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POESIA proposta

La pagina, con differenti testi,  viene presentata per gentile concessione dell'autrice e o dell'autore a Pioggia Obliqua


NICOLAS CUNIAL

Fotografia: Chiara Dazzi

 

 

NICOLAS CUNIAL

 

 

 

 

BLACK IN / BLACK OUT

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Planetario

 

 

 

Forse confondo le confusioni

perché mi conto più dubbi che giorni

ma ho due pianeti al posto degli occhi

li disegno sul muro

                               (poi pulisco lo giuro)

 

si vive in un tempo protocollato

tra visite da calendario e l’orario

del deperimento / del farmaco effetto.

Si vive di schemi e gioco di ruoli

di costanti silenzi scontati

per mostrarcisi male / malati.

Ma c’è un momento in cui mi do conto

che sono felice: è quando disegno

i miei occhi più grandi del mondo

perché lo contengo nel nero del bulbo

e il bianco contorno è l’universo

in cui nuoto di notte se mi addormento

se il giorno l’ho perso a muovere scacchi

con chi fa la cronaca dei gesti più semplici:

«guarda, lei ha preso una penna

guarda, lui sta toccando la tenda»

e silenziosa mi fissa gli spacchi

coi suoi pianeti disabitati.

Dipingo soltanto il circo che vedo

io bestia lasciata alla sete di gioco

costretta incastrata dove non si respira

in questa camicia che non si stira.

 

Forse confondo le confusioni

perché mi conto più dubbi che giorni

ma ho due pianeti al posto degli occhi

li disegno sul muro

                               (poi pulisco lo giuro)

 

si vive di sedute e dosaggi

di diritti pestati e ora detriti

di pasti scaldati e assaggi gentili

per evitarci il più dei conati.

Si vive di docce in divisa

divisi dall’altro

l’amore è bandito ma se si fa buio

se le luci si spengono

arrivano mani a intrufolarsi nel letto

e può succedere che non siano mie

ma di chi ha più voglia

e non sa cosa tocca ma sa ricucire

senza parlare/mostrare/manie.

Così la mattina con le dita pastello

ritraggo lettini vibranti / il cigolio

le spinte e gli strappi degli organi scelti

il suono e la voce che mai dice addio

né dice: «ciao sono io, è stato stupendo».

No: qui è un rancio di sesso randagio

la regola vuole che va bene fin quando

i grembi non crescano / non ci sia parto.

 

Forse confondo le confusioni

perché mi conto più dubbi che giorni

ma ho due pianeti al posto degli occhi

li disegno sul muro

                               (poi pulisco lo giuro)

 

adesso che ho finito lo spazio

e il planetario è completo

mi legate le mani con cinghie

a un letto disfatto da carne di scarto

            (avanti uno e poi l’altro)

in attesa del turno delle briglie di cuoio

con l’urlo di unghie dal corridoio / esasperato

            (avanti uno e poi l’altro)

è richiesta in reparto

                                        la morte che perde

ché non mi prende se mi attaccate

la testa a uno schermo / lo sguardo all’inferno

fermo fissato / un cristo all’altare

con particole in ferro freddo sui lobi

io cimice in camice sacrificale

addento indolente un sorriso di legno

per preservare lo smalto del ghigno

dai crampi che vengono a farmi la festa

una scossa che straccia che scassa la testa

per farmi confondere le confusioni

diradare la nebbia planetaria dagli occhi

rotolati all’indietro per le convulsioni

e così eliminare ogni dubbio futuro

per cancellare i disegni sul muro.

 

Forse ho confuso le confusioni

nel cassetto di casa ho più dubbi che assiomi

e due pianeti al posto degli occhi

che disegno sul muro, in silenzio, da solo.

 

Di queste follie io sono le stanze

che non accettano pareti bianche.

 

 

 

 

 

 

 

 

In discotesta

 

 

 

La depressione è come una festa

che non ha fine. E in discotesta

va tutto bene, ma fuori

fra le rovine/deserte/polari

il vento molesto non smette di dire:

«forse a te piace non stare bene»

 

(ma in discotesta

            c’è la musica alta / spacca le orbite

che se ci parliamo non ci capiamo

ma in fondo che importa, tanto qui conta

che la mia faccia dipinta a sorriso

non pianga solvente sopra la tinta

o mostrerebbe che sotto a ‘sto trucco

c’è un volto da guerra, quasi distrutto

 

e c’è

            la spinta di testa per l’uso di droga

gocce e pasticche che pompano pace

che pompano voglia di

gioire/sudare/cardioalitare

per almeno un paio di ore

il tempo che vi è necessario

a scordarvi che muoio / pensarmi guarito

io che casco se spinto

da una parola / la forza di un dito

 

e c’è

            la fatica per ogni mio gesto

per alzarmi dal letto / dal divanetto

per raggiungere il bagno, lo sforzo

di salutare chi neanche conosco, lo strazio

nel guardarmi allo specchio

e sentirmi alla vita fissato

dai soli magneti / della fame / del fiato

 

e c’è

            il distacco dei piani

io nell’arena da solo e il mondo sul cubo

che si dimena nel buio che sputa

e vuole soltanto che io mi diverta

perché confonde l’abisso e la noia

così mi tira dentro le fila

come se questo fosse la vita

non il problema ma la porta d’uscita)

 

la depressione è come una festa

che non ha fine. E in discotesta

non va così male, ma fuori

fra le rovine/deserte/polari

il vento molesto non smette di urlare:

«forse dovresti vedere qualcuno»

nulla è più vero

e quel qualcuno dovrei essere io

ma non mi vedo

e da qui grido che anche se esco

da questo locale / dal male

comunque sarei ostaggio del freddo

delle rovine/deserte/polari

e fra il morire sicuro di gelo

e ballare con l’aria da morto

non c’è differenza

quindi meglio far festa

aspettando che fuori l’inverno

o si consumi o entri qui dentro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Amoressia

 

 

 

A digiuno di sguardi da mesi

domandi: «cosa mangiamo stasera?»

                   (per vomitarlo domani?)

 

hai la pelle che ti avvolge le ossa

ti fa da coperta scomoda stretta

ed è più fredda della bilancia

che non può misurarti l’accuratezza

dei falsi grammi d’aria che mangi

senza una fame precisa

che rigetti la sera riversa sul cesso

attenta soltanto a non sporcarti i capelli

(ma non preoccuparti: ci sto io a tenerteli

fermi, a vederli spezzarsi

tra le mie mani)

 

quasi ho paura se ci si scopa

che tu possa ingoiarmi e pentirti

oppure spaccarti, strapparti a metà

o romperti in due: tra te madre e un figlio inatteso

non avrei che il desiderio di un lampo

decesso. Perché

lo ammetto: non sono in grado

di darti alcun nutrimento

(io che confesso la mia disfatta

mi sembro più uomo che parassita)

 

e tu sei felice così, lo so

ma il tuo baricentro è l’assurdo

ti appoggi di stento con un occhio all’istinto

(che smorzi a morsi e poi lo risputi)

e l’altro rivolto a te specchio / cruna dell’ego

in attesa famelica che il tuo riflesso

sia più sottile del tuo sogno maniaco

fino al punto finale

di vederti sfilare attraverso:

un fantasma di carne

da setacciare

su terra magrissima.

 

 

 

 

 

 

 

 

Marcia dell’insonne

a Dome Bulfaro

 

 

Brucia l’ansia appena posi

la tua carne sopra il letto

e ti raschia la nevrosi

prima ancora del sospetto

che stanotte resti acceso

nonostante la stanchezza

e ti vedi che già preghi

una morte / la ricetta.

 

Nella stanza catacomba

non s’infila alcuna luce

ma il silenzio d’oltretomba

è crepato da una voce

senza timbro senza tono

e ti canta un ritornello

tanto aguzzo e bastardo

che somiglia ad un coltello –

tu non dormi tu non dormi.

 

Non ci badi ed alloggi

in un sogno che agonizza

e t’incagli nel sussurro

che quel sonno lo violenta

ed esplode in un suono

che ti urta da vicino

così scappi col pensiero

pur restando dentro il cranio

ma quel verso domicilia

tra le pieghe del lenzuolo

e t’inquina dal cuscino

con il fiato nell’orecchio –

tu non dormi tu non dormi.

 

E ti giri ti rigiri

nella culla del delitto

te la sudi come in guerra

strozzi sguardi sul soffitto

la condanna ti comanda –

ora àlzati e cammina –

scatti in piedi vai per casa

a cercare droga buona

ma la scorta è già finita

e del pusher non v’è traccia

vai di gocce giù a cascata

ed attendi la discesa

ma su in testa la granata

non zittisce quella pena –

tu non dormi tu non dormi.

 

E ti sventri con la doccia

che ti ustiona pelle e nervi

non si calma nella pancia

quel groviglio di serpenti

perciò voti la lettura

prendi in mano la recherche

ma sei tu che perdi tempo

per cui provi con la corsa

ma ti manca già il respiro

dopo appena mezzo metro

il tuo corpo non risponde

e meccanico ti spinge

verso il peggio della notte

che conosci troppo bene

dove premi tasti a caso

della tele che t’imbianca

che tu pensi sia d’aiuto

ma t’annoia non ti stanca

che tra film a basso costo

spot nocivi per il lutto

ti ripeti in catalessi

le disnote del reato

(tu non dormi tu non dormi)

e il cervello si ribella

disconnette la corteccia

e raccolto nel tuo coma

rassegnato nel pigiama

ti accontenti della vista

d’un terrazzo fronte mura

ma la luce d’alba sporca

ti cancella il tuo diritto

torni in casa e di corsa

ti rituffi nel tuo letto

giusto il tempo da bestemmia

che indovina cosa suona?

È la sveglia che beffarda

fa la stronza e ti domanda –

hai dormito? hai dormito?

 

Esci fuori sia di casa

che di testa e al lavoro

non ignorano le borse

piene colme sotto gl’occhi

e si fanno largo i mostri

col refrain che conosci –

tu non dormi tu non dormi –

e col bianco cartongesso

della notte sulle guance

dici «grazie sì sto bene»

ché non sai cos’altro dire

nel frattempo nelle vene

brucia l’ansia in acconto

che t’aspetta come sposa

nel tuo letto refrattario.

 

Sputi resa dai sospiri

resti privo di te stesso

non sopporti la sentenza

così penetra un pensiero

non ha senso quest’andare

vai vivendo così stremo

che stanotte quasi quasi

te la dormi sotto un treno.

 

                                               

                         sovrastruttura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

negazione / scenografia del diluvio

 

 

 

la fin es necesaria

y la lluvia

no tan cara.

 

hai preparato questa farsa in vitro

che già si è fatta scena nella stanza

e indossi la tua maschera che stilla

lacrime che fanno presa e morsa

nello stomaco. e mi attraversi tutto

ti depositi su in gola dove occupi

lo spazio che era tuo e che riempi

di vuoti costruiti in cardiocrampi

imbastendo col tuo falso colloquiale

un sipario che separa sguardi e mondi

come dire il senso puro della vista

da ciò che la conquista. ti vantavi

 

dell’ottimo raccolto di carezze salivari

e colpi a spinta e moti per lo schianto

sesso stantuffato per il solo vano gusto

di non sentirti sola se io me ne andavo

a calci in cuore ad inseguire un senso giusto

del soffrire tutto questo. e sappi adesso

 

che hai detto che il tuo grembo è una tomba

di un codice genetico che di noi fu somma

prediligo lo starmene sommerso

sdraiarmi nel fondale di questo corpo stanco

della schiuma che ti pende dalla bocca

che se evapora condensa sulla mia

ma in te per te non è che ira fioca

e in me per te è grave malattia. vorrei

 

tanto trattenermi ma tu non lo permetti

e io così fradicio non riesco a stare zitto

ma già non mi sopporto in questo mio grondare

parole fabbricate in caso di conflitto

e cucite su misura per le tue feritoie. anzi

me ne vergogno nonostante la tua voglia

di un oceano di sangue. e provo doppia colpa

una per lasciarmi annegarmi in etanolo

l’altra l’implorare per una via di scolo. e prima

 

che la polpa all’osso non attracchi

cerco un molo a cui mirare / un faro che mi fori

questa nebbia statica sugli occhi

pronta a liquefarsi per farsi tua alleata

come se ‘sta carne non fosse già costretta

a dichiararsi arresa e levarsi in ritirata.

 

ti avrei anche perdonata ma non sai cos’è il perdono

 

hai eretto una scena amoralittica!

spento le campane messe a guardia e senza dirlo

messo in marcia le parole contro la mia grazia

e negata l’occasione di piantare tenda in mare.

vuoi costringermi alla rabbia! sembra che ti piaccia

se più ti urlo addosso tu più mi piovi contro!

e la fretta già ti crepa quella dolce boccadiga

da cui ti esce un’altra piena.

e ci si inonda ancora. in mezzo alla burrasca.

come se non ti bastasse tutta l’acqua che è caduta!

che mi costringe al nuoto aggrappato a un cuore d’odio

senza via d’uscita senza voglia di un esilio

                                               dalla tua perfetta

                                                          scenografia del diluvio.

 

 

 

 

 

 

 

rabbia / morfologia dell’assenza

 

 

 

sei un’immagine virtuale una cardioproiezione

che lancia a caso trappole in attesa di uno scatto.

vivi sola e in posa nel mio schermo bianconotte

dove dormi sopra un letto di ossa rotte con piacere.

e non ti riesco a eliminare. sei un virus

resistente pure al sonno e alla farmacotagliola.

per questo inalo nebbia. per nasconderti la voce.

ma se sputo fuori il fumo ho paura di formarti

se lo tengo troppo a lungo dovrò dedicare il cancro

a te che mi hai giocato senza posta in palio

e hai barato a perdere. e al banco c’era un dio

annoiato dalla sfida e con una lama in mano.

 

e più attacchi / più mi scarti

 

sei un’ombra che s’insinua nello sguardo chiuso.

mi rompi la realtà se mi distrae un’altra voglia.

e ho ancora le catene che parlano al ricordo

di quando ero tuo. raggiante e indemoniato.

sei una statua cava che dà forma alla prigione.

hai inscritto l’ora d’aria nel programma di tortura.

non lasci riposare neanche il boia col tuo nome.

e nelle ragnatele mi hai lanciato spazzatura

di come saremmo stati. sai come martoriarmi

hai speso anni ad allenarti mentre io dormivo

con la schiena al muro in un sogno soffocato.

 

e più manchi / più mi stanchi.

 

sei lo stillicidio che dà ritmo ai tuoi controlli.

la tua rotta i miei rottami delle nostre collisioni.

hai scarnito questa casa per farne la mia bara

e costruisci eclissi quando il sole non mi entra.

e se crolla qualche stella resta in cielo la tua firma

che brilla in negativo solo quando guardo io.

sei una presenza muta ed è questa la tua forza

ma mi hai freddato già una volta. la seconda

ha la scadenza incisa su una scatola di xanax.

 

e più attacchi / più mi scarti / gli scarti.

e più manchi / più mi stanchi / gli avanzi.

 

mi resta qualche avanzo di collera tra i denti.

vieni tu a disincastrarli con fiammiferi già accesi.

e scoppi i tuoi petardi ai piedi dell’assuefazione

per metterla più in luce come se la tua miseria

non ti fosse sufficiente a inquinarmi la memoria.

e più mordi più m’infetti. non lasci che s’asciughi

il rivolo di sangue che mi sale lungo gli occhi.

rosso ed accecato vago armato non amato

finché trovo in orlo al baratro un grammo di silenzio.

 

più mi manchi e più mi stanchi.

indebolito lascio che i tuoi piani per bruciarmi

prendano l’avvio. sarò io la scintilla.

ché al di là dell’astinenza

            studio ancora la tua forma

                       la morfologia dell’assenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

patteggiamento / architettura del fuoco

 

 

 

usavi parole incollandole ai gesti.

come sempre e mai. ma nulla rimane

se lo àncori al tempo. e di questo delitto

m’incrimini e invochi un giudizio sommario

senza ascoltare le prove a mio carico. no. io

non credo alla tua versione di noi di

coppia spaiata incastratasi a forza che

nel tentativo di farcire le falle

celate dal sipario a forma di spalle

muore. no. è il tepore più comodo

che ci ha scavato. da corpi umani a crateri

e i panorami lunari / lontani.

 

guardami. potresti scambiarmi le gambe

con le lancette e farmi correre indietro.

ma no. senti l’urgenza di minare la strada.

e prima che ogni atomo esploda

raschi tutto il collante fra le nostre distanze.

basterebbe lo schianto delle mani focaie

sui nodi di nervi e di paglia che vivono in gola

per brillare il tuo folle ideale di stele e scoprire l’assenza

dei nostri nomi scolpiti. ché il destino

è un mosaico di pietre lanciate alla cieca.

un concetto corrotto. inventato

da chi evita corpi se ha ricordi indigesti.

 

ma tu non mi credi. e nutri la brace.

rifiuti la storia se non carbura la tua e

cancelli le tracce del mio passopensiero

sul tuo cardioconcerto e oltre il velo del cranio.

 

va bene. ma io non intendo sdebitarmi dell’odio.

a ognuno il passato che vuole e il diritto al riciclo.

si ha una vita soltanto e io non condanno chi

se la reinventa ogni volta che il cuore si scuce.

ti lascio dipingerti preda dato che sbrani

le pelle sterrata dal nostro stare allacciati.

 

se è ciò che cerchi / fino alla fine / sarò ciò che cerchi / lo giuro.

 

giuro stragiuro mi arrendo per l’ultima volta.

piango benzina per la mia sete.

rendo la cenere sterile. morte alle fenici domestiche.

e spremo dal silenzio ogni dubbio.

concentro nell’ultima mossa d’appiglio

la forza di darci l’estremo saluto.

tu sfama di voce l’incendio. e accendi l’incenso che

copre ogni sogno e lasciali fuori dal sonno.

aspetta che il suono del tuo perdono si faccia silenzio.

infine. sbroglia l’ingorgo dei resti. le scorie di noi.

fino a resettarti la trama. e se non bastasse

ad obliarmi / a farti mancare la frana

non dovrai che incolpare le ore. le ore

sul divano di cui eravamo estensione

incapaci di alzarci dalle nostre paure

ci hanno reso un roseto ammantato di spine.

eravamo stupendi oltre il tempo e gli eventi.

ma se spezzo i momenti quanto fragili e secchi.

ognuno inquilino del suo rogo privato.

pronto ad ardere insieme alla propria ragione.

se è questo che cerchi non voglio più oppormi

che il mio amore ama anche chi lo assassina.

e lo brucia. innescando il disastro.

il trasloco da corpi sfioriti e di fumo

                                               a pixel di luce

                                                          nell’architettura del fuoco.

 

 

 

 

 

 

 

 

depressione / purgatorio della voce

 

 

 

passo dopo passo dopo passo dopo passo dopo passo dopo

passo dopo passo che cosa mi ci è rimasto?

 

passo e pesto: il pasto di tempo stempiato col puzzo di vecchio

a pensarmi già sotto: sepolto da un lotto di terra che mostra ai

lombrichi la via più veloce verso i miei buchi. ma spero

nell’orgia funebre in aria tra le mie ceneri e polvere a pioggia.

 

non parlo: non posso. non porto nemmeno la penna alla voce:

non scrivo: di norma io parlo col bianco di un foglio che sporco

se dico. ma resto in silenzio che impasto con mani saldate

formato preghiera: che lei incistita qui nella memoria almeno

non faccia cancrena.

 

resto: residuo. respiro la morte che sogno gorgogli in ritardo

dal polso rovescio. qui a galla forzata: nella vasca che pesca il

diluvio di dentro: sgorgo dall’io più mesto che vesto di rovi

incarniti: ed eccomi in abito d’alibi dei miei detriti.

 

propago le crepe: preparo il martirio che segue nell’im­ma­-

ginario suicidio: e dall’alto mi sembro un infante che scalcia

contro la morte: o un latitante d’inverno che più del perdono

cerca una fine apparente nel suono di un treno che vivo lo

scagli lontano.

 

chi fugge. chi distrugge le prove. chi si protegge dallo

strapiombo: e io moribondo fattomi figlio del mio stesso

pianto: è tutta la vita che muoio: che scappo dall’odio: dal

cappio di questo comodo caldo delirio fiabesco: ed eccomi qui

nel da dove non esco: non riesco.

 

y aquì estoy mon amour aquì estoy y seguro que hoy no me voy

y aquì estoy mon amour aquì estoy.

 

e qui sto: esisto: insisto: scoperto nel mio stesso imbroglio a

volermi più morto che sveglio: e un orologio mal messo

sgonfia con sprezzo un tramonto più sporco dell’unico timbro

che emetto: il cardiosospiro: bacio che lancio di taglio sulla

città vestita di ghiaccio.

 

ritorna qualcosa: uno sparo di labbra: una risposta che alza la

posta: che porta la pace: e calo la notte giù in gola: smuovo le

corde alla foce: torno ad urlare: canto: lo svenimento della

luce: suono la fine

            l’estradizione

                       dal purgatorio della voce.

 

 

 

 

 

 

 

 

accettazione / geografia del disgelo

 

 

 

ciao città clessidra

ho spento tutte le sveglie. stanotte e fino a mattina

voglio pestarti la schiena gelata

e godermi l’istante in cui capovolgi la faccia. nonostante

la violenza del freddo ricordi le sue carezze più stanche.

le tue insegne mi colano dentro la vista.

ti sciogli più lentamente di quanto l’orologio conceda.

hai perso il vizio di mostrarmi il suo viso

su pareti sgualcite dando colpa alla pioggia.

e alla mia cardioimmaginazione rotta.

sai la citi ogni volta che rifletti l’intermittenza dei neon

sulle tue guance  di vetro. anche lei sparava e spariva.

andava a nascondersi tra le tue vertebre. per questo

ho le mani a forma di sberle lanciate ai tuoi viali.

e sui palmi la mappa in rilievo delle tue strade.

ma passeranno le forme. passeranno stanotte.

lascio alla marcia del ghiaccio lo sforzo

di eliminare ogni traccia del lutto. ora

c’è da godersi la parata dei mostri

sotto lampioni spioventi. sono i ricordi. hanno

disertato i miei geni. vanno a morire

perché io non mi possa più compatire.

 

città clessidra

possiamo accogliere il sole. invitarlo ad entrare

a stampare la luce sulle nostre assonanze.

abbiamo una storia in comune di bombe e macerie.

di amori presi per mano a passeggio e poi persi

in un aborto. nell’ammutinarsi.

ma adesso è tempo di amarci tra simili.

ti lancio i miei desideri più lividi. e

scambio nel cuore il suo col tuo nome.

 

ora che lei è svanita nel buio e il buio è scomparso

da questo lato del volto

lascio passare promesse rubate

le grondaie scolare le voglie più zuppe

e ti itinero ogni ventricolo vicolo

ogni piazza di spaccio d’ossigeno.

e ti leggo le saracinesche abbassate

in un movimento di palpebre. così

sarò la tua cartina epidermica e i volti

di tutti i tuoi monumenti strappati coi denti

e messi in valigia coi miei primi trent’anni. così

saremo soli. saremo salvi.

 

città clessidra

siamoci cura da adesso in avanti

da adesso che posso tornarmene a casa

e guardarmi allo specchio senza vedere

prima lei nel riflesso. e se guardo bene

vedo che ancora mi gocciolo addosso.

ma presto sarò asciutto. sarò un uomo

            di nuovo caduto dal cielo. sarò

                                              

                                                      la geografia del disgelo.

 

 

 

 

Fotografia: Chiara Dazzi

 

 

Nicolas Cunial

 

Ha pubblicato tre libri di poesia: Pillole di carne cruda (2012); Carie di città (2013); Il sosia zero (2015), tutti per Edizioni La Gru. Ha pubblicato il romanzo L’innocenza della fuga (2016) con David&Matthaus. È stato vice Presidente della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Tutte le sue opere sono rappresentate dall’Agenzia Letteraria Edelweiss.

L’innocenza della fuga, David&Matthaus, 2016

Il sosia zero, Edizioni La Gru, 2015

Carie di città, Edizioni La Gru, 2013

Pillole di carne cruda, Edizioni La Gru, 2012

 

 

 

 

PIERGIORGIO  VITI

Fotografia di Giulio Garavaglia
Fotografia di Giulio Garavaglia

 

 

da  Se le cose stanno così.

 

 

 

 

Non andavo all’asilo volentieri,

perché le suore volevano

che indossassi quel grembiule

che mi rendeva uguale agli altri

e io invece mi sentivo diverso;

quando i compagni giocavano

io stavo per conto mio,

quando bisognava stare zitti,

a volte li infastidivo.

Ma loro – le suore intendo –

non mi punivano mai

e alle quattro, terminati i giochi,

ci facevano dormire sdraiati a terra,

in uno stanzone enorme.

Mia madre, quando era bel tempo,

nello stanzone enorme

non voleva che ci dormissi

e mi veniva a prendere;

nel buio, un rettangolino di luce:

mia madre e la suora sullo sfondo,

e io mi sentivo in colpa

di aver interrotto i sogni degli altri

di essere stato un intruso nei loro sogni.

 

 

 

 

Rachele

parla sempre a vanvera,

qualcuno dice

che le manca qualche venerdì.

Però lei sorride a tutti,

gira con una tracolla,

una polo da maschiaccio,

gli occhiali a fondo di bottiglia,

i capelli a spazzola

e quelle tette grandi

che non piacciono agli uomini.

 

Rachele

non piace agli uomini,

ma in fondo è felice

di essere così,

forse anche

di essere respinta,

perché si sente libera

di salutare dalla finestra

chi vuole,

di andare al bar degli operai

per prenderli un po’ in giro,

di spingere al parco

i passeggini degli altri.

 

 

 

 

 

Ride Valentina, ride

seduta sul divano,

dice che ha una parrucca diversa

per ogni occasione,  che le mani

a volte non afferrano gli oggetti.

“Parestesia si chiama” , ma in fondo le cose

stanno bene dove stanno, e per qualsiasi

bisogno ha angeli custodi

in tutto il quartiere. Insomma

il cancro è una pacchia, penso,

mentre accendendosi  una sigaretta

mostra delle foto, è felice.

“Devo  morire di cancro,

mica di depressione” e poi

racconta di strani liquidi

che le escono dai piedi,

ogni volta che va dalla tossicologa.

“Sei quasi Gesù”, le dico, “ti manca

una Maddalena che te li asciughi

quei piedi”, mentre lei continua a ridere.

Ride Valentina, ride

non sa che i suoi occhi fanno più luce

 

di un intero pomeriggio a Roma.

 

 

 

 

 

 

(la maga)

 

Proprio non ti merita, quello

lascialo stare, che già

liscia altri capelli, imbocca altri seni,

è un serpente senza squame.

Scorda la sua ombra chiara

sul cuscino, l’eco della voce

che domanda dove sono le camicie,

evitalo come la rogna,

l’ortica che, rapinosa,

 

sviscera i tuoi muri.

 

 

 

 

 

 

(sopra i settanta)

 

Faremo la fila in farmacia

per uno di quei medicinali

che non hanno le vocali,

porteremo a spasso un cane

da compagnia, certo, anche se sta zitto…

Pisceremo più spesso in autostrada

per un viaggio sui sessanta all’ora,

inventeremo scuse all’oculista

ad ogni rinnovo della patente

e metteremo punti fermi

alle domande dei nipoti,

perderemo le dita

tra i loro capelli biondi

e a volte cambieremo canale

 

ma solo per farli contenti.

 

 

 

 

 

Fabio non è come tutti gli altri.

Qualcosa gli morde il cervello

e parla, parla del suo passato,

mai di cosa farà domani.

Ieri, al telefono,

ha raccontato della naia,

delle coincidenze perse,

di quando fu punito

perché aveva i capelli lunghi…

 

Fabio nei suoi racconti

ci si perde sempre,

come quella lettera del babbo

mai arrivata,

con centomila lire dentro.

 

 

 

 

 

 

Non esce più di casa,

è giallo come un panno sporco,

sta male, uno di quei mali

che ti ingoia pure le budella,

e passa le giornate

a smazzare solitari e tirar giù

qualche santo,

eppure prima non stava mai fermo,

lo vedevi in bici dal mattino

a respirare la nebbia

appoggiata sopra i campi,

e il figlio

il figlio se ne frega,

ha un’amante fresca

che pare un ciclamino,

e la domenica stanno via,

migrano, hai capito,

come le rondini

quando iniziano i temporali,

e la moglie

la moglie dovresti vederla,

sulle labbra ci appoggia quel rossetto

che tutti la stanno a guardare,

e non va mai a messa

a dire due parole al Signore,

a scambiarci insomma qualche confidenza,

che poi di cose da dire ne avrebbe,

molto più di noi…

 

 

 

 

 

inediti

 

(poesie d’amore ma non troppo)

 

 

 

 

Quando sei andata in ospedale,

ho iniziato.

Ero solo in casa

e ogni tanto bevevo,

bevevo vino rosso che

mi aiutava a non pensare.

Pensavo soltanto al vino

che era in frigorifero

e che poteva rovinarsi

se non lo bevevo.

Tornavo dalla passeggiata delle sette

e bevevo,

guardavo la tv e bevevo,

facevo lo scemo su Internet

e bevevo.

Fino a quando sei andata sotto ai ferri,

io ero agitato più di te

e ho continuato a bere.

Bacardi stavolta.

Mentre il chirurgo ti apriva il petto,

io ho finito tutti i Bacardi

del supermercato.

Così adesso tu

hai un cuore nuovo

mentre io,

io bevo solo Bacardi.

 

 

 

 

 

Quelle volte che suona il citofono,

penso sempre sia il postino

a consegnarmi una busta

piena di fogli

con note, sigle, numeri

scritti in piccolo

che mi ricordano

la visita annuale dell’oculista.

Oppure penso:

sono i testimoni di Geova,

vengono a dirmi

che Gesù è risorto

e che ha organizzato un party

per la sua Resurrezione.

Oppure ancora, penso:

è l’idraulico.

L’ho chiamato circa un anno fa

per ripararmi il water

e finalmente ha trovato il tempo

di darmi retta.

No, non penso mai che sei tu.

Per anni sono stato solo in casa

e nessuno mi cercava mai al citofono,

a parte qualche scocciatore

o, il sabato sera,

la padrona di casa

per gli arretrati dell’affitto.

 

 

 

·       

Abbiamo aspettato la neve,

annunciata dalle previsioni meteo

e dai giornali, allo stesso modo

in cui si aspetta una cortesia,

un miracolo. Ci siamo rinchiusi

nella nostre tiepide stanze,

abbiamo ascoltato i pareri televisivi

e tra un canale e l’altro

abbiamo provato a fare l’amore.

Poi per la stanchezza

ci siamo addormentati

e, appena alzati, era mattina presto,

siamo corsi a guardare fuori,

sperando che una coltre bianca

avesse ovattato il cavalcavia,

i tetti, le auto in sosta.

Nulla di tutto questo.

La neve non è arrivata,

il miracolo, dicono, è solo rimandato.

Così, ci siamo vestiti,

lavati i denti, scambiato due parole

mentre io calzavo i pantaloni,

e siamo tornati alla vita di tutti i giorni,

ognuno per la sua strada,

a sperperare il bene

che ci vogliamo

e non ci siamo mai detti.

 

 

 

 

 

Leggiamo la posta

in terrazza. Passeggiamo quando

ne abbiamo voglia. La domenica, se vuoi,

portami la colazione a letto.

E fammi vedere che sei felice.

Che non hai bisogno di altro.

Che non devi uscire con gli amici.

Né che devi dimagrire, perché mi piaci

come sei. Non devi diventare più colta,

perché ti amo anche quando fai

le tue battute stupide. Viviamo questo amore

come capita. Senza torturare le segreterie

telefoniche, senza lasciare messaggi

insistenti. Mi sono chiesto tante volte se

i tuoi occhi sono pieni di acqua minerale.

Se si possono imbottigliare.

Magari contengono poco sodio

ed è un’acqua che fa pure bene.

Allora, continua pure a guardarmi

con quegli occhi azzurri, anche quando dormi,

e veglia sul mio sonno precario,

sui miei sogni irrealizzabili in cui

sono un campione di tennis, un attore famoso,

o semplicemente

un uomo felice, perché mi dormi a fianco.

 

 

 

 

 

 

Stanotte

eravamo in quel posto in mezzo ai monti,

dove si allevano le trote, ricordi? E tu, nell’erba

che borda le vasche, là, fra le trote

che increspano l’acqua, hai trovato un flauto

e hai iniziato a suonare. Tutto, intorno, si è fermato,

le montagne rimbalzavano l’eco

delle tue note e le trote, piano piano,

hanno iniziato a volare in cielo come uccelli.

 

 

 

 

 

 

Ginocchia.

Quelle che fletti

quando preghi

quando fai jogging

quando facciamo l’amore.

Sono dossi legamentosi

promontori

dove periferizza il sangue

da un Nord celestiale

ad un Sud terrestre.

Ginocchia.

Quelle che curvano

su un pedale,

che sfiorano le onde

fino alla scritta

“limite acque sicure”,

che accompagnano

il tuo presto, il tuo tardi.

Ginocchia.

Una volta sopra il cuscino

le ho mordicchiate

come fossero polpa,

polpa gustosa

di una mela renetta.

 

 

 

Piergiorgio Viti 

 

Nel 2011 pubblica la sua prima raccolta di poesie, “Accorgimenti” (L’arcolaio editore), mentre nel 2015, per Italic, esce “Se le cose stanno così”.

 

Ha anche scritto per il teatro “La fiabola di Virginio e Virgilio” con Tosca protagonista e “I sogni di Ray” con Carlo Di Maio. Ha tradotto “I Preludi” di Alphonse de Lamartine con lettura di Ugo Pagliai e Paola Gassmann per il festival “Armonie della Sera”.

 

Nel 2016 fa parte del progetto fotografico-editoriale “Memory Card” (Hacca Edizioni) dell’artista Rita Vitali Rosati.

 

Le sue poesie vengono tradotte in rumeno da Geo Vasile e da George Nina Elian e in spagnolo dal giornalista e poeta argentino Jorge Aulicino.

 

Hanno parlato di lui, tra gli altri: Giorgio Linguaglossa nel suo blog, Daniele Piccini e Franco Manzoni su “La Lettura” del Corriere della Sera, Simone Gambacorta su “La città”, Roberto Deidier con una nota su “Alianto”, Gian Paolo Grattarola su “Mangialibri”, Renato Minore sul “Messaggero”, Filippo Davoli su “Quidculturae”.

 

Fotografia di Giulio Garavaglia
Fotografia di Giulio Garavaglia

 

 

 

 

 

 

 

 

 GABRIELLA VIOTTO

 

 

 

 

 

 

 

Bella lupa con la coda d’argento

 

nella tana hai lasciato i tuoi bigodini

 

per la piega che prenderà la mia forma

 

e per la notte c’è una ciotola vuota

 

dove consegnare una solitudine più grande

 

hai chiamato futuro come fossimo ragazze

 

impigliate dal filo spinato

 

intente a  nascondere la preda

 

nell’ora di punta del crimine

 

nell’ora d’aria del tuo funerale

 

hai chiamato tesoro la paura che avevo

 

di tornare sola al mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mattino non ha stelle, non ha sogni,

 

una ferita larga sul petto

 

s’allunga fino al colore vermiglio del cielo;

 

nessuna terra assorbirà il mio dolore.

 

 

 

Di piccole chiacchere la strada s’infatua,

 

io guardo partire gli uccelli

 

in piccole macchie bluastre,

 

tra i loro becchi scorrono storie

 

dolcissime

 

ed io non so se la vita si è fermata adesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nevica intorno distante pressappoco,

 

la luna sbianca da lontano

 

pochi centimetri di magia,

 

e sul mare, come sarà?

 

Sarà neve azzurra che fiocca

 

dalla grande bocca del cielo,

 

la terra ingorda, riceve e tace.

 

 

 

Un filo di rumore scuote le punte

 

degli alberi,

 

e le strade rigate serpeggiano

 

non badando al mio cuore,

 

la notte ha partorito il suo buio,

 

doveroso sussulto di paura,

 

e adesso la neve ha perso il ritmo

 

e la luna va in cerca di luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

Amo con furore e non sono mai sazia

 

e pur cerco un mio comodo posto

 

un mare amante un albero sposo una montagna mamma

 

amo con rabbia e non confondo

 

lo sposarsi il disfarsi l'appartenersi

 

amo il mondo e pur cerco un universo

 

una sola moltitudine uno spazio terso

 

non questa catarsi questo molle donarsi

 

questo dire domani questo probo perdonarsi

 

amo con gioia bruciante

 

come un germoglio di vita un mite germoglio

 

che dalla neve perla e dal gelo argento

 

si fa culla di ogni tormento

 

amo con la carne con il sangue

 

con la ruvida grazia del principiante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hai messo il completo gessato dei giorni di festa

 

hai preso il taccuino delle spese

 

hai attraversato il dolore in un punto piano

 

hai messo apnea dove c’era respiro

 

hai teso nel buio un confine

 

hai atteso l’ora di arrivo sotto nuvole stelle

 

dalle strade roventi non arrivava nessuno

 

poi tutti si sono affacciati quando sei partita

 

 

 

è passata l’ora imputata in un diluvio di attese

 

non hai preso nessuna misura nessuno che sia venuto

 

a tenerti il braccio a raccontarti una storia che sia chiaro

 

non venderai la casa il bracciale serpente

 

adesso il tempo si solleva e si può sbirciare

 

la commozione si allarga tutta in petto

 

questi gli appunti minimi di felicità

 

potremo abbracciarci spingerci scavare?

 

riprenderci rimediare sottrarre?

 

 

 

 

 

 

 

 

Come sei mondo, come fai a sopportare a gemere

 

ad allegrare e metterti gonne

 

nelle arie estive nelle nere bufere e nuove ecatombe

 

come sei mondo, cosi assoluto, azzurro e tondo

 

e ti fanno immondo dalle tue formiche ai tuoi vulcani

 

passerai anche tu

 

o starai sempre intorno ad un baccano ad un inferno

 

in un girotondo di corpi e pietre

 

e pietre e stelle e maree e ti compatisco

 

 

 

ti prendo in petto ti prendo in giro ti dileggio

 

ti faccio il muso ti sollevo ti assolvo

 

e tu chiedi pietà a noi tutti sfacciati

 

e tu chiedi amore come un nascituro

 

come un accattone, in libertà provvisoria

 

dove sono le tue intenzioni di gloria

 

solo un centro ti manca un asse

 

a cui appoggiarti un bastone da vecchio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sempre dentro al sangue diluvia

 

dentro al rosso sangue del tuo peccato

 

e nella malia della rete dei miei capelli

 

dentro al ruvido tramestio

 

di un giorno a un altro uguale

 

e si campa come al meglio di un bene

 

solo in parte intravisto

 

dentro allo spumeggiare di un'onda di ritorno

 

dentro al mare degli affari delle relazioni

 

e viene un colpo in bocca un laccio al collo

 

il mondo si mette improvvisamente

 

a ciabattare l'estate si rovescia addosso

 

secchiate di fatiche

 

viene una patina che tutto ammutolisce

 

e non ci si ferma più

 

sotto la gonna della stellata

 

a rimirare tutti i mancamenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa vuoi che accada ad una vita che non è più intera

 

una fetta di giorni e due orti di fragole

 

e dal suo liquido centro un vuoto incessante

 

cascate di spavento  e non si vede il davanti,

 

qui se apri la finestra

 

arriva odore di fritto, di gelsomino e di pattumiera.

 

Qui non succede niente di molto sbagliato

 

un fragore un boato cosa vuoi che sia

 

una terra di mezzo  

 

che fa zitti tutti e assedia

 

che fa confine stretto

 

qui  non è posto per le fragole

 

semmai un altro altare per il ripetitore

 

 

 

da qui non si parte è terra battuta

 

e chi viene è giovane ha il conto aperto

 

molte foglie per ramo molti capelli

 

prepara pastasciutte lascia la cuccia vuota

 

e se semina disperde il grosso apposta

 

 

 

hai visto il tempo, stavolta

 

ha messo giù il culo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Io il mio male non lo conosco ancora

 

appare  e scompare in un ventaglio di posti

 

uno spleen adolescente  un herpes dolente

 

si accuccia e dorme a volte attende la svolta

 

da precario a bene ordinario

 

 

 

io per me vorrei una  parola sola un tuffo a mare

 

un pennello di setola straordinaria

 

che tutto stesse dentro una sporta una battuta che stenda

 

un affare silenzioso di pasta di sostanza

 

non pronunciare più la parola futuro

 

 

 

e dire io per dire noi che stiamo attenti

 

a quello che mangiamo non a quello che ingoiamo

 

che succhiamo forte un sangue amaro che rimestiamo

 

una polenta  di abitudine e convenienza io il mio male

 

lo scollo forte lo respiro appena  lo tengo a bada

 

gli faccio sentire tutto il mio amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La stazione dei treni è un deserto pieno di sabbia

 

sputa granelli rossi e neri sono persone

 

che non appaiono nei giornali

 

oppure si quando qualcuno se ne occupa

 

sono rumori assordanti sono pene pungenti

 

la sabbia stanziale che la tempesta non preleva

 

la puzza della stazione fa deserto comunque

 

 

 

la stazione dei treni partorisce il tempo inesorabile

 

il ciclo inesauribile dal vento alla terra

 

l’altoparlante semina ansia

 

ci chiudiamo in sala d’aspetto

 

pettinando un attimo il deserto

 

classificando i granelli in tonalità

 

più o meno minacciose

 

 

 

qualcuno sta arrivando da lontano

 

porta con sé il proprio deserto

 

ha il cappotto a spina di pesce

 

e gli occhi acquamarina

 

adesso scende

 

sembra una via crucis

 

questa stazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non morirò sola ma qua intorno

 

in mezzo ai piedi rompipalle di natura

 

in una folla certa che mi guarderà morire

 

in un giorno di sole

 

avrò le mutande l’acquasanta il tuo sorriso

 

sarò figlia di zingara fata azzurrina

 

occhio di madonna della primavera

 

sarò di un peso adeguato alla circostanza

 

maturata in un evento inevitabile

 

sarò un incidente probatorio

 

sarò la giada degli occhi del mio gatto Ernesto

 

vorrò tutta la vostra attenzione non una preghiera

 

qualunque  vorrò tutte le vostre domande

 

il voto in condotta il fiato in bocca

 

e una bacio di celeste fattura.

 

 

 

 

 

 

 

 

Senti che bel vento che viene a sparigliare

 

i pioppi narcisissimi e le roverelle

 

della gola del Furlo

 

senti che bel canto, son tutti i nostri morti

 

e proviamo a riprodurne i suoni

 

le loro forme erette

 

o distese su schiene cave o a dirne

 

le parole che da vivi forbirono.

 

Lo vedi il cielo delle Cesane non muta

 

e il Metauro si svena fino al mare

 

sinuoso e docile come una carezza

 

ora verde ora fango ora una buca scura

 

un filo uno spago lacrimoso

 

che sbava tra i ciottoli.

 

Un fiato di  natura un'ala larga

 

una falcata dove il gorgo inghiotte

 

e siamo dall'altra parte

 

dove si arriva soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

Stare sottocoperta in un giorno di pioggia

 

sforare tutte le ore  stare di lato in mezzo affatto

 

distesi comodamente su una qualsiasi felicità

 

pensando  a una prima parola come vita morte

 

di che spessore vorremmo il prossimo respiro

 

di che timbro una cosa ancora non conosciuta

 

e gli occhi gli occhi che non temono

 

una così  perfetta misura una folle altezza

 

 

 

e non saremo più quindi in sorpasso e di vertigine

 

ficcati in una crepa di mondo nella frattura fascinosa di un evento

 

e portati avanti da un flusso da un’emorragia di inquietudini

 

e ci siamo accontentati abbiamo deviato abbiamo fatto carne

 

meno silenziosa e scivoliamo senza sforzo

 

verso un liquido stare fino all’invisibile

 

e c’indigniamo se piove se il malaffare sovrasta

 

ma non sappiamo   stare controvento

 

nudi  a cercare una forma aderente

 

ci adattiamo ad altri corpi sperando

 

che abbiano partorito sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tu sei un albero femmina

 

e hai ospitato molteplici nidi

 

e hai disfatto molteplici nidi

 

per la tua chioma emancipata, s’intende

 

 

 

piace tendere sempre all’azzurro

 

verso un cielo sempre mobile sempre più in là

 

cambiare foglie ad ogni stagione

 

cambiare comunque

 

 

 

piace stare a braccetto in disparte

 

muovere labbra stendere rossetto

 

piace dire se fossimo zingare

 

se fossimo thelma e louise

 

 

 

piace muovere montagne e maometto

 

procedere in ordine sparso

 

far finta di essere balenghe

 

far finta dolcezza

 

 

 

tu sei un gioiello  femmina

 

te lo metti al dito il dolore

 

poi metti la coda a pavone

 

per gli ospiti uccelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

Siate voi maestosa natura

 

una sciantosa lucentissima

 

matrona potentissima

 

che tutto inseminate

 

con la concimaia degli eventi.

 

Siate sempre di cervello fino attenta

 

a chi vi sgarba a chi crede di

 

scavalcare la vostra portata.

 

Siate femmina scandalosa siate

 

a tutti in bocca siate sempre

 

di sostanza siderale governante

 

del sublime e del normale.

 

Siate capricciosa e riposate qualche volta

 

prendetevi una stagione e celebratela

 

a briglia sciolta.

 

Abbiate doglie mal di capo

 

 

 

e lasciate pure a noi

 

una goliardica ignoranza

 

l'insulsa pretesa di domarvi

 

senza creanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Pane, Caffe’Michelangiolo, 2001.

 

 

Gabriella Viotto “Scrive, si può dire, da sempre: a raffiche, a intermittenze non provocate né artificialmente protratte, quasi adempiendo a un ordine di cui ignora l’origine o il fine. La sua prima persona è tutto meno che rivendicazione autobiografica: è furore di mente assediata da un flusso biologico che cerca di venire alla luce; ed insieme risposta perentoria, dettata da una regale, siderea distanza. La scrittura che la pronuncia, come quella di Sandro Penna o di Anna Maria Ortese, non ha antecedenti, non ha sviluppi. Sempre uguale a se stessa, priva di strumentazioni tecniche (non saprebbe che farsene) non deve inventarsi, di volta in volta, uno stile: i comandi della grazia non sanno nemmeno distinguere tra prosa e poesia.”

 

 

 

 

 

Gabriella Viotto

 

 

Scrivo per necessità da quando ero bambina. Ho pubblicato tre raccolte di poesie su www.ilmiolibro.it. Alcune mie poesie sono apparse sulle riviste “Regioni Panorama”  ( scomparsa) e “Caffè Michelangiolo” e su una Antologia edita da Aletti Editore.

 

 

 

Le fotografie sono a cura dell'autrice.

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 

" Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della "poesia onesta" di cui scriveva Saba non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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