iniziano i temporali,
e la moglie
la moglie dovresti vederla,
sulle labbra ci appoggia quel rossetto
che tutti la stanno a guardare,
e non va mai a messa
a dire due parole al Signore,
a scambiarci insomma qualche confidenza,
che poi di cose da dire ne avrebbe,
molto più di noi…
inediti
(poesie d’amore ma non troppo)
Quando sei andata in ospedale,
ho iniziato.
Ero solo in casa
e ogni tanto bevevo,
bevevo vino rosso che
mi aiutava a non pensare.
Pensavo soltanto al vino
che era in frigorifero
e che poteva rovinarsi
se non lo bevevo.
Tornavo dalla passeggiata delle sette
e bevevo,
guardavo la tv e bevevo,
facevo lo scemo su Internet
e bevevo.
Fino a quando sei andata sotto ai ferri,
io ero agitato più di te
e ho continuato a bere.
Bacardi stavolta.
Mentre il chirurgo ti apriva il petto,
io ho finito tutti i Bacardi
del supermercato.
Così adesso tu
hai un cuore nuovo
mentre io,
io bevo solo Bacardi.
Quelle volte che suona il citofono,
penso sempre sia il postino
a consegnarmi una busta
piena di fogli
con note, sigle, numeri
scritti in piccolo
che mi ricordano
la visita annuale dell’oculista.
Oppure penso:
sono i testimoni di Geova,
vengono a dirmi
che Gesù è risorto
e che ha organizzato un party
per la sua Resurrezione.
Oppure ancora, penso:
è l’idraulico.
L’ho chiamato circa un anno fa
per ripararmi il water
e finalmente ha trovato il tempo
di darmi retta.
No, non penso mai che sei tu.
Per anni sono stato solo in casa
e nessuno mi cercava mai al citofono,
a parte qualche scocciatore
o, il sabato sera,
la padrona di casa
per gli arretrati dell’affitto.
·
Abbiamo aspettato la neve,
annunciata dalle previsioni meteo
e dai giornali, allo stesso modo
in cui si aspetta una cortesia,
un miracolo. Ci siamo rinchiusi
nella nostre tiepide stanze,
abbiamo ascoltato i pareri televisivi
e tra un canale e l’altro
abbiamo provato a fare l’amore.
Poi per la stanchezza
ci siamo addormentati
e, appena alzati, era mattina presto,
siamo corsi a guardare fuori,
sperando che una coltre bianca
avesse ovattato il cavalcavia,
i tetti, le auto in sosta.
Nulla di tutto questo.
La neve non è arrivata,
il miracolo, dicono, è solo rimandato.
Così, ci siamo vestiti,
lavati i denti, scambiato due parole
mentre io calzavo i pantaloni,
e siamo tornati alla vita di tutti i giorni,
ognuno per la sua strada,
a sperperare il bene
che ci vogliamo
e non ci siamo mai detti.
Leggiamo la posta
in terrazza. Passeggiamo quando
ne abbiamo voglia. La domenica, se vuoi,
portami la colazione a letto.
E fammi vedere che sei felice.
Che non hai bisogno di altro.
Che non devi uscire con gli amici.
Né che devi dimagrire, perché mi piaci
come sei. Non devi diventare più colta,
perché ti amo anche quando fai
le tue battute stupide. Viviamo questo amore
come capita. Senza torturare le segreterie
telefoniche, senza lasciare messaggi
insistenti. Mi sono chiesto tante volte se
i tuoi occhi sono pieni di acqua minerale.
Se si possono imbottigliare.
Magari contengono poco sodio
ed è un’acqua che fa pure bene.
Allora, continua pure a guardarmi
con quegli occhi azzurri, anche quando dormi,
e veglia sul mio sonno precario,
sui miei sogni irrealizzabili in cui
sono un campione di tennis, un attore famoso,
o semplicemente
un uomo felice, perché mi dormi a fianco.
Stanotte
eravamo in quel posto in mezzo ai monti,
dove si allevano le trote, ricordi? E tu, nell’erba
che borda le vasche, là, fra le trote
che increspano l’acqua, hai trovato un flauto
e hai iniziato a suonare. Tutto, intorno, si è fermato,
le montagne rimbalzavano l’eco
delle tue note e le trote, piano piano,
hanno iniziato a volare in cielo come uccelli.
Ginocchia.
Quelle che fletti
quando preghi
quando fai jogging
quando facciamo l’amore.
Sono dossi legamentosi
promontori
dove periferizza il sangue
da un Nord celestiale
ad un Sud terrestre.
Ginocchia.
Quelle che curvano
su un pedale,
che sfiorano le onde
fino alla scritta
“limite acque sicure”,
che accompagnano
il tuo presto, il tuo tardi.
Ginocchia.
Una volta sopra il cuscino
le ho mordicchiate
come fossero polpa,
polpa gustosa
di una mela renetta.
Piergiorgio Viti
Nel 2011 pubblica la sua prima raccolta di poesie, “Accorgimenti” (L’arcolaio editore), mentre nel 2015, per Italic, esce “Se le cose stanno così”.
Ha anche scritto per il teatro “La fiabola di Virginio e Virgilio” con Tosca protagonista e “I sogni di Ray” con Carlo Di Maio. Ha tradotto “I Preludi” di Alphonse de Lamartine con lettura di Ugo Pagliai e Paola Gassmann per il festival “Armonie della Sera”.
Nel 2016 fa parte del progetto fotografico-editoriale “Memory Card” (Hacca Edizioni) dell’artista Rita Vitali Rosati.
Le sue poesie vengono tradotte in rumeno da Geo Vasile e da George Nina Elian e in spagnolo dal giornalista e poeta argentino Jorge Aulicino.
Hanno parlato di lui, tra gli altri: Giorgio Linguaglossa nel suo blog, Daniele Piccini e Franco Manzoni su “La Lettura” del Corriere della Sera, Simone Gambacorta su “La città”, Roberto Deidier con una nota su “Alianto”, Gian Paolo Grattarola su “Mangialibri”, Renato Minore sul “Messaggero”, Filippo Davoli su “Quidculturae”.
GABRIELLA VIOTTO
Bella lupa con la coda d’argento
nella tana hai lasciato i tuoi bigodini
per la piega che prenderà la mia forma
e per la notte c’è una ciotola vuota
dove consegnare una solitudine più grande
hai chiamato futuro come fossimo ragazze
impigliate dal filo spinato
intente a nascondere la preda
nell’ora di punta del crimine
nell’ora d’aria del tuo funerale
hai chiamato tesoro la paura che avevo
di tornare sola al mondo.
Il mattino non ha stelle, non ha sogni,
una ferita larga sul petto
s’allunga fino al colore vermiglio del cielo;
nessuna terra assorbirà il mio dolore.
Di piccole chiacchere la strada s’infatua,
io guardo partire gli uccelli
in piccole macchie bluastre,
tra i loro becchi scorrono storie
dolcissime
ed io non so se la vita si è fermata adesso.
Nevica intorno distante pressappoco,
la luna sbianca da lontano
pochi centimetri di magia,
e sul mare, come sarà?
Sarà neve azzurra che fiocca
dalla grande bocca del cielo,
la terra ingorda, riceve e tace.
Un filo di rumore scuote le punte
degli alberi,
e le strade rigate serpeggiano
non badando al mio cuore,
la notte ha partorito il suo buio,
doveroso sussulto di paura,
e adesso la neve ha perso il ritmo
e la luna va in cerca di luce.
Amo con furore e non sono mai sazia
e pur cerco un mio comodo posto
un mare amante un albero sposo una montagna mamma
amo con rabbia e non confondo
lo sposarsi il disfarsi l'appartenersi
amo il mondo e pur cerco un universo
una sola moltitudine uno spazio terso
non questa catarsi questo molle donarsi
questo dire domani questo probo perdonarsi
amo con gioia bruciante
come un germoglio di vita un mite germoglio
che dalla neve perla e dal gelo argento
si fa culla di ogni tormento
amo con la carne con il sangue
con la ruvida grazia del principiante.
Hai messo il completo gessato dei giorni di festa
hai preso il taccuino delle spese
hai attraversato il dolore in un punto piano
hai messo apnea dove c’era respiro
hai teso nel buio un confine
hai atteso l’ora di arrivo sotto nuvole stelle
dalle strade roventi non arrivava nessuno
poi tutti si sono affacciati quando sei partita
è passata l’ora imputata in un diluvio di attese
non hai preso nessuna misura nessuno che sia venuto
a tenerti il braccio a raccontarti una storia che sia chiaro
non venderai la casa il bracciale serpente
adesso il tempo si solleva e si può sbirciare
la commozione si allarga tutta in petto
questi gli appunti minimi di felicità
potremo abbracciarci spingerci scavare?
riprenderci rimediare sottrarre?
Come sei mondo, come fai a sopportare a gemere
ad allegrare e metterti gonne
nelle arie estive nelle nere bufere e nuove ecatombe
come sei mondo, cosi assoluto, azzurro e tondo
e ti fanno immondo dalle tue formiche ai tuoi vulcani
passerai anche tu
o starai sempre intorno ad un baccano ad un inferno
in un girotondo di corpi e pietre
e pietre e stelle e maree e ti compatisco
ti prendo in petto ti prendo in giro ti dileggio
ti faccio il muso ti sollevo ti assolvo
e tu chiedi pietà a noi tutti sfacciati
e tu chiedi amore come un nascituro
come un accattone, in libertà provvisoria
dove sono le tue intenzioni di gloria
solo un centro ti manca un asse
a cui appoggiarti un bastone da vecchio.
Sempre dentro al sangue diluvia
dentro al rosso sangue del tuo peccato
e nella malia della rete dei miei capelli
dentro al ruvido tramestio
di un giorno a un altro uguale
e si campa come al meglio di un bene
solo in parte intravisto
dentro allo spumeggiare di un'onda di ritorno
dentro al mare degli affari delle relazioni
e viene un colpo in bocca un laccio al collo
il mondo si mette improvvisamente
a ciabattare l'estate si rovescia addosso
secchiate di fatiche
viene una patina che tutto ammutolisce
e non ci si ferma più
sotto la gonna della stellata
a rimirare tutti i mancamenti.
Cosa vuoi che accada ad una vita che non è più intera
una fetta di giorni e due orti di fragole
e dal suo liquido centro un vuoto incessante
cascate di spavento e non si vede il davanti,
qui se apri la finestra
arriva odore di fritto, di gelsomino e di pattumiera.
Qui non succede niente di molto sbagliato
un fragore un boato cosa vuoi che sia
una terra di mezzo
che fa zitti tutti e assedia
che fa confine stretto
qui non è posto per le fragole
semmai un altro altare per il ripetitore
da qui non si parte è terra battuta
e chi viene è giovane ha il conto aperto
molte foglie per ramo molti capelli
prepara pastasciutte lascia la cuccia vuota
e se semina disperde il grosso apposta
hai visto il tempo, stavolta
ha messo giù il culo.
Io il mio male non lo conosco ancora
appare e scompare in un ventaglio di posti
uno spleen adolescente un herpes dolente
si accuccia e dorme a volte attende la svolta
da precario a bene ordinario
io per me vorrei una parola sola un tuffo a mare
un pennello di setola straordinaria
che tutto stesse dentro una sporta una battuta che stenda
un affare silenzioso di pasta di sostanza
non pronunciare più la parola futuro
e dire io per dire noi che stiamo attenti
a quello che mangiamo non a quello che ingoiamo
che succhiamo forte un sangue amaro che rimestiamo
una polenta di abitudine e convenienza io il mio male
lo scollo forte lo respiro appena lo tengo a bada
gli faccio sentire tutto il mio amore.
La stazione dei treni è un deserto pieno di sabbia
sputa granelli rossi e neri sono persone
che non appaiono nei giornali
oppure si quando qualcuno se ne occupa
sono rumori assordanti sono pene pungenti
la sabbia stanziale che la tempesta non preleva
la puzza della stazione fa deserto comunque
la stazione dei treni partorisce il tempo inesorabile
il ciclo inesauribile dal vento alla terra
l’altoparlante semina ansia
ci chiudiamo in sala d’aspetto
pettinando un attimo il deserto
classificando i granelli in tonalità
più o meno minacciose
qualcuno sta arrivando da lontano
porta con sé il proprio deserto
ha il cappotto a spina di pesce
e gli occhi acquamarina
adesso scende
sembra una via crucis
questa stazione.
Non morirò sola ma qua intorno
in mezzo ai piedi rompipalle di natura
in una folla certa che mi guarderà morire
in un giorno di sole
avrò le mutande l’acquasanta il tuo sorriso
sarò figlia di zingara fata azzurrina
occhio di madonna della primavera
sarò di un peso adeguato alla circostanza
maturata in un evento inevitabile
sarò un incidente probatorio
sarò la giada degli occhi del mio gatto Ernesto
vorrò tutta la vostra attenzione non una preghiera
qualunque vorrò tutte le vostre domande
il voto in condotta il fiato in bocca
e una bacio di celeste fattura.
Senti che bel vento che viene a sparigliare
i pioppi narcisissimi e le roverelle
della gola del Furlo
senti che bel canto, son tutti i nostri morti
e proviamo a riprodurne i suoni
le loro forme erette
o distese su schiene cave o a dirne
le parole che da vivi forbirono.
Lo vedi il cielo delle Cesane non muta
e il Metauro si svena fino al mare
sinuoso e docile come una carezza
ora verde ora fango ora una buca scura
un filo uno spago lacrimoso
che sbava tra i ciottoli.
Un fiato di natura un'ala larga
una falcata dove il gorgo inghiotte
e siamo dall'altra parte
dove si arriva soli.
Stare sottocoperta in un giorno di pioggia
sforare tutte le ore stare di lato in mezzo affatto
distesi comodamente su una qualsiasi felicità
pensando a una prima parola come vita morte
di che spessore vorremmo il prossimo respiro
di che timbro una cosa ancora non conosciuta
e gli occhi gli occhi che non temono
una così perfetta misura una folle altezza
e non saremo più quindi in sorpasso e di vertigine
ficcati in una crepa di mondo nella frattura fascinosa di un evento
e portati avanti da un flusso da un’emorragia di inquietudini
e ci siamo accontentati abbiamo deviato abbiamo fatto carne
meno silenziosa e scivoliamo senza sforzo
verso un liquido stare fino all’invisibile
e c’indigniamo se piove se il malaffare sovrasta
ma non sappiamo stare controvento
nudi a cercare una forma aderente
ci adattiamo ad altri corpi sperando
che abbiano partorito sogni.
Tu sei un albero femmina
e hai ospitato molteplici nidi
e hai disfatto molteplici nidi
per la tua chioma emancipata, s’intende
piace tendere sempre all’azzurro
verso un cielo sempre mobile sempre più in là
cambiare foglie ad ogni stagione
cambiare comunque
piace stare a braccetto in disparte
muovere labbra stendere rossetto
piace dire se fossimo zingare
se fossimo thelma e louise
piace muovere montagne e maometto
procedere in ordine sparso
far finta di essere balenghe
far finta dolcezza
tu sei un gioiello femmina
te lo metti al dito il dolore
poi metti la coda a pavone
per gli ospiti uccelli.
Siate voi maestosa natura
una sciantosa lucentissima
matrona potentissima
che tutto inseminate
con la concimaia degli eventi.
Siate sempre di cervello fino attenta
a chi vi sgarba a chi crede di
scavalcare la vostra portata.
Siate femmina scandalosa siate
a tutti in bocca siate sempre
di sostanza siderale governante
del sublime e del normale.
Siate capricciosa e riposate qualche volta
prendetevi una stagione e celebratela
a briglia sciolta.
Abbiate doglie mal di capo
e lasciate pure a noi
una goliardica ignoranza
l'insulsa pretesa di domarvi
senza creanza.
Antonio Pane, Caffe’Michelangiolo, 2001.
Gabriella Viotto “Scrive, si può dire, da sempre: a raffiche, a intermittenze non provocate né artificialmente protratte, quasi adempiendo a un ordine di cui ignora l’origine o il fine. La sua prima persona è tutto meno che rivendicazione autobiografica: è furore di mente assediata da un flusso biologico che cerca di venire alla luce; ed insieme risposta perentoria, dettata da una regale, siderea distanza. La scrittura che la pronuncia, come quella di Sandro Penna o di Anna Maria Ortese, non ha antecedenti, non ha sviluppi. Sempre uguale a se stessa, priva di strumentazioni tecniche (non saprebbe che farsene) non deve inventarsi, di volta in volta, uno stile: i comandi della grazia non sanno nemmeno distinguere tra prosa e poesia.”
Gabriella Viotto
Scrivo per necessità da quando ero bambina. Ho pubblicato tre raccolte di poesie su www.ilmiolibro.it. Alcune mie poesie sono apparse sulle riviste “Regioni Panorama” ( scomparsa) e “Caffè Michelangiolo” e su una Antologia edita da Aletti Editore.
Le fotografie sono a cura dell'autrice.