UNA GOCCIA
D'INCHIOSTRO DI CHINA
scritti a cura di Cristina Banella
Haiku oltre i confini:
diciassette sillabe per sfuggire ai limiti
Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del
mondo.
(Arthur Schopenhauer)
Lo haiku è una forma di poesia con regole di base così apparentemente semplici – diciassette morae suddivise secondo una scansione di tre versi di cinque, sette e cinque morae, accompagnate da un riferimento alla stagione (Kigo) e ad una pausa – da dare l’impressione di essere una forma poetica accessibile a tutti, quasi ingenua, una fotografia del quotidiano o nel migliore dei casi un aforisma. In realtà si tratta di una forma fissa, così radicata nella tradizione giapponese che le modifiche che ha subito nel corso del tempo sono state spesso solo legate ad un ampliamento della rosa dei temi trattati o al linguaggio. Ma nonostante abbia uno schema così rigido, lo haiku apre insospettate possibilità di allargare i nostri orizzonti e oltrepassare i confini.
Il primo limite che possiamo superare avvicinandoci ad uno haiku classico è quello della nostra personale lettura. Un buon haiku, infatti, non è soltanto una riproduzione di una scena osservata o ‘giornalismo poetico’, come alcuni critici occidentali[i] hanno affermato, ma un invito ad andare oltre la ricostruzione mentale del paesaggio presentato con pochi tratti nei versi e a riagganciarsi a significati più profondi, spesso connessi all’essenza dell’esistere. Come diceva Masaoka Shiki (1867- 1902), uno dei padri dello haiku e paladino del realismo (shasei), a proposito delle opere realistiche: ‘si può anche avere l’impressione che siano un po’ superficiali, ma più le si assapora profondamente, maggiore è la varietà di mutamenti e di gusto che rivelano.”[ii]. Come vedremo, proprio una sua opera mostra al meglio come si possano superare i confini di un piccolo quadro.
Shiki, malato di tubercolosi, era un uomo nato sul limite di un’epoca, in un momento di cambiamento radicale del Giappone che dopo circa duecento anni di chiusura si apriva al mondo occidentale. Ma era in primo luogo un essere umano destinato a dover ‘andar oltre’, in molti sensi: oltre la durata dell’esistenza di un uomo per rimanere nella storia della letteratura giapponese, ed oltre i confini angusti delle diciassette morae dello haiku. Il primo limite da superare fu per lui squisitamente fisico: la sua tubercolosi infatti si complicò in tubercolosi ossea e, dal momento che non esisteva una cura, lo pose brutalmente a confronto con la consapevolezza della morte e lo confinò giovanissimo in spazi via via più stretti - una stanza e poi un futon - , costringendolo ad una lotta quotidiana col dolore fisico e la disabilità. Scrive Shiki nel suo diario, Byōshō Rokushaku (‘Un letto di malato lungo un metro e ottanta, 1902):
‘Un letto di malato lungo un metro e ottanta, ecco il mio mondo. Però questo letto è anche troppo grande. A malapena posso allungare una mano e toccare il pavimento coperto di stuoie ma non posso stendere le gambe fuori dal futon e mettermi un po' più comodo. Nei momenti peggiori, vengo assalito da un dolore così estremo da non potermi più muovere di un millimetro per almeno cinque minuti. Dolore, tormento, pianti disperati, analgesici: la vanità di desiderare un po’ di comodità, cercando un qualche modo di vivere all’interno di questo cammino verso la morte: tuttavia finché sono vivo, le cose che voglio dire, voglio dirle. Quello che vedo ogni giorno si limita al giornale, però non sono neanche poche le volte in cui soffro al punto da non poter leggere nemmeno questo. Leggendo mi succede di arrabbiarmi, di seccarmi, ma capita anche a volte di dimenticare il dolore perché in qualche modo mi sento contento. Ecco per prima cosa, come premessa [a questo diario] i sentimenti di un malato che è rimasto in un letto per sei anni senza conoscere il mondo’[iii].
La sfida è dunque continuare ad esistere senza far invadere tutto il proprio mondo, tutta la propria giornata da necessità solo fisiche: Shiki per questo si affida alla lettura e allo haiku. Scrive poesia conscio della situazione che sta cambiando: lo haiku è una forma fissa, si è incentrato finora sulla Natura e sul mondo umano, ma dall’Occidente arrivano tantissime novità: nuovi cibi, nuove vesti, nuovi mestieri, mentre il panorama muta rapidamente in tutto il paese. Il poeta, confinato in casa, è curiosissimo e fa un elenco di quello che gli piacerebbe poter vedere coi suoi occhi: ‘Sono passati già sei o sette anni da quando sono inchiodato in un letto e negli ultimi due anni non ho potuto neanche essere trasportato su risciò ed uscire come facevo due o tre volte l’anno; leggo un po' nei giornali dell’aspetto di Tōkyō che va cambiando velocemente o lo chiedo alle persone che vengono a visitarmi […]. Tra le cose che non ho mai visto, ecco quelle che vorrei vedere:
- Le immagini animate[iv]
- Le gare e le acrobazie in bicicletta
- I leoni e gli struzzi dello zoo
- L’acquario ad Asakusa
- I babbuini e le lontre nel parco Hanayashiki di Asakusa[…]
- I telefoni automatici e le cassette rosse per le lettere
- La vaste sale dei locali dove si può bere birra […]
- I teatri in stile occidentale […][v]
Ancora di più si dimostra divertito e incuriosito quando un allievo, per distrarlo dalla monotonia delle sue giornate e dal dolore, gli porta in casa un fonografo:
‘Jōdō è arrivato un giorno con un grosso furoshiki[vi] e mi ha chiesto se volessi sentire della musica e io ho risposto di sì, chiedendomi sospettoso che strumento avesse mai portato. Quindi mi sono messo a fissare quello che stava facendo: ha sciolto il furoshiki e ne ha tratto un fonografo. Ho visto questo apparecchio per la prima volta; Jōdō ha rivolto improvvisamente verso di me una tromba di una trentina di centimetri, stranissima, come una bocca spalancata. Poi, di nuovo, dalla scatola ha tirato fuori una cosa che era come un tubo di bambù tagliato, di 18, 20 centimetri circa. Era di cera ed era percorsa da linee estremamente sottili che mi han detto essere le tracce della voce. Ha applicato il tubo all’apparecchio, e quando ha girato una manovella, questo ha cominciato a produrre da solo un rumore tipo buruburuburuburu. Ha provato a cambiare uno dopo l’altro diciotto in totale di questi cosi che sembravano tubi di bambù, ma la metà erano canzoni occidentali e quindi io non le ho capite bene. Però se le paragono ai canti giapponesi, nei toni ci sono delle variazioni e mi sembrano interessanti.[...] Fra le canzoni occidentali ce n’era una intitolata ‘laughing song’[vii], che non ho capito cosa sia, ma il tempo era molto rapido e qua e là si insinuavano voci che ridevano. Pare che lo abbia inciso un musicista occidentale famoso, abile nel riprodurre voci che ridono; ora tento di immaginare la canzone: ‘di corvi, cinque o sei / sono arrivati in volo// e hanno fatto cacca /sul capo di Gonbei.// ahah!ahah!ahahah! […]’ Ma se l’opera originale sia così volgare, davvero non lo so.’[viii]
Questo è quanto registra Shiki sul suo diario Bokujū Itteki (‘Una goccia d’inchiostro’, 1901). Ogni giorno, il quotidiano Nihon pubblicava una breve nota della giornata del poeta che condivideva così con i lettori la sua vita da recluso, le sue minime esperienze, i pensieri, il dolore e la sua poesia, anticipando di più di cento anni i post di un blog contemporaneo. La carta stampata si era fatta mezzo per superare le mura di una stanza.
Il suo humor, la sua capacità di resilienza e di sfruttare i limiti imposti dal male, lo sosterranno per quel poco che rimarrà della sua vita, come quando, un anno più tardi, oppresso dall’afa dell’estate giapponese, si rivolse al suo allievo Kawahigashi Hekigotō (1873-1937) dicendogli che avrebbe voluto ‘una macchina che produce il vento’[ix] : l’allievo gliela costruì e l’appese con le sue mani al soffitto della stanza. L’ ‘attrezzo’ – è proprio il caso di dirlo - ancora non aveva nome e Shiki ne fu così entusiasta che ne inventò uno: la Pala a vento (Fūban 風板); non si trattava di un ventilatore a pale, ma di una sorta di grosso ventaglio che doveva essere mosso a mano, azionato da una cordicella. Il termine secondo lui ‘dovrebbe diventare un kigo estivo.’[x], ma la parola non entrerà mai neppure fra i termini comuni. Il piccolo episodio, generato dalla reclusione in casa a cui Shiki è costretto e dall’insofferenza, diventa quindi occasione di creazione, e il poeta, divertito, si immagina lì a sventolarsi fino a creare nella stanza una sorta di piccola tromba d’aria:
La pala a vento
smuovi! Fino a che cadano
i fiori in vaso.
風板引け鉢植の花散る程に
(fūban hike/hachiue no hana /chiru hodoni) [xi]
L’anno successivo alla nascita di Shiki, il 1868, il Giappone inaugura una nuova era, l’era Meiji (1868 - 1912), con un nuovo Imperatore e soprattutto con la necessità di recuperare il tempo perduto perché, come abbiamo detto, dopo oltre duecento anni di chiusura l’Occidente costringe il paese ad aprirsi ai commerci, a prendere coscienza dei suoi ritardi nel campo dell’industria, della medicina, della scienza in genere, della letteratura, e a confrontarsi con usi e costumi completamenti diversi. Presi dall’entusiasmo, dal desiderio di colmare il divario e poter aver pari dignità di fronte alle nazioni occidentali, i giapponesi in un primo momento adotteranno con grande esaltazione tutto ciò che è nuovo, rinnegando la propria cultura, salvo dopo pochi anni cominciare a recuperarla sotto l’onda del nazionalismo e della conservazione.
E nello haiku? Come superare il limite della tradizione e rinnovare una forma così breve? Bisognava riservargli un mondo naturale immutabile o stravolgerlo inserendo soggetti inusitati? Benché curioso delle novità, neanche Shiki sembra amare la presenza dei soggetti moderni, ma sa che un’evoluzione è inevitabile:
‘Si dice comunemente: “Gli uomini, le loro idee, si modificano col mutare dei tempi”. Questo dovrebbe esser chiaro confrontando i cambiamenti nella politica e nella letteratura rispetto al passato. Dall’antichità fino ad ora sono stati pochi gli esempi di mutamenti notevoli come quelli della Restaurazione Meiji e, di conseguenza, anche le idee in letteratura è come se dovessero di nuovo differire enormemente rispetto a quelle di una volta. Anche solo da un punto di vista esterno, superficiale, gli uomini e le cose non sono affatto uguali a quelle di prima. […] nel waka[xii] i nuovi temi e le nuove parole non sono permessi. Lo haiku possiamo dire che non li rifiuta ma nemmeno li gradisce. […] Gli innumerevoli avvenimenti della società umana che appaiono nel mondo della civiltà o le cosiddette comodità moderne per lo più sono grossolane (zoku), il volgare del volgare[xiii] .[…] Per esempio, che immagine evoca la parola ‘treno a vapore’? Niente altro che la figura di una enorme massa intricata di pezzi di metallo, accompagnata da una sorta di vertigine che invade la mente. Oppure provate ad ascoltare il suono delle parole ‘elezione’, ‘competizione’, ‘punizione disciplinare’ o ‘corte’ e guardate che immagini richiamano. Forse vi faranno pensare ad un incontro tra politici corrotti, in atto di persuadere con voci suadenti i potenziali elettori, mentre pezzi d’oro gli scivolano giù dalle maniche delle vesti, […] o a qualche personaggio delle classi più elevate che con intenzioni lascive conduca una bella donna in una camera. Sentimenti corrotti e immorali come questi non lasciano spazio a idee eleganti (ga) o a pensieri nobili (kōshō).’[xiv]
Nonostante tutto però, sceglie ancora una volta di superare il limite della tradizione e della sua cultura samurai e tenta di unire i due mondi, il vecchio e il nuovo, nobilitando con elementi tradizionali quello che giudicava troppo prosaico. Vediamo come utilizza proprio l’antiestetico treno:
di tanto in tanto appaiono
le foglie rosse…
滊車の窓折々うつる紅葉哉
(kisha no mado/ oriori utsuru /momiji kana)[xv]
Lungo i binari…
ombre restano in fila:
alberi spogli
汽車道に冬木の影の並びけり
(kisha michi ni/fuyu ki no kage no/narabikeri)[xvi]
Il carattere descrittivo dei versi sopracitati non deve ingannare: un buon haiku certamente lo possiede, ma si può superare anche questo limite e fare di diciassette morae un discorso che esprima verità più profonde, epifanie sull’essenza della stessa vita. Shiki, nonostante sia stato uno strenuo difensore del realismo, della descrizione ‘ari no mama’ (‘così come è’), valica il principio base della sua poetica e ci consegna versi che ad ogni lettura si approfondiscono e che ricordano all’uomo il suo legame con l’universo e il suo carattere transeunte. Il suo haiku più celebre ne è un esempio:
Mordendo il cachi
risuona, la campana…
Il vecchio tempio.
柿食えば鐘が鳴るなり法隆寺
(kaki kueba/kane ga narunari/Hōryūji)[xvii]
Questi versi nascono da una esperienza reale. È il poeta stesso a raccontarci la loro genesi in un suo breve saggio, Kudamono (‘Frutta’, 1901). Ammalatosi in viaggio, nel 1885 era stato dimesso dall’ospedale e stava tornando a Tōkyō, ma aveva deciso di fermarsi a Nara, cittadina tutt’oggi famosa e molto visitata per la bellezza del suo complesso templare. Qui aveva preso alloggio presso una locanda e aveva chiesto dei cachi che una giovane cameriera aveva portato in tale quantità da stupirlo. Inoltre aveva tranquillamente cominciato a sbucciarglieli ed il giovane Shiki ne era rimasto affascinato. Mentre la contemplava rapito, aveva sentito la campana di un tempio che annunciava la notte. Non sapendo di quale si trattasse, lo aveva chiesto alla cameriera che gli aveva risposto che era quella del Tōdaiji, un tempio molto famoso e solitamente affollato di visitatori. Quando era tornato sull’esperienza e aveva composto i versi, aveva però modificato la scena e scelto il tempio Hōryūji, molto più silenzioso, invece del Tōdaiji, ed inserito considerazioni meno frivole del suo interesse per la cameriera. Infatti, se ad una prima lettura la poesia appare solo come la fotografia di un istante di vita vissuta, in realtà nasconde ben altro. Il contrasto fra i due suoni ci guida: il primo è il lievissimo, breve crocchiare della buccia del frutto; il secondo è il suono profondo e prolungato della campana giapponese. L’immagine che a questi si associa forma un altro un contrasto: da una parte un atto umano, compiuto da un essere malato che morirà presto, dall’altro una campana di un tempio molto antico, che era lì prima che il poeta nascesse e che resterà dopo di lui, quasi a suggerirci la transitorietà della vita umana. In realtà, dal momento che anche l’edificio è destinato a scomparire, ciò che resta alla fine dell’esperienza del poeta, quando la campana smetterà di suonare e al termine della nostra lettura, è il silenzio: un silenzio che tutto riassorbe in sé, l’uomo e la campana. Nessuna diversità: tutto viene compreso nell’universo e tutto è transeunte. I versi, con grande serenità, ci consegnano questa consapevolezza. Il ritmo sottolinea il significato: suoni brevi, secchi laddove abbiamo il morso sulla buccia (ka-ki-ku-e-ba -ka) e subito dopo parole più lunghe e morbide, quasi ad evocare il lungo suono lento della campana.
Anche altrove il campione del realismo ci consegna ‘quadri’ apparenti che ci costringono a pensare, ad andare oltre il limite della loro finitezza per ritrovare verità universali:
e la mia ombra si muove.
Luna d’inverno
木の影や我が影動く冬の月
(ko no kage ya/ waga kage ugoku/fuyu no tsuki)[xviii]
Abbiamo un ‘dipinto’ notturno questa volta: il mondo vegetale e quello umano sembrano differenti, immobile l’uno, mobile l’altro. Ma Shiki ci ricorda che entrambi sono generati dalla stessa luce, quella della luna, che qui sembra occupare tutto il paesaggio: arriva all’ultimo verso ed è quello che rimane nella mente del lettore, quasi come se ogni dualità si riassorbisse in essa, simbolo di un cosmo che tutto riprende in sé e tutto genera. Ad una seconda lettura – in giapponese, la lettura degli haiku avviene due volte consecutive – ci rendiamo conto che abbiamo parlato di ‘ombre’: la realtà fenomenica è un’ombra, un’illusione passeggera e priva di sostanza. Sebbene Shiki nei suoi scritti non menzioni mai il buddhismo[xix], lo zen, o la meditazione e la comprensione della realtà ultima, è a tutto questo che si possono ricollegare molti dei suoi haiku migliori.
E dal punto di vista della forma? Si può andare oltre i limiti in una forma così breve senza tradirne la natura? Shiki, che pure è legato alla tradizione, rivendicando il ruolo della potenza creatrice, lascia intravedere la possibilità di una nuova strada. In Haiku mondō (‘Domande e risposte sullo haiku’, 1896), un saggio composto in forma dialogica, troviamo: ‘(Domanda): Se guardiamo gli haiku di questo periodo, non ce ne sono pochi che invece di diciassette morae ne presentano diciotto, diciannove, addirittura venti. Non ci sono impedimenti alla cosa? - (Risposta): È difficile discutere se ci sia o meno qualcosa che lo impedisca, perché questo riguarda la definizione dello haiku. Ci sono persone che affermano che dobbiamo chiamarlo haiku anche se ha diciotto o diciannove morae e quelli che invece non lo chiamano così. […] Io non mi impegno a priori per creare uno haiku. Mi sforzo solo di osservare le emozioni. Non sto lì a prevedere se il risultato di questo sforzo sarà poi di diciassette, diciotto o più di venti morae.’ [xx]
Questa osservazione di Shiki, che solo in pochi casi violò la regola delle canoniche diciassette morae, venne sviluppata dal suo allievo, Kawahigashi Hekigotō (1873-1937), che alla morte del maestro fondò un proprio gruppo, dando origine al ‘Movimento per un Nuovo Orientamento’ (Shinkeikō undō).
Hekigotō seguì quasi alla lettera la poetica di Shiki sul realismo e la necessità di dare delle chiare impressioni ai lettori (inshō meiryō, ‘chiarezza nell’impressione’), ma ruppe il ritmo fisso tanto da arrivare allo haiku a ritmo libero (Jiyūritsu haiku), abbandonando il kigo condivisibile da tutti. La parola che indicava la stagione, per lui, aveva un carattere ‘regionale’ (chihōteki), diremmo quasi ‘personale’. La teoria si concretizzò nei versi che compose a Roma nel 1921, dove il poeta parlava di mimose: in Giappone indicano la stagione estiva, ma per Hekigotō designavano la stagione che si trovava a vivere in Italia, ossia la primavera. Un’altra barriera era stata dunque superata. I suoi haiku inoltre presero ad allungarsi, a volte con un andamento decisamente prosastico:
Il pesce lama fuor dalla rete scagliato è saltato e ha morso la sabbia.
網から投げ出された太刀魚が踊って砂を噛んだ
(ami kara nagedasareta tachiuo ga odotte suna o kanda)[xxi]
È un’opera del 1919: il pesce lama (Trichiurus lepturus), chiamato anche ‘pesce coltello’, ha delle scaglie lucenti color argento e denti molto affilati: nel momento in cui viene gettato fuori dalla rete, scintilla al sole e le sue contorsioni e quei bagliori comunicano al poeta un profondo attaccamento alla vita.
La maggior parte degli haijin di inizio Novecento nutrì dei dubbi sulla possibilità di poter applicare il termine ‘haiku’ ai versi di Hekigotō e lui stesso pensò di essere andato troppo ‘oltre i confini’: preferì allora denominarle ‘poesie brevi’ (tanshi). Tuttavia, nel volume che raccoglie i suoi saggi, Shinkō Haiku e no Michi (‘La strada verso un Nuovo Haiku’, 1929), ribadì che anche questa ‘poesia breve’ nasceva da uno stimolo momentaneo, arrivato al poeta dal mondo circostante fatto di Natura e Uomo, proprio come per lo haiku. In realtà, quello che i contemporanei del poeta lessero come un ‘fallimento brillante’[xxii] aprì una discussione accesa e diede il via ad un laboratorio di sperimentazione che apportò nuova linfa alla forma poetica stessa. Sulla sua strada proseguirono due nomi famosi nel mondo delle diciassette morae: Ogiwara Seisensui, allievo di Hekigotō, e Ozaki Hōsai.
Partito dalle idee di Hekigotō, Ogiwara Seisensui (1884-1976) lo accusò poi di adottare il ritmo libero per amor di novità, mentre lui lo usava per seguire il ritmo naturale dell’esperienza. I due entrarono in contrasto anche in merito al kigo: se Hekigotō continuava ad utilizzare l’elemento naturale come riferimento alla stagione che il poeta ‘qui ed ora’ stava vivendo e non come riferimento convenzionalmente accettato da tutti, Seisensui nel 1912 arrivò a giudicarlo inutile, se non privo addirittura di ogni qualità artistica. Il kigo, a suo dire, serviva solo ai principianti in quanto li costringeva a prestare attenzione ai fatti naturali, ma era sicuramente di intralcio ad un livello successivo, dal momento che obbligava il poeta ad usare espressioni stereotipate. Il limite del kigo doveva dunque cadere. Ma le critiche non si esaurirono qui, perché Seisensui rimproverò al suo maestro anche la superficialità, la mancanza di quella profondità che permette più interpretazioni. Era come se Hekigotō, che pure era stato allievo di Masaoka Shiki, avesse tradito l’insegnamento di quest’ultimo secondo il quale l’opera realistica rivelava varietà e complessità di significati ad ogni nuova lettura. Per Seisensui lo haiku di Hekigotō: ‘ […] è ben organizzato nella sua parte fisica, ma manca dell’anima dello haiku stesso’[xxiii]. Queste affermazioni non suonano strane se consideriamo il fatto che Seisensui, pur non essendo ufficialmente un monaco, venne influenzato dalla pratica dello zen e di lui si diceva addirittura che avesse raggiunto l’Illuminazione. Per lui la poesia è possibile quando l’anima si riassorbe nella Natura, quando ogni confine fra questa e il sé scrivente viene varcato: ‘Penetrando la superficie della Natura e ciò che la circonda, quando si pensa di aver scorto il nucleo che vi soggiace, quando si è afferrato il proprio sé, non come se fosse un evento descritto in un diario, ma la vita che è nel suo fondo […], allora si avvertirà come il balenare di un lampo. Per quanto si voglia descrivere minuziosamente questa sensazione, non si riuscirà a mostrarla: al contrario si perderà quel brillio; si potrà trasmetterla solo con parole brevi e suggestioni. La poesia chiamata haiku ha valore quando esprime questo. […]’[xxiv]
Ma valicare il confine fra Natura e Sè, per Seisensui, è anche tornare all’inizio: tornare ad uno stato in cui il nostro modo di pensare per opposti, la dualità del reale, le sovrastrutture dovute all’interpretazione, la logica, tutto scompare. C’è solo una mente in grado di far questo, oltre a quella degli Illuminati, ed è la mente di un bimbo. Il bambino è capace di farsi conquistare completamente dalla Natura e di riattivare quel senso di meraviglia che va perduto nell’adulto con il passare del tempo. Il poeta ci spiega nel saggio Haiku no tsukurikata to ajiwaikata (‘Comporre e apprezzare haiku’, 1955): “ ‘Fare della mente un tutt’uno con la Natura’ suona come un metodo piuttosto difficile ma non è altro che tentare di tornare ad uno stato in cui eravamo da bambini. La neve cadeva e mentre la osservavamo s’andava accumulando: con quale senso di rapimento la guardavamo! Vi saltavamo in mezzo e ci giocavamo, diventavamo amici della neve stessa, parte della Natura: questa bella emozione viene persa man mano che si diventa adulti e una nevicata non provoca altra sensazione che disagio perché per un po' le strade saranno inagibili […] E tuttavia nel cuore umano l’amore per la Natura non è radicalmente perduto, siamo stati solamente costretti a dimenticarlo. […]”[xxv].
Ecco allora nascere dei versi semplicissimi:
Tetto di paglia…La neve che cade s’accumula.
わらやふるゆきつもる
(waraya/furu yuki tsumoru)[xxvi]
Lo haiku successivo, del 1933, è altrettanto immediato nella lingua e nell’osservazione e in più fa uso addirittura di punteggiatura, che raramente compare nella lingua giapponese e ancor di meno nello haiku:
L’usignolo, oggi lo vedo e lo ascolto
うぐいす、今日は姿見て聞く
(uguisu, kyō wa sugata mite kiku)[xxvii]
Se la poesia si pone come espressione spontanea di una percezione o di un sentimento, seppur di brevissima durata, la gabbia metrica è di fatto un ostacolo. La sua rottura sembra naturale, quando si è praticanti assidui della meditazione zen: la comprensione della realtà porta ad abbandonare le sovrastrutture e la regola metrica rigida viene avvertita come orpello. La forma più libera permette di inserire parole realmente sentite e non costringe a riempire dei vuoti con termini non necessari per raggiungere l’esatta misura. Dal momento poi che ogni esperienza, ogni percezione è diversa, ogni haiku doveva avere un proprio ritmo. Ma permaneva una differenza tra haiku a ritmo libero e il verso libero tout court, secondo Seisensui. Ciò che li distingueva era prima di tutto il soggetto. Laddove la composizione in versi liberi permetteva di trattare qualunque cosa, lo haiku a schema libero era più ristretto, dovendo limitarsi solo alla relazione con la Natura. Proprio per questo fondamentale legame Seisensui affermava che le proprie composizioni, per quanto irrispettose della metrica classica, erano haiku e non poesie in verso libero. Quindi anche quando venivano inseriti soggetti moderni, meccanici, doveva esser presente il legame col mondo naturale:
autocarro carico di ferro, germogli gonfi gli alberi sul viale
鐵をつんだトラックが、もう芽ぶくばかりの街路樹
(tetsu o tsunda torakku ga, mō mebuku bakari no gairoju)[xxviii]
Da un lato le sbarre di ferro, che saranno utilizzate in una costruzione e che rappresentano la forza dell’uomo: saranno integrate in un tutto, divenendo parte, anche se piccola e nascosta, della vita delle persone; dall’altro abbiamo gli alberi, i cui rami in inverno sono nudi, gelidi e apparentemente morti come il ferro, ma che contengono in loro vitalità, una forza latente pronta ad esplodere in primavera e che sono, come le sbarre, parte di un tutto. Il legame fra il mondo dell’uomo e quello della Natura è sviluppato in uno haiku che di tradizionale ha ormai solo il ‘profumo della stagione’, la primavera, convogliata dall’immagine delle gemme pronte a fiorire. Non esistono più le pause classiche (kireji), né alcuna regolarità metrica. L’attenzione del poeta si è concentrata sulle parole, tutte basate sui suoni secchi e duri delle dentali e su vocali chiuse finché si parla di ferro (tetsu o tsunda torakku), che si sciolgono in suoni più fluenti e morbidi e vocali aperte laddove si parla di gemme.
Ma un altro poeta ancora, stimolato dall’esempio di Seisensui, doveva percorrere una strada molto simile: Ozaki Hōsai (1885-1926)[xxix]. Hōsai sembrò all’inizio dover condurre la propria vita come un perfetto membro della società, debitamente inserito, il cui futuro sarebbe stato facilmente prevedibile: proveniente dall’università più prestigiosa del Giappone, assunto in un’ottima compagnia di assicurazioni dove ricopriva una carica importante, debitamente sposato. Fin da giovanissimo scriveva con profitto haiku, tanto che alcuni vennero pubblicati prestissimo sulle pagine della rivista Hototogisu (‘Il cuculo’), organo di stampa della scuola più grande dell’epoca, quella del maestro Takahama Kyoshi (1874-1959). Questa scuola stessa era quanto di più tradizionale Hōsai potesse trovare; ma qualcosa si agitava in lui, qualcosa che lo avrebbe portato oltre i limiti. All’inizio, nella vita quotidiana, questa irrequietezza si tradusse in un eccesso di consumo di alcolici, mentre nello haiku si concretizzò in insofferenza per la gabbia metrica, cosa che lo porterà a seguire Seisensui, conosciuto durante una riunione poetica:
Tramonta il primo giorno dell’anno/ accendo silenziosamente la lampada
元日暮れたりあかりしづかに灯して
(ganjitsu kuretari akari shizukani tomoshite)[xxx]
Qui Hōsai deroga parzialmente allo schema ritmico dello haiku classico, usando diciannove morae al posto delle consuete diciassette ma mantenendo il kigo (ganjitsu, ‘il primo dell’anno’), con una pausa possibile dopo le prime otto morae (“ganjitsu kuretari”). Sono versi soffusi di una certa malinconia, di una quiete che era solo momentaneamente raggiunta, visto che sono stati composti nel 1916, molto prima che il poeta arrivasse a cercare la tranquillità in un romitaggio.
Alla lunghezza di alcune sue composizioni, si oppone la brevità di altre:
In mezzo al vento costruisco una piccola casa
小さい家をたてて居る風の中
(chiisai ie o tatete iru kaze no naka)[xxxi]
Qui le classiche diciassette morae sono presenti ma non è possibile però identificare la stagione dal solo elemento naturale presente, il vento, che di per sé non è kigo ma deve essere accompagnato da una specificazione (aki kaze, ‘vento d’autunno’; kochi, ‘vento dell’est’ che indica la primavera; kunpū, ‘vento profumato’, che trasporta l’odore d’erba verde e indica l’estate, etc.). Il tempo della frase giapponese indica un’azione che può avvenire ora, corrispondente al nostro gerundio ‘sto costruendo’, o un’azione che perdura e di cui non si conosce il momento in cui finirà. Il poeta sembra suggerire che sta tentando di costruire un punto fermo nella sua vita errabonda, una base che gli impedisca di seguire tutti i moti del suo animo irrequieto. Questo perdurare dell’azione però, mette in allarme: della costruzione della casa non sembra vedersi la fine a causa di qualcosa che rende impossibile trovare la pace. Come lui stesso aveva scritto:
Libererò in mare il cuore che cerca qualcosa
何か求むる心海へ放つ
(nanika motomuru kokoro umi e hanatsu)[xxxii]
E Hōsai aveva di fatto seguito la direzione in cui lo spingeva il proprio cuore. L’insoddisfazione per ciò che lo circondava, infatti, lo aveva convinto a lasciare il suo ottimo posto di lavoro e a varcare, questa volta fisicamente, i confini: si era trasferito in Corea con sua moglie, cambiando occupazione. Se per noi europei, oggi, un mutamento di questo tipo non è particolarmente sorprendente, dobbiamo tenere presente che in Giappone, dove ancora permane la tendenza a rimanere nello stesso posto di lavoro e quella di considerare l’azienda in cui si è impiegati come una famiglia, un simile repentino ed ingiustificato cambio costituiva una cosa inaspettata ed uno scandalo. Ma il limite non era ancora stato raggiunto. In capo a meno di un anno, per qualche ragione che forse era legata ai suoi eccessi nel bere, venne licenziato. Iniziò allora a vagare per il nord del continente, in Manciuria, conducendo una vita di vagabondaggio che non si esaurì neppure al suo ritorno in Giappone. Separatosi da sua moglie, Hōsai si fece monaco, spostandosi anche questa volta fra diversi templi: a Kyōto, dove reincontrerà l’amico e maestro Seisensui; a Suma nei pressi di Kōbe; nel tempio Jōkōji, nella prefettura di Fukui.
Incapace di ritrovarsi in nessuna di queste realtà, Hōsai scelse alla fine la solitudine di un romitaggio, il Minango-an, in un’isola del Mare Interno, Shōdoshima, dove si trova ancora oggi l’edificio che lo celebra e conserva quanto lo riguarda:
Possiedo una piccola finestra da cui si vede il mare
海が少し見える小さい窓一つもつ
(umi ga sukoshi mieru chiisai mado hitotsu motsu)[xxxiii]
scrive, ed il suo spirito sembra finalmente aver trovato la pace.
I versi di Hōsai forse non possiedono quell’impatto capace di stupire (o indignare) il poeta classico come accade a quelli di Seisensui che sa eccedere in lunghezza o essere brevissimo o che manipola soggetti inusitati come autocarri che trasportano sbarre di ferro; in qualche modo rimane in Ozaki Hōsai almeno quello che potremmo definire un ‘profumo’ di classicità. Si mantiene sempre legato alla Natura, evitando la menzione di macchine moderne ed evidenziando piccole cose, come fa lo haiku ancora oggi, o piccole gioie come questa dei versi che abbiamo citato, dove il poeta sembra tornato bambino, proprio come aveva predicato il suo maestro Seisensui.
Qui, sull’isola, Hōsai vive di offerte e di doni di quanti lo vanno a visitare, scambiando lettere con Seisensui, con il quale aveva continuato a mantenere rapporti. Nei suoi versi torna spesso la solitudine, e non solo per la scelta che aveva fatto; si tratta di una solitudine che investe tutte le creature:
Sulla montagna… i villaggi desolati si vedon tutti
山に登れば淋しい村がみんな見える
(yama ni noboreba sabishii mura ga minna mieru)[xxxiv]
Una libellula è venuta a fermarsi su questo scrittoio solitario
とんぼが淋しい机にとまりに来てくれた
(tonbo ga sabishii tsukue ni tomarini kite kureta)[xxxv]
Metricamente di ventuno morae, la poesia mantiene il kigo, le libellule, che indicano l’autunno. Il poeta sembra essere consolato della sua solitudine dal mondo della Natura: si sottolinea così un legame fra i due, una connessione che viene sottilmente suggerita anche attraverso la scelta dei caratteri. Per la parola ‘solitario’ Hōsai sceglie fra i due ideogrammi che ha a disposizione quello che raffigura due alberi bagnati da gocce d’acqua (淋), piuttosto che quello (寂) in cui l’etimologia comprende anche il silenzio e la quiete. È una solitudine dolorosa: l’ideogramma che ha scelto è connesso per traslato anche alle lacrime, dal momento che rappresenta alberi da cui gocciola incessantemente acqua.
Anche quando tossisco, son solo
せきをしてもひとり
(seki o shite mo hitori)[xxxvi]
Si tratta di uno dei suoi haiku più famosi e citati. Nella sua brevità fulminante, mantiene un legame con la classicità attraverso l’uso del kigo, seki (‘tosse’), che designa l’inverno. Questa stagione è durissima per chi come lui è minato da una malattia ai polmoni che gli sarà fatale; il suo corpo cede alla difficoltà di una vita senza nessun agio. Così il poeta scrive in una lettera ad un amico, dopo aver descritto un magro pasto a base di vegetali: ‘Nel mio corpo non entrerà niente altro, naturalmente non mangio neanche un po' di pesce […] bevo avidamente l’acqua del pozzo che è qui davanti […] ho fame, ho fame al punto che non riesco neanche a lavorare’[xxxvii].
Sono povero e allineo vasetti con le piante
貧乏して植木鉢並べて居る
(binbō shite uekibachi narabete iru)[xxxviii]
Sembra quasi che questa povertà sia una punizione che si è inflitto per espiare qualcosa: molti critici hanno fatto notare come ci sia nei suoi comportamenti una sorta di nichilismo, quasi di masochismo. È possibile, credo, che nel suo animo fosse ancora presente quella lacerazione operata da un’educazione che lo voleva membro attivo nel costruire la società da una parte, mentre dall’altra il suo animo lo spingeva alla riflessione, alla ricerca di ideali più alti, più spirituali. Quell’educazione esigeva che pagasse con un tributo di senso di colpa il fatto di aver disatteso le aspettative di tutti.
Hōsai era ben consapevole di stare morendo e scrisse nella stessa lettera, in uno stile franto, fatto di brevi periodi intervallati da puntini sospensivi: ‘[…] sono sfiniti sia il corpo che lo spirito […] in un mio haiku c’era scritto (era fra i cento versi che ieri ho mandato a Tōkyō) :
Così /anche senza più uscire fuori/ si può morire
之デモウ外ニ動カナイデモ死ナレル
(korede mō sotoni ugokanaidemo shinareru)
Ed ora quello che resta nella mia mente è solo ‘la morte’…solo questo, cercare la morte attivamente? Passivamente? Stare immobile, rimanere stabile, e aspettare l’arrivo della morte?... Fuori non c’è niente…[…] il solo desiderio che resta, la morte: posso accoglierla se sarà al più presto e vivendo tranquillamente, nella natura…e poi, fino a quel momento, viviamo scrivendo versi […]’[xxxix] .
Di lì a poco, in pace finalmente o meno, l’ultimo confine verrà attraversato.
Bibliografia
Philippe Forest ed., Masaoka Shiki – Un lit de malade six pieds de long-, Paris, Les Belles Lettres, 2016
Konishi Jin’ichi, Haiku no sekai – Hassei kara gendai made-, Kōdansha Gakujutsu Bunko, 2007 (1995), 小西甚一, 『俳句の世界‐発生から現代まで』, 講談社学術文庫
Gendai Haiku Daijiten, Sanseidō, 2005, 『現代俳句大事典』, 三省堂
Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, Iwanami Bunko, 2000, 正岡子規,『病床六尺』, 岩波文庫
Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, Iwanami Bunko, 2000, 正岡子規,『墨汁一滴』, 岩波文庫
Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami Bunko, 2000, 高浜虚子選,『子規句集』,岩波文庫
Masaoka Shiki, ‘Haiku Mondō’, Masaoka Shiki – Chikuma Nihon bungaku zenshū 37 - , Tōkyō, Chikuma Shobō, 1998, 正岡子規,『俳句問答』,「正岡子規―筑摩日本文学全集 37」, 筑摩書房
William J. Higginson, The Haiku Seasons – Poetry of the Natural World- , Kodansha International, 1996
Kurita Kiyoshi, Kawahigashi Hekigotō, Kagyūsha, 1996, 栗田靖, 『河東碧梧桐』, 蝸牛社
Beichman Janine, Masaoka Shiki, Tōkyō, Kōdansha, 1986
Masaoka Shiki ‘Dassai sho oku haiwa’, Masaoka Chūsaburō (et als.), eds., Shiki Zenshū, Kōdansha, 1975, vol. 4., 正岡子規,「獺祭書屋俳話」,正岡忠三郎等,『子規全集』, 講談社, 第4巻.
Masaoka Chūsaburō (et als.), eds., Shiki Zenshū, vol. 2, Kōdansha, 1975, 正岡忠三郎等,『子規全集』, 講談社, 第2巻
AAVV, Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon shijin zenshū, vol. 2, Shinchōsha, 1969, 『正岡子規・高浜虚子』, 日本詩人全集, 第2巻, 新潮社
Ogiwara Seisensui, Bashō Kanshō, Chōbunsha, 1966, 荻原井泉水, 『芭蕉鑑賞』, 潮文社
Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, Chikuma Shobō, 1961, 『現代日本文学全集91』,『現代俳句集』, 筑摩書房
Ogiwara Seisensui, Haiku Hyōshaku Senshū, Vol. 6, Jiyūritsu Haiku Hyōshaku, Hibonkaku, 1935,荻原井泉水, 『俳句評釈選集 ・ 第6巻』 ,『自由律俳句評釈』, 非凡閣
Ogiwara Seisensui, Haiku no tsukurikata to ajiwaikata, Jitsugyō no Nihonsha, 1927 , 荻原井泉水, 『俳句の作り方と味わい方』, 実業之日本社
Ogiwara Seisensui, ‘Shizen no tobira to hitotsu no kagi’, Waga chiisaki izumi yori, Kōransha, 1924, 荻原井泉水,「自然の扉と一つの鍵」,『我が小さき泉より』, 交蘭社
Sitografia
Ozaki Hōsai, Taikū, Shunjūsha, 1933, 尾崎放哉,『大空』, 春秋社 https://dl.ndl.go.jp/pid/1216498/1/87
[i] Il giudizio, rivolto a Masaoka Shiki, è basato su una conoscenza assolutamente difettosa dell’opera del poeta e pecca di una mancanza totale di prospettiva storica. Sembra quasi che tutto quello che era stato scritto prima di Shiki fosse costituito da versi di profondità tali da eguagliare i capolavori del grande maestro Matsuo Bashō, mentre si dimentica lo stato di degenerazione e stanca ripetizione in cui versava lo haiku prima dell’intervento di Shiki stesso: ‘Shiki[…]narrowed the range of haiku treatment to a plain presentation, a flat statement verging dangerously close to banality’, William J. Higginson, The Haiku Seasons – Poetry of the Natural World- , Kodansha International, 1996, p. 77
[ii] Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, Iwanami Bunko, 2000, pp. 76 -77
[iii] Ibidem, p.7
[iv] Shiki definisce così il cinema, indicandolo con i caratteri di ‘animato’ (katsudō) e ‘fotografia’ (shashin). I primi spettacoli si ebbero a Kōbe nel 1896 e solo un anno dopo a Tōkyō.
[v] Anche questa novità era stata da poco introdotta: nel 1895 si era tenuta la prima gara. Lo zoo di Tōkyō, invece, era situato a Ueno ed è tutt’oggi esistente: era stato creato nel 1882. La casa di Shiki a Negishi non era troppo lontana. L’acquario era stato creato nel 1899, mentre il parco nel 1853. Invece i locali dedicati al consumo della birra, con le loro sale, vennero inaugurati anch’essi a Tōkyō nel 1899. Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, Iwanami Bunko, 2000, pp. 32-33
[vi] Una sorta di grosso fazzoletto quadrato in cui si avvolgevano scatole di legno o altri oggetti onde poterli trasportare meglio.
[vii] Shiki riporta il termine in inglese trascrivendolo in katakana.
[viii] Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, Iwanami Bunko, 2000, pp. 83-84
[ix] Ibidem, p. 112
[x] Ib.
[xi] Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, op. cit., p. 112
[xii] Il waka o tanka, termine quest’ultimo usato per indicare lo stesso tipo di poesia ma in epoca moderna e contemporanea, è un’altra forma di poesia breve. Molto legata anche all’ambiente della corte imperiale, si compone di 31 morae totali. Ogni waka è costituito da cinque versi che presentano rispettivamente 5 morae nel primo verso, 7 nel secondo, ancora 5 nel terzo, 7 nel quarto e altrettante nel quinto verso.
[xiii] Enfasi in originale
[xiv] Masaoka Shiki ‘Dassai sho oku haiwa’, Masaoka Chūsaburō (et als.), eds., Shiki Zenshū, Kōdansha, 1975, vol. 4., pp. 166-167
[xv] Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami Bunko, 2000, p. 77
[xvi] AAVV, Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon shijin zenshū, vol. 2, Shinchōsha, 1969, p. 126
[xvii] Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, op.cit., p. 170
[xviii] AAVV, Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon shijin zenshū, op.cit., p. 125
[xix] Ricordiamo che per il buddhismo i fenomeni sono privi di natura propria ed esistono solo in relazione l’uno con l’altro. Anche in altri haiku di Shiki ritroviamo la presenza del pensiero buddhista, nonostante avesse dichiarato: ‘Vento d’autunno…/per me né dèi, /né Buddha. (秋風や我に神なし仏なしakikaze ya/ ware ni kami nashi/ hotoke nashi). Cfr. anche Cristina Banella, ‘Universo e Vuoto: lo haiku giapponese’, https://www.pioggiaobliqua.it/una-goccia-d-inchiostro-di-china-a-cura-di-cristina-banella/
[xx] Masaoka Shiki, ‘Haiku Mondō’, Masaoka Shiki – Chikuma Nihon bungaku zenshū 37 - , Tōkyō, Chikuma Shobō, 1998, p. 368
[xxi] Kurita Kiyoshi, Kawahigashi Hekigotō, Kagyūsha, 1996, p. 141
[xxii] Konishi Jin’ichi, Haiku no sekai – Hassei kara gendai made-, Kōdansha Gakujutsu Bunko, 2007 (1995), p. 279
[xxiii] Gendai Haiku Daijiten, Sanseidō, 2005, p. 281
[xxiv] Ogiwara Seisensui, ‘Shizen no tobira to hitotsu no kagi’, Waga chiisaki izumi yori, Kōransha, 1924, pp. 205-206
[xxv] Ogiwara Seisensui, Haiku no tsukurikata to ajiwaikata, Jitsugyō no Nihonsha, 1927, pp. 10-11
[xxvi] Ogiwara Seisensui, Haiku Hyōshaku Senshū, Vol. 6, Jiyūritsu Haiku Hyōshaku, Hibonkaku, 1935, p.277
[xxvii] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, Chikuma Shobō, 1961, p. 52
[xxviii] Ogiwara Seisensui, Bashō Kanshō, Chōbunsha, 1966, p. 237,
[xxix] Ozaki Hōsai (1885-1926) iniziò a praticare lo haiku quando frequentava la scuola media della provincia di Tottori ed oltre ad aver contribuito coi suoi versi alla rivista dell’associazione studentesca, li aveva inviati a Hototogisu. Nel 1905 riuscì ad entrare al dipartimento di legge dell’Università Imperiale di Tōkyō continuando però a collaborare a riviste specializzate in haiku come Hototogisu o a quotidiani come il Kokumin Shinbun. Dopo la laurea, nel 1910, trovò un impiego in una compagnia di assicurazioni. Da dicembre del 1915 cominciò ad inviare i propri contributi alla rivista Sōun che rappresentava lo Haiku di Nuovo Orientamento e che era stata fondata nel 1911 da Hekigotō e Seisensui. Nel 1921, undici anni dopo aver cominciato, abbandonò il suo impiego per trovarne uno simile l’anno successivo in Corea, forse già preda dello spirito irrequieto che si manifestava in un abuso di alcolici. Spostatosi con la famiglia, anche qui ricoprì un ruolo di dirigenza, ma venne licenziato ed iniziò a vagare per la Manciuria, facendo ritorno in Giappone solo nel 1923. Deciso a seguire una via di meditazione e povertà, si separò da sua moglie per entrare prima nel tempio Sumadera nella zona di Kōbe, dove scrisse molti dei suoi migliori haiku, per poi diventare uno degli inservienti del tempio Jōkōji nella prefettura di Fukui. Alla fine scelse il ritiro detto Minango-an, nell’isola di Shōdo, dove morì. Dopo la sua morte venne pubblicata una raccolta dei suoi haiku dallo stesso Ogiwara Seisensui che la intitolò Taikū 大空 (‘Il vasto cielo’, 1926).
[xxx] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, op. cit., p. 61
[xxxi] Ibidem, p. 62
[xxxii] Ozaki Hōsai, Taikū, Shunjūsha, 1933, p. 19. L’opera è reperibile in rete all’indirizzo della National Diet Library, Digital Collection: https://dl.ndl.go.jp/pid/1216498/1/87
[xxxiii] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, op. cit., 1961, p. 64
[xxxiv] Ibidem
[xxxv] Ib.
[xxxvi] Ib.
[xxxvii] Ozaki Hōsai, Taikū, op. cit., p. 160
[xxxviii] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, op. cit., 1961, p. 65
La felicità delle contaminazioni:
la pittura occidentale incontra la poesia giapponese
La modernizzazione del Giappone, iniziata nel 1868 con la sua apertura al mondo occidentale dopo oltre due secoli di chiusura del paese, apportò un mutamento a tutto campo nella vita quotidiana, nelle abitudini e, fra le altre cose, anche nella cultura e nelle arti. A questo cambiamento diede il suo contributo anche l’Italia, attraverso l’opera e gli insegnamenti di Antonio Fontanesi[1] che, recatosi in Giappone per insegnare pittura occidentale, finì per influenzare persino lo haiku. Già una prima contaminazione fra poesia giapponese e pittura occidentale si era avuta quando lo haijin Masaoka Shiki (1867 -1902), che stava riformando lo haiku per dargli nuova linfa, si era appropriato del termine shasei (‘realismo’), che in Giappone traduceva i vocaboli stranieri ‘dessin’ o ‘sketch’, per farne uno dei cardini della propria poetica. Come avevano insegnato la Scuola di Barbizon e gli Impressionisti, i quali insistevano sulla necessità di uscire dagli atelier per osservare direttamente i cambiamenti della luce e i fenomeni naturali, anche Shiki in poesia sollecitò gli haijin perché smettessero di copiare i classici e prendessero contatto diretto con la natura, osservandone anche i più piccoli fenomeni da ‘riportare così come erano’ (‘ari no mama ni utsusu’). In un saggio del 1900, Jojibun (‘Prosa descrittiva’) Shiki affermava appunto che: ‘quando si osserva una scena o un avvenimento che si ritiene interessante e lo si vuole mettere per iscritto in maniera tale da far provare al lettore lo stesso interesse che noi abbiamo provato, non si dovrebbero usare ornamenti verbali o esagerazioni: si dovrebbe solo copiare la cosa così com’è, come la si vede’[2]. Un principio di realismo valido in pittura, in prosa e in poesia e che era arrivato in Giappone dall’Occidente.
Shiki può considerarsi quindi, il tramite attraverso cui avvenne un contatto fecondo fra generi e un passaggio di idee da un mondo all’altro: passaggio che si rivelò fondamentale per la cultura giapponese. Attratto dalla pittura fin da bambino, si era accostato a quella occidentale quando aveva frequentato la scuola che doveva prepararlo ad entrare all’università; tuttavia i dipinti occidentali rimasero a lungo per lui insoddisfacenti: di fatto non cominciò seriamente ad apprezzarli se non dopo accanite discussioni con i suoi amici pittori Nakamura Fusetsu (1866 -1943)[3] ed Asai Chū (1856 – 1907)[4]. (cfr. figura 1)
La passione per la pittura aveva rischiato addirittura di distrarlo da quella per lo haiku, tanto da indurlo a confessare nel saggio E (‘Pittura’, 1900): ‘Se mi dedicassi alla pittura, abbandonerei lo haiku’[5]. La possibilità di votarsi ad entrambe le arti sembra in questo caso addirittura esclusa - tanto era il coinvolgimento che l’attività pittorica pareva ispirargli - anche se in Giappone il genere haiga, dove le poesie affiancano i disegni a inchiostro, aveva una lunga tradizione, e lo stesso Yosa Buson (1716 – 1783), tanto ammirato da Shiki, le aveva praticate contemporaneamente da professionista. Anche Shiki si dedicò alla pittura ad acquerello, mantenendosi allo stadio di dilettante, ma in condizioni a dir poco disagiate: inchiodato al letto dalla tubercolosi, costretto a prendere la morfina per sopportare i dolori di una malattia a cui non c’era cura e che si andava via via complicando, Shiki dipingeva stando disteso o appoggiato su un gomito. I suoi acquerelli, regalati ad amici e vicini di casa, erano semplici, ma possiamo immaginare tutta la difficoltà della loro realizzazione dalle parole dello stesso Shiki, contenute in una lettera inviata insieme al disegno di un crisantemo ad uno dei suoi migliori amici, il romanziere Natsume Sōseki (1867 – 1916): “[…] pensa che è brutto perché l’ha dipinto un malato: se credi che sia una scusa prova un po’ a dipingere appoggiato sui gomiti.” [6] (cfr. figura 2)
L’acquerello raffigurato nella figura 2 è dovuto al pennello dell’amico pittore Nakamura Fusetsu, ma esiste anche un dipinto ad inchiostro dello stesso Shiki che si ritrae nell’atto di scrivere. È il 1899, quando il poeta, ricevuta in dono una stufa e sostituiti i tradizionali scorrevoli di legno che si affacciavano sul giardino con altri in vetro, ha ora abbastanza calore e luce per poter lavorare fuori dal futon e non rinuncia a rappresentare la preziosa stufa. (cfr. figura 3)
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, non escluse quelle economiche, il poeta riuscì nel 1902 a completare due album di acquerelli: Kudamonochō (“Taccuino di frutta”) e Kusabanachō (“Taccuino di erbe e fiori”). Il 19 settembre dello stesso anno – poco meno di un mese dopo la compilazione dell’ultimo taccuino - morirà. (cfr. figure 4 e 5)
Mia cura d’ogni giorno
dipinger erbe e fiori.
Viene, l’autunno…
草花を描く日課や秋に入る
(kusabana o/egaku nikka ya/aki ni hairu)[7]
Il cambiamento nei gusti, l’allargamento dei suoi orizzonti, arriva per Shiki solo quando permette a sé stesso di mescolare i giudizi sulle diverse arti. Appassionato di pittura giapponese, ne scopre i limiti quando vi applica il metro di valutazione dello haiku. Scrive: ‘Circa dieci anni fa (1890) ero un fanatico della pittura giapponese e disprezzavo quella occidentale. In quel periodo con Izan[8] discutemmo su quale delle due fosse la migliore ed io non avevo nessuna intenzione di perdere. Alla fine Izan mi spiegò che le onde tondeggianti dei dipinti giapponesi non sono le onde del mare e poi, disegnati uno accanto all’altro il profilo di un volto secondo i canoni della nostra pittura e uno in stile occidentale, me ne chiarì le differenze. Persino uno ostinato come me, proprio perché profano, rimase per metà stupito e per metà ammirato ascoltando questa spiegazione pratica. Fui particolarmente sorpreso quando mi disse che in un profilo in stile giapponese gli occhi erano disegnati come se fossero visti stando di fronte al soggetto. Tuttavia nascosi il mio stupore argomentando che la somiglianza delle forme non aveva relazione con la qualità di un dipinto. Dopo, lavorai con Fusetsu a Shōnippon[9] e dato che quasi ogni giorno ci incontravamo, ogni volta discutevamo di teoria della pittura. Anche allora, dal momento che ero ancora un appassionato paladino della pittura giapponese, ci scontravamo su tutto. Se io dicevo che il Fuji era una bella montagna, Fusetsu ribatteva che era ordinaria. Se io dichiaravo che gli alberi di pino erano belli, lui diceva che erano comuni. Se io sostenevo che Daruma era un soggetto elegante, lui affermava che era volgare. Se io dichiaravo che le armature giapponesi erano artistiche, lui ribadiva che quelle occidentali lo erano ancora di più. Ci contraddicevamo su ogni singola cosa e mi sembrava davvero strano il fatto che due esseri umani potessero sentire in maniera così diversa, perciò ci riflettei a lungo. Poi, dopo che provai a fare dei paragoni con lo haiku, ebbi una grande rivelazione. Se si inserisse il monte Fuji in una poesia, questa diventerebbe facilmente banale; anche nello haiku ci sono versi sui pini, ma molti sono comuni mentre fra quelli sugli alberi spogli in inverno ce ne son molti eleganti; se si parla di Daruma in uno haiku, si ha un effetto molto sgradevole: sapevo già tutto questo da prima ma non lo avevo potuto applicare alla pittura. E capii che come le persone che non conoscono lo haiku si sentono molto felici se leggono dei versi sul monte Fuji, noi ci sentiamo felici senza sapere perché nel guardare un quadro che lo riproduce. Mi sembrò di avere aperto gli occhi per la prima volta.’[10]
Queste conversazioni e l’osservazione diretta di come un pittore riproducesse sulla tela il paesaggio che stava osservando, modificarono sottilmente la poesia di Shiki. Dal 1894, anno in cui si erano conosciuti, Shiki e Fusetsu infatti usavano passeggiare insieme nei dintorni della capitale e mentre uno dipingeva l’altro componeva haiku. Questa sinergia fa sì che i versi dello haijin finiscano spesso per disegnare piccoli quadri precisi di quanto era da lui direttamente osservato. Nascevano così i due cardini della poetica della sua scuola: lo shasei (‘realismo’) e ari no mama ni utsusu (‘riportare così com’è’):
Alti cipressi,
un tramonto d’autunno
su un chiosco del tè
杉高く秋の夕日の茶店かな
(sugi takaku/aki no yūhi no/ chamise kana)[11]
e nella luna cola
acqua del pozzo
杉暗し月にこぼるる井戸の水
(sugi kurashi/ tsuki ni koboruru/ ido no mizu)[12]
dal portale del tempio…
fulgore di stelle
禅寺の門を出づれば星月夜
(zendera no/kado o dezureba/hoshizukiyo)[13]
e una luce che sale
i gradini di pietra
春の夜の石壇上るともし哉
(haru no yo no / ishidan agaru /tomoshi kana)[14]
Fusetsu non lo influenzò soltanto con l’esempio, ma praticamente gli insegnò alcune tecniche pittoriche di cui rimangono tracce nel diario di Shiki stesso, Bokujū Itteki (‘Una goccia di inchiostro’, 1901): “Quando, dal mio giaciglio di malato, mi esercito a dipingere dal vero, come modelli non ho altro che dei piccoli contenitori che sono nella stanza, oppure fiori o bonsai. Ero lì tutto contento e disegnavo erbe e fiori, quando Fusetsu un giorno mi disse che se si ritraggono due o tre fiori o un solo filo d’erba bisogna farli più grandi del normale, altrimenti non vengono valorizzati; sono stato felice di sentirlo. È un insegnamento a cui anche chi fa haiku dovrebbe dare importanza.”[15] In questa osservazione riverbera l’eco di un insegnamento fondamentale che Fontanesi aveva impartito ai suoi allievi: quello della composizione. Fontanesi aveva infatti affermato: “Ci sono due modi per dipingere dal vero. Il primo è rappresentare i luoghi storici famosi, il secondo è scegliere il paesaggio bello e tralasciare la parte poco affascinante. […] per fare una pittura perfetta, bisogna cercare la posizione perfetta ed omettere la parte non rappresentabile, poi si può disegnare. […]”[16]. Le parole di Fontanesi parlano molto chiaramente della necessità di operare anche una scelta, di selezionare il materiale per ridisporlo nello spazio compositivo che si intende utilizzare, sia esso tela o carta. Fusetsu, che aveva appreso le tecniche e le teorie di Fontanesi, le aveva spiegate a Shiki in occasione di una mostra tenutasi a Tokyo nel 1894. Vi erano esposti dei paraventi di Sesshū (1420-1506), e Fusetsu gli aveva illustrato in maniera dettagliata la disposizione degli oggetti e l’unità della composizione. Il pittore gli spiegò che attraverso la composizione si ordinano gli oggetti sulla superficie del quadro rendendo chiari sia i problemi che pone l’obiettivo, sia lo scopo del dipinto, e che qualsiasi buona idea viene vanificata se il quadro è mal composto. È una buona sistemazione degli elementi a far risaltare i colori e le forme.
L’acquerello del popone e dei cetrioli (cfr. fig. 4) ci rivela che Shiki aveva cercato di applicare questo principio: pare infatti inseguire un’armonia tra le masse e i colori, tentando di bilanciare il chiaro della polpa del grosso popone con la buccia scura dei cetrioli, per esempio. Quest’idea di equilibrio fra gli oggetti e di composizione venne traslata a poco a poco in poesia: lo vediamo quando, quattro anni dopo l’incontro con Fusetsu, consiglierà ai poeti di tanka[17], genere al quale applicava la stessa poetica dello haiku, di mitigare l’effetto spoetizzante di alcuni soggetti moderni attraverso l’introduzione di motivi naturali tradizionali. Il treno, per esempio, che appare a Shiki come un mucchio di metallo poco trattabile, va ‘ingentilito’, bilanciato con un elemento tradizionale: ‘Ci sono persone che dicono che va bene parlare in poesia di ciò che è nuovo, le cosiddette macchine moderne, cioè il treno, la strada ferrata, ma è un grande errore. Le macchine della civiltà moderna sono decisamente poco eleganti ed è difficile inserirle in un tanka, ma se si volesse farlo non si può far altro che combinarle con un elemento che abbia gusto. Scrivere ‘Sui binari passa il vento’ senza qualcosa che accompagni l’immagine, è il massimo della prosaicità. Se almeno vi abbiniamo altri soggetti, come le violette che fioriscono accanto ai binari, oppure i papaveri che perdono i petali dopo il passaggio del treno a vapore, o le piume delle pampas che tremano, l’effetto visivo migliora un po'. Ciò che è squallido, inoltre, è meglio guardarlo da lontano.’[18] Lo scritto risale al 1898; sotto l’influenza della pittura, lo Shiki iniziale che trasformava in versi qualunque cosa osservasse senza selezionare il materiale né combinarlo, aveva compiuto dei notevoli passi in avanti e proponeva una poetica che ‘mediava’ tra pittura e poesia, oriente e occidente, tradizione e modernità. L’idea di composizione trascinava con sé quella di ‘scelta’ degli elementi da inserire nel quadro o nella poesia: Shiki, che aveva cominciato a sentirsi insoddisfatto della ‘quantità’ di haiku che l’osservazione diretta in loco e la riproduzione realistica gli permettevano di scrivere, ricerca ora la ‘qualità’ limando i suoi versi, scartando e ridisponendo gli elementi della scena: “Le persone alle prime armi, quando vedono un paesaggio e pensano ‘facciamone una poesia’, hanno poi molti dubbi su cosa cogliere e inserire. Dato che il paesaggio non è stato creato perché fosse materiale per gli haiku, indubbiamente presenterà anche cose che non sono adatte, o cose che una volta scritte non saranno interessanti, oppure ci sarà tanto materiale da risultare impossibile farlo stare tutto in diciassette sillabe. È compito del letterato raccogliere i gioielli e selezionare il bello da tutta la creazione che è una confusione di pietre senza valore e diamanti, di bello e di brutto. Ed è impresa dello haijin riordinare in maniera sistematica la bellezza che non è ordinata, e assortire secondo una regola i gioielli che erano stati disposti senza regola. Quindi anche nel caso in cui si componga una poesia su qualcosa osservato dal vivo, si deve eliminare ciò che è brutto ed utilizzare ciò che è bello. […]”.[19] Questo fa sì che Shiki per esempio sposti l’ambientazione di quello che viene riconosciuto come il suo haiku più famoso:
…E come mordo il cachi
risuona, la campana.
Antico tempio
柿食えば鐘が鳴るなり法隆寺
(kaki kueba/kane ga narunari/Hōryūji)[20]
È cosa nota che Shiki lo aveva composto basandosi su una esperienza reale, ma il tempio dove l’aveva vissuta era il Tōdaiji e non lo Hōryūji vicino a Nara di cui parla la poesia; il poeta aveva cambiato lo sfondo, perché il Tōdaiji era solitamente affollato da gente in visita e la cacofonia non permetteva di far risaltare i suoni della campana e il crocchiare del cachi.
Sebbene non si fossero mai incontrati direttamente, il pittore italiano e il poeta giapponese condividono pensieri e atteggiamenti. Al rimprovero di cecità e disattenzione da parte di Fontanesi ai suoi allievi giapponesi che, invitati a riprodurre un paesaggio della zona di Marunouchi di Tōkyō erano tornati a mani vuote, fa eco il rimprovero di Shiki ai poeti del suo tempo, per la mancanza di creatività e cecità che li portava a riutilizzare sempre gli stessi soggetti. Fontanesi aveva sottolineato che la colpa dell’insuccesso di quei suoi allievi non era del posto in cui li aveva inviati a dipingere, ma della loro incapacità di vedere con occhi da artista; Shiki, dal canto suo, affermava: “Non dovete fermarvi quando avete composto una o due poesie da un vasto paesaggio. La cosa successiva da fare è guardare davanti ai vostri piedi e scrivere di quello che vedete, l’erba o i fiori in boccio. Se scriverete di tutto questo, avrete venti o trenta poesie senza muovervi dal posto in cui siete. Prendete i soggetti da ciò che vi circonda: se vedete un fiore di tarassaco, parlate dei fiori di tarassaco. Se vedete dei crisantemi, scrivete di quelli. Se ci sono dei campi di grano, scriverete del grano non ancora maturo. Se i fiori della soia stanno sbocciando, componete versi con questo soggetto. Se c’è la nebbia, scrivete della nebbia; se fa un tempo splendido, dovreste parlarne. Lunghi giorni di primavera, la tranquillità, la tarda primavera, l’approssimarsi dell’estate, i fiori di pesco, i salici sulla riva del fiume, la raccolta delle erbe dei campi, una passeggiata fra l’erba, le rondini… I soggetti della poesia sono tutti intorno a voi al punto da poterli gettare via”[21]. I due uomini condividevano ancora la convinzione che fosse solo la Natura l’elemento da cui trarre i soggetti, assegnando un ruolo secondario all’immaginazione. All’affermazione di Fontanesi: “[…] se si studiasse con religione il vero, si farebbe nuovo, perché la natura è sempre nuova e infinitamente variata”[22] corrisponde quella di Shiki: “Ciò che è immaginato è espressione del pensiero umano, quindi, dal momento che quell’essere umano non è un genio straordinario, è impossibile evitare in modo assoluto la mediocrità e l’imitazione. Invece col realismo, poiché si riproduce la natura e proprio perché la natura cambia, anche la prosa e la pittura possono cambiare. Guardando le opere realistiche si può anche avere l’impressione che siano un po’ superficiali, ma più le si assapora profondamente, maggiore è la varietà di mutamenti e di gusto che rivelano. ”[23]
Ma non è solo con Fontanesi che Shiki condivide il proprio pensiero. Nel corso delle nostre ricerche abbiamo trovato un curioso episodio in cui il pittore Édouard Manet (1832 – 1883) in Francia e il poeta Shiki in Giappone, pur non avendo mai avuto contatti, sembrano rubarsi le parole di bocca. Manet infatti, dando lezioni di pittura ad Eva Gonzales (1849 -1883), a proposito della rappresentazione di un pesce le disse: “[…] quando contempla tutto l’insieme non si sogna di contare le scaglie del salmone, vero? Le deve vedere come piccole perle d’argento contro il color grigio e rosa […]”[24]; Shiki, dal canto suo, parlando di carpe nella pittura tradizionale giapponese, dichiarava quasi la medesima cosa:
“[…] in una carpa si vedono una per una chiaramente 36 scaglie. Anche le carpe del periodo Higashiyama[25], che sembrano pesci gatto, sono grossolane, ma riuscire a contare le squame è strano […]. In realtà le persone, quando guardano le carpe, non vedono le scaglie una per una, e la sensazione di bellezza che provano di fronte alle carpe non ha nulla a che fare con il fatto che ce ne siano o meno 36”.[26]
Ma forse il pittore occidentale al quale il pensiero di Shiki è più vicino nella sua concezione della Natura e nell’importanza che le attribuisce per lo haiku, è Paul Cézanne (1839 – 1906), quando questi esorta ad uscire dagli atelier e a prendere contatto diretto col paesaggio, sottolineando la ‘sincerità’ dell’approccio: “[…] tutti i quadri fatti in interno, in studio, non varranno mai le cose fatte all’aria aperta.”[27], “il pittore deve consacrarsi interamente allo studio della natura […]. Non si è né troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura”[28]. Entrambi inoltre spingevano perché gli artisti superassero le tradizioni da cui erano nati: Shiki propose agli haijin suoi contemporanei la figura di Kobayashi Issa (1763 -1827), e soprattutto quella di Yosa Buson come alternativa a Bashō a cui si faceva costante riferimento, mentre Cézanne esortava ad apprendere dai pittori del passato ma per poi tornare alla natura: “Couture[29] diceva ai suoi allievi: ‘frequentate buoni pittori’, cioè ‘andate al Louvre’. Ma dopo aver visto i grandi maestri che qui riposano, bisogna affrettarsi ad uscire e a vivificare a contatto con la natura gli istinti, le sensazioni dell’arte che sono in noi”[30], “il Louvre è un buon libro da consultare ma non deve essere che un intermediario”[31].
Al di là di queste somiglianze ‘fortuite’, dobbiamo dire che molti haiku di Shiki sembrano davvero richiamare i quadri impressionisti, per i giochi di luce, i colori brillanti e la pennellata breve, fatta di pochi tocchi:
Sottile, sottile,
dalla finestra, il sole.
Mese di maggio
うすうすと窓に日の差す五月かな
(usu usu to/ mado ni hi no sasu/ gogatsu kana)[32]
E sopra i futon
stesi sulla veranda,
le foglie morte…
縁に干す蒲団の上の落葉かな
(en ni hosu/futon no ueno/ochiba kana)[33]
Scintillano, scintillano
trotelle lungo il fiume.
Sole al tramonto…
ちらちらと小鮎ののぼる夕日かな
(chirachira to/ koayu no noboru/yūhi kana)[34]
Mille colline
e rosse foglie d’acero.
Un corso d’acqua…
千山の紅葉一すじの流れかな
(senzan no/ momiji hitosuji no/nagare kana)[35]
Il sole del mattino!
In mille verdi foglie
su tutta la montagna
満山の若葉にうつる朝日かな
(manzan no/wakaba ni utsuru/asahi kana)[36]
Tornando a Fontanesi, comunque, va detto che se è vero che sia il pittore italiano che lo haijin partono entrambi dalla natura, Fontanesi, sviluppando la propria pittura, approderà ad un lirismo che è estraneo a Shiki: quest’ultimo, pur parlando dei propri sentimenti di solitudine, di dolore di fronte alla morte imminente, non arriva mai allo sfogo lirico, impossibilitato sia dalla brevità della forma poetica che dalla sua educazione di samurai e di confuciano. Fontanesi è stato di volta in volta etichettato come ‘classicista’, ‘poeta romantico’ e ‘pittore del vero naturale’. In riferimento ai suoi quadri si è parlato di ‘melanconia’, come ben illustrano ad esempio i suoi dipinti ‘Solitudine’, o ‘Novembre’ che per composizione sembra essere quasi una copia speculare di ‘Solitudine’, o lo stesso ‘Aprile’ che non presenta nulla dell’esuberanza primaverile che ci si aspetterebbe. (cfr. figure 6,7,8)
Quello che invece Shiki mantiene anche di fronte a sentimenti complessi ed estremi quali quelli suscitati dalla visione del proprio degrado fisico e dall’inesorabilità del proprio destino, è il realismo, il distacco e un approccio sincero ai propri sentimenti, privo di retorica o ornamenti verbali:
Secco, il pennello…
Più non ci sono fiori
che possano sbocciare
筆ちびて返り咲くべき花もなし
(fude chibite/ kaerizakubeki/hana mo nashi)[37]
scrive sinceramente e lucidamente il poeta, parlando della propria malattia, nel suo diario ‘pubblico’ Bokujū Itteki (‘Una goccia d’inchiostro’) che ogni giorno compariva sulle pagine del quotidiano Nihon. Qui Shiki allude ai fiori di ciliegio che possono tornare a fiorire una seconda volta se l’autunno è particolarmente mite. Ma per lui non c’è speranza: sapeva fin dall’inizio che la sua malattia era mortale. Ora che le sue condizioni si sono fatte più serie, Shiki contempla con distacco la propria morte[38]. Sono soprattutto gli haiku scritti negli ultimi anni di vita ad essere così obiettivi e sinceri nel trattare i sentimenti:
Ho ucciso il ragno.
Ma poi che solitudine…
Notte gelata
くも殺す後の淋しき夜寒かな
(kumo korosu/ ato no sabishiki/yosamu kana)[39]
Nelle lunghe notti di veglia per il dolore, persino un ragno può essere una compagnia. Persa anche quella, la notte si fa più tremenda. Così, l’arrivo di un amico è sempre un conforto per un malato:
La neve è sciolta…
Oh, la felicità:
un suon di passi!
雪解けて雪踏の音の嬉しさよ
(yuki tokete/setta no oto no/ureshisa yo)[40]
Uno spaventapasseri,
tra poco…
十年の狂態今に案山子哉
(jūnen no/kyōtai imani/kakashi kana)[41]
Di questa vita
resta ancora qualcosa.
Che breve notte
余命いくばくかある夜短し
(yomei/ ikubaku ka aru/yomijikashi)[42]
Come si vede, ogni situazione viene affrontata senza sentimentalismo, senza lirismo e senza arrivare al patetico.
Le strade del pittore e del poeta, giunte a questo punto, si dividono: gli allievi giapponesi di Antonio Fontanesi non ne recepirono la ‘malinconia’, in parte perché il maestro rimase con loro per meno di due anni, in parte perché dovette insegnare i rudimenti della pittura occidentale senza avere il tempo per approfondire la sua idea di rapporto fra uomo e natura, di ‘poesia del vero’ intesa come Melanconia. Ma è indubbiamente esistito un ‘filo rosso’ che ha legato non solo la pittura e la poesia, ma ben tre paesi insieme: la Francia dei pittori di Barbizon, l’Italia di Fontanesi e il Giappone di Shiki, a sua volta motore di un enorme rinnovamento culturale in patria.
[1] Antonio Fontanesi (1818 – 1882) arrivò in Giappone nel 1876. Aveva ricoperto in Italia il ruolo di professore all’Accademia Albertina di Torino ed era quindi un nome noto nel mondo dell’arte italiana, anche se in molti mostravano di non capire la sua pittura. La sua insoddisfazione per le tendenze conservatrici dell’Accademia e dell’ambiente artistico del tempo, rappresentò uno dei motivi che lo spinsero ad accettare di insegnare in Giappone, dove rimase per poco meno di due anni. Era stato invitato dall’istituto per le arti Kōbu bijutsu gakkō che venne inaugurato quello stesso anno, e la cui creazione si inseriva nel progetto di ‘modernizzazione’ del paese che passava per l’apprendimento delle nuove tecniche occidentali. L’accesso alla scuola era negato ai principianti e, cosa eccezionale, erano ammesse anche le donne. Fontanesi, che ebbe come allievi pittori destinati a diventare artisti di pregio, fu particolarmente amato dai suoi studenti giapponesi. Serve anche ricordare che, nello stesso anno di Fontanesi, nel medesimo istituto giapponese vennero chiamati ad insegnare anche lo scultore Ragusa e l’architetto Giovanni Vincenzo Cappelletti: tutti italiani, dunque, come fu italiano anche colui che consigliò la costruzione del Kōbu bijutsu gakkō all’Imperatore Meiji, ossia l’ambasciatore Alessandro Fé d’Ostiani. Per ulteriori informazioni sulla vita di Fontanesi, si consultino gli Atti Convegno Internazionale - italiani nel Giappone Meiji, La Sapienza ed., Roma, 2007, oppure il catalogo della mostra su Fontanesi tenutasi a Reggio Emilia nel 1999: Elisabetta Farioli, Claudio Poppi (a cura di), Antonio Fontanesi e la pittura di paesaggio in Italia (1861-1880), Motta Editore,1999.
[2] Masaoka Shiki, ‘Jojibun’, Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. XIV, p. 240 e segg., 正岡子規,『叙事文』,
「子規全集」, 第14巻 , 講談社.
[3] Fusetsu era allievo di Koyama Shōtarō小山正太郎 (1857 – 1916), uno studente di Fontanesi, e conobbe Shiki nel 1894.
[4] Asai Chū 浅井忠(1856-1907) fu il miglior discepolo di Fontanesi e il suo dipinto Shūkaku ("Il raccolto") è considerato il primo capolavoro giapponese della pittura a olio di soggetto paesaggistico. Il legame con Shiki era profondo: i due vivevano vicini e quando Chū partì per Parigi, mandò allo haijin i disegni per la copertina della sua rivista letteraria Hototogisu nonché il taccuino Guretsu Nikki ("Diario di Graz"). Secondo alcuni studiosi, questo taccuino sarebbe stato compilato appositamente per Shiki. Il rispetto che quest’ultimo nutriva per Chū era evidente: era una delle pochissime persone che chiamava con l’appellativo di ‘maestro’.
[5] Masaoka Shiki, ‘E’, Abe Akira ed., Meshi matsu aida – Masaoka Shiki zuihitsusen -, Tokyo, Iwanami bunko, 1985, p. 115, 正岡子規,『絵』, 阿部昭編集,「飯待つ間・正岡子規随筆選」, 岩波書店.
[6] Tsubouchi Toshinori, Shiki sanmyaku, Tokyo, Nhk Raiburarī, 1997, p. 168, 坪内稔典 ,「子規山脈」, NHKライブラリー.
[7] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, Tokyo, Iwanami bunko, 2000, p 292, 高浜虚子選,「子規句集」, 岩波文庫.
[8] Shimomura Izan下村為山 (1865 – 1949) oltre ad essere un pittore in stile occidentale, era anche uno haijin ed aderiva al gruppo di Shiki partecipando con le proprie illustrazioni alla rivista del gruppo, Hototogisu. Anche lui come Fusetsu era stato allievo di Koyama Shōtarō (cfr. nota 3).
[9] Il giornale che sostituì Nihon, di cui Shiki era un redattore, quando questo cessò le pubblicazioni.
[10] Masaoka Shiki, ‘E’, Abe Akira ed., Meshi matsu aida – Masaoka Shiki zuihitsusen, op.cit., pp. 112-113
[11] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 98.
[12] Shiokawa Kyōko, Masaoka Shiki no omokage, Kyoto, Kyōtoshinbunsha, 1996, p.113, 塩川京子,「正岡子規の面影」,京都新聞社.
[13] Yamamoto Kenkichi, Katō Shūson hen, Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, Tokyo, Shinchōsha, 1969, p. 106, 山本健吉、加藤楸邨編,「 正岡子規・高浜虚子-日本詩人全集」, 新潮社.
[14] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 90.
[15] Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, Tokyo, Iwanami bunko, 2000, p. 107, 正岡子規,「墨汁一滴」, 岩波文庫.
[16] Atti Convegno Internazionale italiani nel Giappone Meiji, Roma, La Sapienza ed., 2007, p. 239
[17] Genere poetico più lungo dello haiku, strutturato su 31 sillabe suddivise secondo una scansione ritmica di 5-7-5-7-7 sillabe.
[18] Masaoka Shiki, ‘Utayomi ni atōru sho’, Masaoka Shiki - Chikuma Nihon Bungaku Zenshū - , Tokyo, Chikuma Shobō, 1998, pp. 363-364 , 正岡子規,『歌よみに与ふる書』,「正岡子規-ちくま日本文学全集」,筑摩書房.
[19] Masaoka Shiki, ‘Haikai Hōgukago’, Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. IV, pp. 577-578, 正岡子規,『俳諧反故籠』, 坪内稔典 編集,「子規の俳句革新・子規選集」, 第6巻, 増進会出版社.
[20] Shiki Zenshū, Tokyo, Kōdansha, 1975-1978, vol. II, p. 325, 「子規全集」, 講談社.
[21] Masaoka Shiki, ‘Zuimon Zuitō’, Shiki Zenshū, op.cit., vol. V, pp. 262-263, 正岡子規,『随問随答』,「子規全集」, 講談社.
[22] Calderini Marco, Antonio Fontanesi pittore paesista 1818- 1882, Torino, 1925 (I ed. 1901), p. 45.
[23] Masaoka Shiki, Byōshō Rokushaku, Iwanami Bunko, 2000, pp. 76 -77, 正岡子規,「病床六尺」, 岩波文庫 .
[24] Rewald John, La storia dell’Impressionismo, Milano, Mondadori, 1991, p. 192.
[25] Periodo del Giappone medievale e località di Kyōto dove si era ritirato lo shōgun Yoshimasa nel 1483. Mecenate delle arti , Yoshimasa protesse poeti e pittori dell’epoca, dando il via alla cultura detta ‘cultura di Higashiyama’. Resta famoso anche per aver fatto costruire il famoso tempio zen ‘Padiglione d’argento’ (Ginkakuji) tuttora esistente in Kyōto.
[26] Masaoka Shiki, ‘Bungaku bijutsu hyōron’, Awazu Norio ed., Shiki to kaiga - Shiki senshū , n. 8, Zōshinkai, 2002, p. 56, 正岡子規,『文学美術評論』, 粟津則雄編,「子規と絵画・子規選集」, 第8巻, 増進会 .
[27] Rewald John ed., Paul Cézanne - Correspondance, Paris, Grasset, 1978, p. 157.
[28] Ibidem, p. 379.
[29] Thomas Couture (1815 – 1879), notissimo pittore francese, fu insegnante di Manet.
[30] Rewald John ed., Paul Cézanne - Correspondance, op.cit., p. 371.
[31] Ibidem, p. 378.
[32] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, vol. 2, Shinchōsha, 1969, p 90.「正岡子規・高浜虚子」,日本詩人全集, 第2巻, 新潮社
[33] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op. cit., p.82.
[34] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, op.cit., p. 88.
[35] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 26.
[36] Ibidem, p. 144.
[37] Masaoka Shiki, Bokujū Itteki, op.cit., p. 11.
[38] Shiki fu comunque una persona dalla grandissima vitalità: lavorò sempre e morì poco dopo aver composto i suoi tre ultimi haiku.
[39] Takahama Kyoshi sen, Shiki Kushū, op.cit., p. 151.
[40] Masaoka Shiki – Takahama Kyoshi, Nihon Shijin Zenshū, op.cit., p. 157.
[41] Ibidem, p. 152.
Ranpu no kage (‘Alla luce della lampada’): disegno di Asai Chū che accompagna la pubblicazione del saggio breve ‘Ranpu no kage’ di Shiki nel 1900 sulla rivista letteraria Hototogisu; vi è raffigurata la stanza di otto tatami (ca. 14 metri quadri) dove giaceva Shiki, durante uno haikukai, una riunione coi suoi allievi per comporre haiku. Shiki appare al centro della composizione, semidisteso, appoggiato su un gomito.
Disegno di Nakamura Fusetsu: ‘Davanti al giardino’ (Teizen zugasan)
Masaoka Shiki, Shirouri; Kyūri (“Popone e cetrioli”, luglio 1902), in Kudamonochō (“Taccuino di frutta”)
Masaoka Shiki, Nogiku (“Crisantemo selvatico”, agosto 1902), in Kusabanachō (“Taccuino di erbe e fiori”)
Antonio Fontanesi ‘Solitudine’ , 1875 circa
Antonio Fontanesi ‘Novembre’, 1864
Antonio Fontanesi, ‘Aprile’, 1873 circa
Universo e Vuoto: lo haiku giapponese
Il piccolo universo di diciassette sillabe che compone lo haiku, potrebbe sembrare uno spazio angusto, troppo, perché vi si possa trovare qualcosa di più che un piccolo ‘quadro’, una gradevole scena di vita naturale. Eppure la maestria dei poeti giapponesi, aiutati anche dalla struttura allusiva della loro lingua, è stata in grado di restituirci versi che sollecitano profonde riflessioni, oltre alle suggestioni e agli echi che sollevano nel nostro animo. Le regole dello haiku tradizionale sembrano ad un primo sguardo fin troppo semplici: diciassette sillabe[i] che nello haiku moderno e contemporaneo appaiono distribuite su tre versi di cinque, sette e cinque sillabe; una parola che indica la stagione a cui i versi intendono riferirsi (kigo); una pausa che in giapponese è indicata da una parola (kireji) intraducibile e spesso resa con puntini di sospensione, punti fermi o punti esclamativi. Ma aldilà di queste basilari regolette, lo haiku è soprattutto una poesia di ‘concentrazione’. Concentrazione dell’attenzione del poeta in primis, nei confronti dell’ambiente naturale che lo circonda e che comprende non solo il regno vegetale e animale ma anche l’uomo e le sue attività. È questa concentrazione che fa sì che lo haijin sia assolutamente presente a sé stesso e al mondo che lo circonda contemporaneamente, centrato oltre che concentrato nel momento che sta vivendo. Questa attenzione lo porta in primo luogo a scorgere cose che al distratto occhio quotidiano dei più risultano invisibili. Ad uno stadio successivo, lo conduce ad una ‘assimilazione’ di identità con l’oggetto osservato. Prendiamo come esempio questo haiku del maestro Takahama Kyoshi 高浜虚子 (1874-1959), capo della più grande scuola del Novecento, Hototogisu (‘Il Cuculo’) da cui uscirono, anche solo per contestarla, tutti gli haijin più famosi fino ai giorni nostri:
Bocca d’insetto…
una piccola perla
di brina, vedo.
虫の髭に小さき露のあるを見る
(mushi no hige/ni chiisaki tsuyu no /aru o miru) [ii]
Qui, il poeta che aveva sostenuto la necessità di un assoluto realismo, affila il proprio sguardo fino a scorgere la bocca dell’insetto e su di essa una minuscola perlina di brina. Quasi un’osservazione entomologica effettuata con l’uso di un microscopio.
Ma la concentrazione, necessità dettata dall’esiguità dello spazio di scrittura, è anche del materiale poetico: l’autore è costretto ad una estrema opera di selezione degli elementi che compongono la scena che sta osservando. Sebbene anche gran parte della letteratura occidentale sia costruita attraverso una mancanza, tacendo parti importanti che vengono lasciate alla ricostruzione e all’immaginazione del lettore[iii], è lo haiku la poesia dove dominano le ellissi, chiamate in giapponese shōryaku, nonché quegli spazi di silenzio che il lettore è chiamato a riempire con la sua fantasia coadiuvata dalla sua conoscenza pregressa e condivisa della cultura dell’autore. Questo spazio bianco, definito yohaku, è presente anche in versi semplici come quelli del poeta Masaoka Shiki 正岡子規 (1867 -1902), maestro di Kyoshi e figura fondante del genere haiku:
Nuvole gonfie:
le bianche vele raccolte
insieme, a sud…
雲の峰 白帆 南に群がれり
(kumo no mine/ shiraho minami ni /muragareri)[iv]
Anche senza sapere che kumo no mine è la parola indicante la stagione estiva con le sue imponenti formazioni nuvolose bianche generate dal calore nel cielo terso, nella mente del lettore sembra formarsi naturalmente il quadro di un paesaggio sereno, una marina che ci rappresentiamo grazie alla sola presenza delle vele. Eppure il mare non viene mai menzionato, non troviamo né il termine ‘mare’ o ‘oceano’, né ‘porto’, né ‘spiaggia’: insomma nessuno dei comuni vocaboli associati ad un paesaggio marino. Però il fatto che le barche si allontanino all’orizzonte suggerisce un panorama vasto che il lettore non può fare a meno di associare al mare, piuttosto che ad un lago o ad un fiume. Attorno a quell’omissione di un termine determinante, grazie a quel silenzio, il lettore costruisce uno scenario con una vasta distesa di acque dove, come nei migliori haiku, compare un contrasto: quello fra le bianche nuvole torreggianti e le altrettanto bianche ma minuscole vele.
Lo haiku è dunque – e la cosa può sembrare un ossimoro – una poesia costruita intorno al ‘vuoto’: un vuoto che permette la sua concentrazione. Vuoto non soltanto per il molto che vi viene taciuto, ma anche perché il genere conserva un legame con il ‘Vuoto’ in senso metafisico, come è stato concepito nel buddhismo. Se nel mondo occidentale il Vuoto è stato identificato con il Nulla, nel mondo cinese e giapponese corrisponde invece a quella parte assente che permette al pieno di esistere. È un elemento fondante per tutta la cultura giapponese: è la parte interna ed esterna della tazza da tè che ne permette l’esistenza e la funzione; è lo spazio bianco della pagina che riempiamo con l’inchiostro in calligrafia ed è infine il silenzio nello haiku.[v] Questo collegamento con il buddhismo non riguarda solo lo haiku – e ricordiamo che il suo poeta più rappresentativo, Matsuo Bashō 松尾芭蕉 (1644 - 1694) praticava la meditazione zen oltre ad essere un indefesso viaggiatore e poeta – ma tutta l’arte poetica giapponese: già nel 1400 la poesia venne accostata alla filosofia buddhista dal poeta Shinkei[vi], che sosteneva che i versi nascevano quando i desideri e le passioni mondane si erano ormai spente e si era diventati consapevoli dell’inconsistenza degli eventi, i quali non hanno natura propria ma esistono solo in relazione all’evento contrario.
A questo legame dobbiamo la presenza di tanti elementi filosofici nello haiku e quella profondità che fa sì che le opere migliori non si arrestino alla sola rappresentazione realistica, al solo ‘quadro’, stadio iniziale della scrittura per uno haijin, ma presentino una stratificazione di senso.
Vediamo a questo proposito proprio uno haiku di Bashō:
Erbe d’estate…
I guerrieri d’un tempo,
resti d’un sogno.
夏草や兵どもが夢の跡
(Natsukusa ya/tsuwamonodomo ga/yume no ato)[vii]
Il poeta ha composto i versi durante il viaggio documentato dal suo diario più interessante, Oku no Hosomichi 奥の細道 (‘Lo stretto sentiero verso Nord’), ed esattamente a Hiraizumi, nella regione nord-est del Giappone, il Tohoku. Qui si era svolta una sanguinosa battaglia: il signore della provincia, Fujiwara Hidehira (data sconosciuta - 1187) aveva donato un castello a Minamoto no Yoshitsune (1159 – 1189), considerato un rivale al potere dal suo stesso fratello, lo shōgun Minamoto no Yoritomo. Alla morte di Hidehira, il suo erede rivolle indietro il dono e, spinto dallo shōgun, scatenò contro Yoshitsune una battaglia in cui quest’ultimo e tutti i suoi persero la vita. Bashō, che visitò il luogo cinquecento anni dopo, riportò nel suo taccuino: ‘Le tre generazioni gloriose dei Fujiwara di Hiraizumi sono scomparse nello spazio di un sogno […] la dimora di Hidehira ora è solo un campo vuoto […] Yoshitsune si era chiuso in questo castello ma il suo nome glorioso, in un momento, s’è tramutato in erba. […] Qui, senza più coscienza del tempo che passava, rimasi in lacrime.’[viii]
Bashō, nel breve giro delle diciassette sillabe, ci rammenta un episodio storico che i letterati del suo tempo ben conoscevano e facendolo, evoca una storia di conquista e perdita del potere. Insieme alla rievocazione del fatto, ci ammonisce sulla vanità delle cose umane: per quanto possano esser grandi i sogni e fieri i guerrieri – non a caso il poeta usa per ‘guerrieri’ il termine roboante tsuwamonodomo – ciò che resterà sarà solo semplice erba estiva. Ma anche questa morirà per essere riassorbita in qualcosa che è più grande, onnicomprensivo, ossia la Natura che nel suo ciclo costante di nascite e morti sarà alla fine la sola a perdurare. L’idea dell’impermanenza, come accade spesso nei migliori haiku, convive all’interno dei versi con ciò che è permanente. Ma non solo questo: persiste fra i caratteri, un nucleo vuoto che il poeta non disvela. Perché nell’originale giapponese la frase è tronca e manca un verbo. Questo genera un’ambiguità: quello che resta è solo il sogno dei guerrieri? Non è forse anche il sogno del poeta che, suggestionato dal luogo, rivede davanti ai suoi occhi la battaglia di un tempo? Ma anche entrambe le ipotesi sono possibili.
Persino poeti come Masaoka Shiki 正岡子規 (1867 -1902) che, formatosi nel confucianesimo, fu un fiero avversario di ogni interpretazione filosofica degli haiku di Bashō e che difese la rappresentazione più realistica e oggettiva possibile del paesaggio, non sono immuni da influenze del buddhismo e dello zen, a riprova del fatto che questa filosofia era - ed è ancor oggi - acquisita in modo inconscio e diventata parte imprescindibile del bagaglio culturale. Analizziamo a riprova questi suoi versi:
Caduti, i fiori:
scorrendo verso il sud
il fiume va.
花散って水は南へ流れけり
(hana chitte / mizu wa minami e / nagarekeri)[ix]
Quando in poesia si parla di ‘fiori’ per convenzione consolidata si allude ai fiori di ciliegio, il simbolo per eccellenza della caducità. Il quadro è semplice: un campo con alberi di ciliegio e un fiume, ma al di là di questo, ancora una volta abbiamo la compresenza di ciò che è permanente e ciò che è perituro. Quello che era destinato per sua natura a finire è caduto, sembra dire il poeta, mentre il fiume continua indifferente nel suo scorrere. Ma alla fine anche questo elemento naturale sarà riunito a qualcosa di più grande, il mare, la cui acqua di nuovo tornerà in altra forma sulla terra. Proprio perché il poeta lascia un vuoto descrittivo che possiamo colmare, riusciamo ad immaginare una relazione anche più diretta fra i fiori e il fiume, a legare più strettamente le due immagini e a vedere i petali cadere direttamente nell’acqua, dove vengono trascinati via fino ad essere inglobati dalle acque del mare, rendendo di fatto possibile il loro riassorbimento nell’eterno.
Il ‘vuoto’ dello haiku non è dunque solo ‘assenza’ di soggetto, di parti della frase che sollecitano il nostro riempimento, ma è anche vuoto in senso metafisico ed alcuni poeti fanno apertamente riferimento ad esso. È il caso di Kawahigashi Hekigotō 河東碧梧桐 (1873 – 1937), altro allievo di Masaoka Shiki e innovatore più deciso, con i suoi versi che tradivano la misura sillabica canonica per contrarsi in brevissime frasi o in composizioni lunghissime, tanto che il poeta stesso le definì ‘poesie brevi’ (tanshi) piuttosto che haiku. Una sua creazione, che però rispetta la metrica canonica, recita:
Pizzica il vuoto
il granchio morto là.
Torri di nubi.
空をはさむ蟹死にをるや雲の峰
(kū o hasamu/kani shi ni oru ya/kumo no mine)[x]
Il panorama marino sembra offrire una scena chiara, realistica e senza nulla di anomalo, ma dietro l’apparente banalità i contenuti si accumulano. Il primo carattere della poesia (空), infatti, ha una doppia lettura e un doppio significato: il più comune è ‘cielo’ (sora) e, di conseguenza la prima immagine che si forma nella mente del lettore giapponese sotto l’influenza del solo effetto grafico dell’ideogramma, è quella di un granchio che sembra voler ‘pizzicare’ il cielo. Ma è stato il poeta stesso a segnalare che il carattere andava letto kū, ossia ‘vuoto’. Si deve dunque dare al termine un significato che vada oltre il fenomeno fisico. L’animale assurge quindi a simbolo del poeta stesso e forse di tutti gli uomini, nella loro incapacità di raggiungere il cielo o, in senso metafisico, il Vuoto, il Nirvana. Il granchio appare minuscolo contro la gigantesca nube e con questo contrasto violento il poeta costruisce un primo piano e uno sfondo, conferendo alla composizione profondità di campo. Destinato alla dissoluzione nel ciclo naturale, il piccolo crostaceo rappresenta inoltre il transeunte: insieme a lui anche la nube, per quanto possa essere grande - come i guerrieri nello haiku di Bashō con la loro ambizione e fierezza - si dissolverà: quello che rimarrà allora, sarà proprio il cielo, o meglio ancora il ‘vuoto’.
Ancora oggi, anche se i giapponesi praticano sempre meno la meditazione zen, questi riferimenti al ‘vuoto’ e all’impermanenza, centrali nel buddhismo, riaffiorano inconsapevolmente tra i versi. Si veda ad esempio questo haiku di Natsuishi Ban’ya 夏石番矢 (1955), presidente della World Haiku Association e promotore dell’internazionalizzazione di questa forma poetica:
Il vuoto va
attraverso i dotti lacrimali.
Vanno, le nubi.
涙腺を真空が行き雲が行く
(ruisen o/shinkū ga yuki/kumo ga yuku)[xi]
Lo haiku parla apertamente di un ‘vuoto’ che siamo liberi di ipotizzare essere l’assenza di una persona amata che ci ha lasciati. Questo vuoto, questo dolore, coinvolge le ghiandole lacrimali (ruisen) - termine scientifico che stempera un’eccessiva commozione e annulla il pericolo di un vieto sentimentalismo - esternandosi in pianto: ma il dolore stesso è impermanente, ragione per cui anche i dotti lacrimali si fanno ‘vuoti’, mentre le lacrime si sono da tempo tramutate in vapore acqueo, in nubi. Le stesse nubi sono poi destinate ad ‘andare’: quel che resta, come nello haiku precedente, sarà ancora il ‘cielo’, ancora una volta il ‘vuoto’. Notiamo come, pur parlando di dolore, il poeta non sia caduto nella trappola della confessione personale e l’ego sia stato annullato per dare spazio ad un punto di vista universalmente valido.
Con la sua struttura, la lingua giapponese sembra particolarmente adatta a lasciare spazio a questi vuoti. La mancanza di declinazione dei verbi e l’omissione dei soggetti contribuiscono all’ambiguità e alle sovrapposizioni di lettura. Interessanti, a questo proposito, i versi di Yamaguchi Seishi山口誓子 (1901 -1994):
s’incontrano motrici
senza carrozze.
秋夜遭ふ機關車につづく車輌なし
(shūya au/kikansha ni tsuzuku/sharyō nashi)[xii]
In questo haiku il verbo è presente, ma è il soggetto che manca. Nella lingua giapponese dove, per soprammercato, uno stesso sostantivo può essere singolare o plurale ed il verbo non viene declinato a seconda del soggetto, quando tale soggetto è assente non è possibile esser certi di chi compia l’azione, come invece accade in italiano grazie alla declinazione del verbo: chi, in questi versi, incontra treni senza carrozze? È forse il poeta che camminando in una sua peregrinazione notturna s’imbatte in questa motrice che sembra abbandonata sul binario? O non sono forse – ed è egualmente possibile dal punto di vista della costruzione meramente linguistica – due motrici che si spostano, l’una in una direzione, l’altra nella direzione contraria e che ad un certo punto si intersecano? Ma la frase giapponese consente anche una terza interpretazione, forse anche più suggestiva. Esaminando i versi parola per parola abbiamo infatti: shūya ossia ‘notte di autunno’, au ovvero ‘incontrare’ e kikansha ‘motrice’. Tenendo conto della regola grammaticale per cui se un verbo precede un sostantivo siamo in presenza di una frase relativa, il verso può suonare come ‘motrice che incontra la notte d’autunno’, suggerendo l’immagine di un treno privo di carrozze che corre nel tramonto incontro alla notte. Rimane quindi un’ulteriore dubbio nella mente del lettore, e questa volta il poeta non concede nessun elemento per chiarirlo: perché mai questa motrice non è seguita, come sarebbe logico e naturale, dalle carrozze? Il critico giapponese Konishi Jin’ichi faceva notare come la capacità di Yamaguchi Seishi di tacere quello che dovrebbe esserci e di inserire nello haiku quello che non appare necessario, sconcerti il nostro senso comune aprendoci allo stesso tempo nuove possibilità di percepire il mondo[xiii]. Interessante è l’interpretazione che offre lo haijin italiano Toni Piccini per sciogliere il nodo di non detto che fonda questi versi, mettendo in collegamento l’autunno - stagione che avvia il mondo naturale alla ‘morte’ in inverno - alla motrice, che privata delle sue carrozze non ha più una sua funzione: “un momento di non vita, prima dell'ormai prossimo fine vita”, una sensazione immediata poi confermata nella sua riflessione sul testo. “Un oggetto è 'vivo' mentre svolge la sua funzione, cosa che le motrici non possono fare essendo senza le carrozze, a loro levate nel luogo di ricovero notturno ove si incontrano. Autunno, la stagione che precede l'inverno, la fine del ciclo. Autunno, il periodo prima della stagione più dura, come ci ricorda anche uno haiku di Shiki: “Io parto \ tu resti – due autunni”[xiv], laddove il dolore più crudo arriverà con l'inverno, il senso di vuoto e di gelo, più silenti ma più mordaci del momento dell'addio. Stagione più dura che per le motrici corrisponde all'impossibilità di altri momenti di vita, una volta sostituite e giunto il loro fine vita\morte.”[xv]
Possiamo quindi dire che lo haiku è il luogo delle letture molteplici, il luogo di una profondità di riflessione che solo il ‘vuoto’ rende possibile, e che ci rende possibile affinare le nostre percezioni del mondo.
[i] Si ricorda che si parla di ‘sillaba’ solo per convenzione: infatti quelle della lingua giapponese, dove esistono suoni lunghi e brevi e dove anche la ‘n’ da sola conta per una sillaba, non corrispondono esattamente a quelle italiane.
[ii] Fukuda Kiyoto, Maeda Tomi eds., Takahama Kyoshi, Shimizu Shoin, 1991, p. 111, 福田清人, 前田登美,「高浜虚子」,清水書院
[iii] Si veda a questo proposito il bel saggio di Nicola Gardini, Lacuna, Einaudi, Torino, 2014
[iv] Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami Bunko, 2000, p. 141, 高浜虚子選, 子規句集, 岩波文庫
[v] Per un approfondimento: Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 1992
[vi] Shinkei 心敬 (1406 – 1475) fu un noto poeta di renga, poesia a catena composta da diversi poeti a turno, autore della raccolta Sasamegoto (‘Amorosi sussurri’, 1463).
[vii] Imoto Nōichi, Hori Nobuo eds., Matsuo Bashōshū, vol. 1°, Shōgakukan , 1995, p. 271, 井本農一,
堀信夫編集,「松尾芭蕉集・全発句」, 第1巻, 小学館
[viii] Oku no Hosomichi, Shinchō Kasetto Buku, Nihon no Koten, Shinchōsha, 1989, p. 26, おくのほそ道、新潮カセットブック・日本の古典、新潮社
[ix] AAVV, Shiki Zenshū, Kōdansha, 1975 1978, vol 2, p. 206, 子規全集, 講談社
[x] Kurita Kiyoshi, Kawahigashi Hekigotō, Kagyūsha, 1996, p. 59 栗田靖, 河東碧梧桐, 蝸牛社
[xi] Natsuishi Ban’ya, Cascade du futur, Paris, Harmattan, 2014, p. 34
[xii] Gendai Nihon Bungaku Zenshū 91, Gendai Haikushū, Chikuma Shobō, 1961, p. 123, 現代日本文学全集91, 現代俳句集, 筑摩書房
[xiii] Konishi Jin’ichi, Haiku no Sekai – Hassei kara gendai made-, Kōdansha Gakujutsu Bunko, 1995, 小西甚一, 俳句の世界‐発生から現代まで‐, 講談社学術文庫
[xiv] 行く我にとどまる汝に秋二つ (yuku ware ni/todomaru nare ni/ aki futatsu). Takahama Kyoshi ed., Shiki Kushū, Iwanami bunko, 2000, p. 155 高浜虚子選, 子規句集, 岩波文庫
[xv] Contributo dello stesso haijin Toni Piccini.
Cristina Banella
Traduttrice in lingua giapponese e insegnante di italiano per stranieri, ha conseguito un dottorato di ricerca presso il dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con una tesi incentrata sui rapporti fra lo haiku di Masaoka Shiki e quello di Yosa Buson. Borsista del governo giapponese per tre anni, ha approfondito gli studi sulla lingua e sullo haiku presso l’Università di Lingue Straniere di Tokyo e svolto un ulteriore anno di ricerca su haiku e tanka presso l’Università Keio a Tokyo. Dopo aver ricoperto il ruolo di docente a contratto dal 2001 al 2004 presso il Dipartimento di Studi Orientali dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha tenuto corsi sulla poesia giapponese, è stata per 4 anni Visiting Professor presso l’Università di Lingue Straniere di Tokyo. Durante tutto il periodo trascorso in Giappone, è stata membro di numerosi circoli di haiku (i suoi articoli scientifici concernenti lo haiku sono reperibili in rete). Ha contribuito alla traduzione e alla resa metrica di parte delle liriche contenute nell’antologia ‘Un solo mare e la parola’, pubblicata in occasione dell’evento internazionale di poesia tenutosi alla Casa dell’Architettura Acquario Romano nel 2017, che ha radunato poeti da zone di guerra e da paesi dell’America del Sud, ed ha tradotto in giapponese le poesie di Donatella Bisutti comparse nella silloge Duet of Water nel 2018. Accanto ad iniziative e conferenze volte a promuovere la conoscenza dello haiku in tutta Italia – si ricordano gli interventi del 2019 e nel 2021 presso l’associazione ‘Lo spazio di Sophia’ di Pescara; presso FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) di Roma; presso Yamaha Moto Art Roma e Ubik Caltanissetta - continua a svolgere attività di ricerca sul movimento di protesta nello haiku giapponese del Novecento.