R i c o r d o
d i
L u i g i B l a s u c c i
a cura di Elena Santagata
Durante i nostri incontri, Luigi (Gino) Blasucci sedeva alla sua scrivania, dietro a una fitta cortina di libri. Io mi accoccolavo su una poltroncina di vimini, sbocconcellando la scorzetta di arancia caramellata coperta di cioccolato fondente che lui mi aveva gentilmente offerto.
Le nostre lezioni avevano sempre un orario di inizio – le 18.30, religiosamente – ma mai uno di conclusione. Potevano durare fino alle nove di sera, il che significava arrivare tardi a casa per cena. Mia madre aveva cominciato a mettere in conto questo fatto e ritardava i tempi di cottura.
Gino amava insegnare, soprattutto alle persone giovani, e quando lo faceva perdeva il senso del tempo. Mi ha confessato più di una volta che questa sua passione gli derivava dagli anni passati come professore di liceo, un periodo che lui ricordava sempre non solo con nostalgia, ma anche con orgoglio.
Avevo diciannove anni quando è iniziato il nostro percorso didattico, insieme a lui ho preparato il mio esame di Stato – incredibilmente, per una strana congiunzione astrale, uscì una traccia su Montale – e a entrambi (ma in particolar modo a me) piaceva pensare che io fossi la sua ultima maturanda.
Lo abbiamo ripetuto spesso, fin quasi alla fine.
Con il passare del tempo, le nostre lezioni si sono concentrare maggiormente su alcuni autori, in particolare Leopardi e Montale. Mi ricordo che, di ritorno sulla strada verso casa, ripensavo quasi ossessivamente a ciò che Gino mi aveva detto durante il nostro incontro, con il grande timore di dimenticare i preziosi spunti che mi aveva dato ma che non avevo potuto trascrivere. Gino non amava che si prendessero appunti durante le lezioni, perché riteneva che ciò penalizzasse il dialogo critico. Succedeva così che lui esprimesse, con pacata tranquillità e nonchalance, idee profonde e estremamente originali, irripetibili, e che il tu in ascolto non avesse né un foglio né una penna con i quali prenderle all’amo dal pescoso lago di interpretazioni che era la conversazione. Ciò obbligava però a un notevole e fruttuoso sforzo critico: quello di rielaborare le affermazioni del Maestro aggiungendo, inevitabilmente, qualcosa di personale. Mi è sempre piaciuto pensare che questo fosse il vero obbiettivo di Gino: costringere l’allievo ad argomentare (fino anche a contraddire) le sue stesse parole.
Un giorno Gino mi ha detto che a trent’anni bisogna essere diventati degli studiosi veri, che è giunto il tempo della maturazione, bisogna aver scritto almeno un libro e aver interiorizzato un metodo: spesso, quasi involontariamente, mi ripeto questa frase.
Ieri, quando ho saputo della sua morte, ho riflettuto a lungo su quanto del suo modo di leggere e interpretare i testi sia rimasto in me, scoprendomi lieta, pur nella tristezza, di constatare che nessuno come lui ha saputo insegnarmi cosa significhi veramente ricercare.
Per Gino Blasucci la ricerca era una vera e propria quête cavalleresca: chi cerca deve prima perdersi, perché solo perdendosi nel testo si può trovare ciò che si stava realmente cercando. Si tratta di un complesso meccanismo di scoperta, che, nel bene o nel male, condurrà a un certo approdo, in una terra forse sconosciuta. Il critico, in principio convinto di voler dimostrare la sua tesi, fino a essere quasi accecato dalla certezza del fine ultimo, potrebbe invece scoprire che la quête lo ha condotto ad avvalorare l’esatto contrario: e ha comunque vinto, perché la confutazione della propria tesi – avrebbe detto Gino – è in ogni caso essa stessa una dimostrazione.
Gino non amava i progetti di ricerca, li paragonava a delle catene che imbrigliano la coscienza critica e costringono lo studioso a seguire un sentiero già tracciato, malgrado non sia necessariamente quello giusto. Perdersi, sbagliare o cambiare strada, entrare nel palazzo di Atlante senza paura di dimenticare come ci si è arrivati è la vera chiave per maturare una coscienza critica solida.
Oggi i più sono spaventati da questo metodo, perché implica abbandonare delle sovrastrutture mentali che danno sicurezza e stabilità, che ci conducono da un punto di partenza a un presunto traguardo senza che ci sia bisogno di mettersi in discussione.
Io, dal canto mio, mi impegno nel mettere in pratica le parole di Gino il più possibile e anche quando mi sembra che la mia interpretazione non porti a nulla di concreto, mi sforzo di cambiare punto di vista, come, mi piace pensare, avrebbe fatto lui.
Ancora oggi questo modo di lavorare continua a essere per me un’importante chiave di lettura della letteratura e forse anche di qualcosa di più.
Questo credo che sia stato «il primo dei suoi prestiti» e probabilmente il più importante.
Elena Santagata