QUATTRO DOMANDE A MARIO LUZI
Nel settembre del 1997 “Pioggia Obliqua” e l’Istituto Gramsci hanno organizzato nell’ambito della festa dell’Unità nazionale di Firenze dedicata alla cultura un incontro con Mario Luzi, il critico Marco Marchi, Vittoria Franco presidente dell’Istituto e alcuni poeti. Luzi ha risposto ad alcune domande tutte impostate sul ‘senso’ di fare poesia oggi. Quelli che di seguito riportiamo sono alcuni stralci dai quesiti posti durante quell’appuntamento.
Luigi Oldani : Vorrei parlasse del rapporto tra la poesia e il trascendente e se questo rapporto può essere definito sorgente essenziale, fonte per la poesia, facendo riferimento anche all’idea dello Steiner in proposito.
Mario Luzi: Tra le varie fonti da cui si può alimentare un linguaggio nascente o rinascente o che tende a rinnovarsi c’è anche la trascendenza: essa è un’esperienza individuale che non può mai istituzionalizzarsi, non può mai essere una costante su cui edificare, potrà essere una scelta di se stessi e del linguaggio ma non una norma, costituirsi tale; nulla di ciò che contribuisce alla cultura dell’uomo in gran parte “diminuito” di oggi può essere escluso dalla paternità o maternità di un linguaggio nuovo. Più di questo non direi, non azzarderei come criterio generale.
Paolo Fabrizio Iacuzzi: il “virtuale” è davvero il demone del XXI secolo e la poesia dovrebbe indicare un percorso alla sua “degenerazione”?
M.L.: Io mi trincererei, non per cautela ma per convinzione, nel potere unificante che ha una vera ispirazione. Molti sono gli inviti da questa o dall’altra parte del mondo e della descrizione e della commedia di esso, ma poi per la poesia c’è questa forza non calcolabile che viene dal dentro non solo dall’individuo (per dentro intendo realtà psicologica, biografica e tutto ciò che si è costituito facendo di me anche qualcosa d’altro che un semplice uomo naturale e ovvio). La cultura penso si faccia forte di queste risposte alle domande, agli inviti, alle tentazioni e alle esigenze che partono dal mondo e esigono una risposta; a un certo punto c’è qualcosa che non è computabile con un dato, e questo è un contributo per la cultura. Fra libertà e determinazione c’è un dialogo continuo che non si esaurisce mai e dunque non ha vincitori né sconfitti, effetto questo che si ripresenterà moltiplicato, almeno numericamente, da queste proposte del mondo odierno.
Giacomo Trinci: Nel magma di Luzi, La beltà di Zanzotto, Poesia in forma di rosa di Pasolini. Tre libri a lungo lavorati nella nostra sete di riconoscere padri che sgombrassero l’eredità vaporosa di un decennio, quello degli anni ottanta, dove né la bellezza né la verità erano stati tentati: né l’etica di un discorso nuovo formulata. Veniamo da polverose strade, ci siamo rivolti a questi libri; ci siamo fatti interrogare a nostra volta, li abbiamo febbrilmente indagati, e abbiamo sentito che da lì dovevamo ripartire. Per radicare la nostra passione e trovare un’identità al nostro tormento. Oggi forse è più chiaro il senso del nostro brancolare; ci sono dei segni netti nella confusione del cammino che percorriamo. Più chiara è la menzogna dei tempi, più necessaria la nostra responsabilità di rispondervi. Vorrei chiedere a Mario Luzi poeta, scrittore, uomo di attenzioni, nel senso profondo che dava a questa parola una fine letterata come Cristina Campo, se il rischio del nostro tempo non sia proprio quello della distrazione e quindi, tutto sommato, dell’estinzione della poesia?
M.L.: Premesso che l’attenzione – come dice la Campo – è il centro della vita interiore e quindi anche della poesia, e che oggi ci siano molte facilità di disattenzione, delle distrazioni troppo incalzanti, bisogna dire che è vero che il mondo oggi parla da tante parti e noi dobbiamo saperle ascoltare ed è una virtù, credo, dell’esperienza progressiva aumentare sempre quest’ascolto, questa prospettiva; ma ci sono troppe false voci, troppe frasi inutili e inconcrete, troppo poca parola, troppe parole e poca parola. Si parla per non dire o per deviare, sviare il discorso verso fini o falsi fini, impropri. Si dà poco peso alla parola, poche volte si ricostituisce cioè il perché della parola, il suo vero motivo di incremento vitale. Questo oggi è palese, mi pare, non voglio essere ripetitivo né polemico, basta farsi raccontare o riassumere alcune notizie del telegiornale, basta questo per capire. Importante è dunque per il poeta non farsi fagocitare dai meccanismi di cui è in parte anch’egli responsabile. C’è uno sforzo enorme del poeta futuro per lasciare queste parole – che non sono la “parola” – queste false indulgenze alle distrazioni, e quindi il poeta deve dare una motivazione ancora, una legittimità al suo lavoro, il poeta deve usare il linguaggio nella sua integrità, nella sua interezza o nella sua ricerca, sempre non ammesso, sempre in pericolo, ma questa è la lotta e l’importante è poter continuare questa lotta, non essere messi nella condizione di abdicare.
Stefano Loria: Silenzio, attenzione. Parole del cuore della scrittura poetica, c’è bisogno di grandi attenzioni per evidenziare un obbiettivo, per corteggiarlo e alla fine per stenderlo sulla carta o sulla tela. Voglio chiedere a Luzi che peso ha avuto sui suoi “oggetti” costruiti con le parole un altro linguaggio silenzioso che è quello della pittura.
M.L.: Certo esso ha avuto molta influenza, molta importanza, devo dire che in un modo più circoscritto, ovvero quello della mia giovinezza, si tendeva molto a quel contatto, vi era attenzione reciproca tra scrittori e pittori, tra le arti, forse più di quanta ce ne sia oggi. Anche la vicinanza fisica delle arti del colore, del disegno, introduceva un fattore essenziale in questo universo silenzioso della pittura: non se ne poteva fare a meno nel linguaggio del poeta di allora. Era copresente, direi, anche una quota di espressione, di dicibilità che veniva dalla pittura. L’ultimo mio libro che ha come protagonista apparente un pittore, Simone Martini, non è una stranezza o una eccentricità, è qualcosa che è infondo già potenza, c’è in tutti gli altri libri. Nell’Ottocento francese, dal simbolismo all’espressionismo, c’è sempre stata questa componente che è divenuta inevitabile. Direi che il sogno wagneriano della unificazione delle arti non si è realizzato e invece si è compiuto questo avvicinamento soprattutto nel campo della pittura e ora si spera anche in quello della musica. Io non sarei quello che sono senza questa adiacenza con artisti che mi hanno “battezzato” per la pittura oltre i tempi. Ho infatti avuto vicini Ottone Rosai e altri pittori importanti come Mario Marcucci, la cui pittura mi ha molto stimolato e illuminato nei rapporti con il visibile, e Capocchini, un artista di cui purtroppo non si parla più. Naturalmente un ruolo significativo lo ha avuto anche la scultura e in una città ricca di opere come Firenze la sua presenza è stata molto intensa.