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Rosaria Lo Russo

poeta, performer, traduttrice, saggista, da oltre vent'anni si propone in pubblico come "poetrice", poetessa-attrice ed esperta nell'arte oratoria e nella recitazione della poesia.

 

 

 

 

Le cose, bistrattate dai molti sgomberi, mi serbano rancore.

Si schiudono crepe lendini prudenti

suggerendo future aliene infestazioni.

Calano i festoni di un vecchio compleanno

come occhiaie improvvisate da un dolore

immenso e subitaneo come una complanare.

Vorrei paragonare queste serbate crepe

a quelle di genti vicine che da poco fa furono in guerra

là per dove le cose che fecero festa sgualciscono,

ma anche a una subìta lacrima di perdenti.

Ma a tutto ci si attacca e dappertutto depongo 

furtivamente armi da invasata:

e tu non mi guardare mentre in vitro 

suppotenti confluiamo in guerre molto civili.

 

Le cose, gelosamente asseverate, si vendicano

dei subitanei spostamenti spalancando

corolle maniglie come gli occhi invasati 

degli innocenti! E viti troppo esigue, 

attaccamenti esili alla vita, cedono a vitigni spenti.

E’ malinconicamente punibile l’innocenza

pertratta: allora l’ira allarma le cose,

le cose ribelli silenziano l’antifurto interno,

anzi lo sfiderebbero quelle maniglie 

subdolamente fiorendo e sfinendosi

in guerre intimistiche.

 

Così ci rubano – rimetta – l’antica lingua

disseminando babilonie come scrollassero di dosso 

torri babelliche che confuse sparigliano 

idiomi suppellettili in snervanti soprammobili da spolvero.

Così spossando un arduo deserto fecondo

scendono a bomba a bomba nell’arena assolta,

disanimati gladiatori ebbri d’attrezzi.

Arrugginisce la tenaglia del tenace delta,

che si biforca ruggendo ai nostri barbari.

Così gli invasi emulano all’armi 

chi, inimicandosi, scompiglia supplici incartamenti

d’orecchie con spocchie fluorescenti al fosforo.

E non sappiamo chi intimamente ci scommetta.

D’anemoni stimabili che vïolano il prato di scatto,

staccando particole di crosta secca e fra stecchi

altamente combustibili, una desertica sticomitia

di stinchi. Dissenterici entroterra d’inginocchiati

cadendo dissacrano commenti d’encomio al sismi.

Asfissie di sismi codardi, arti contratti con gli itagliani,

scivolano in minacciosa bonaccia di stanco inverno:

schiattasse una volta per tutte anche questa primavera!

Mi rigoverno vomici spaventi, anse di tumulti al cardias

sospendono il respiro cedendo al righello prospetto di un

ripristino di risiko ad alto rischio, allarme rosso,

fusti barbuti, cannicci marci, caste scialbe al governo, 

scalpi di cavallette allerte e fuoco alle polveri di casamicciola

per pulizie di primavere dimentiche di fatti dinamici.

 

Otturare le crepe, cremare i cadaveri, sbuffa 

imponendo: polvere alla polvere, e le ceneri siano 

disperse ridisegnando reticoli di lumi a questi 

barbuti neroni! Mammaliturchi annuncia l’annunciatrice

insomma, scaltra ammiccando uno sconto di civiltà

per chi imbiancasse poveri da spolvero, per chi l’aria

da funerale e bocche disfatte da manomorte

manomettesse pure, o ponzipilati d’un altro canale. 

Evacuare i canili degli sfidanti sfedeli,

rastrellare adozioni avide distanza d’infanti,

ripristinare i canili per sfacciare incappucciati,

tornare alla lingua di casa una volta stravinto un vuoto.

 

Da Rosaria Lo Russo, Crolli, Firenze Le Lettere, 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

A meno trecentosettantre metri sotto terra restiamo

felicemente barricati noi minatori del Sulcis mentre 

in superficie altri protestano al posto nostro, ma siamo noi sotto-

terra, sepolti vivi, a fare notizia. Siamo vivi, vivi sotto-

terra mentre se saliamo sopra non ci danno il salario.

Qui il senso del tempo svanisce. La terra è calda e re-

spiriamo male, come sempre, continuiamo ad arrovel-

larci i polmoni per quelli che, piú morti che vivi, ci aspet-

tano a casa la sera. Riposiamo. Dal ventre della terra i set-

te nani portano col trenino le pietre preziose noi siamo neri 

neri come il carbone. Calibano, talebano, terrone, noi siamo il ter-

rore, il terrore della terra, del buio, delle viscere piene di

merda. La montagna partorisce topolini, ché della monta-

gna gravida di uomini bruni e vivi dopo padre Ernesto 

Balducci non gliene frega piú niente a nessuno. Perció

meglio, cento volte meglio, restare qui sotto se ci calano

il vino che tornare a protestare e patire nel vostro nosocomio.

 

 

 

Attente ragazze, la sposa cadavere è il cartone

animato nel cui sequel ancora un po’ tutte

si casca. Da ragazza mi vestivo sempre tutta

di verde, tutta, ogni gadget, ogni particolare.

Un giorno partii per girare vestita da sposa

tutta l’europa orientale in autostop, perché ero

nipote di un celebre artista, quello della merda

d’artista, per dirvela tutta, e volevo volevo destare 

anch’io altrettanto scalpore. Ma appena arrivata

a destinazione mi ha caricato su un tipo un po’ los-

co – quel che volevo! – e invece di incazzarsi con me

come speravo, lui si è semplicemente fermato 

per strada e ovviamente mi ha stuprato e ammazzato.

A questo proprio non ci avevo pensato ma è andata

cosí, e ovviamente già nessuno piú si ricorda di me. 

Ogni sposa di bianco vestita sposa la morte, ogni 

sposa in abito bianco è, essa stessa, la Morte

che dice il fatidico sí alla Vita. E’ una storia che deve 

avere a che fare col mito della verginitá come bene 

supremo occidentale, infatti anch’io, che non ne 

avevo l’idea essendo una biondina americana dall’aria 

volgarmente angelicata come tutte le biondine ame-

ricane, mi metto in testa di fare l’ar-

tista e voglio le foto di nozze sul lago, anzi impongo 

al fotografo, per fare un wedbook veramente spe-

ciale, di fotografarmi mentre entro nel la-

go con l’abito bianco ed il velo. Forse pensavo

ad ofelia, non so, non ho molto studiato, ma in

un attimo il lago mi ingoia e finisco nel web.

Attente ragazze che insistete a sposarvi vestite 

di bianco e con la testa in una nuvola di tulle a strasci-

co solo apparentemente leggera. Vestite da spose 

si muore! Le suore l’hanno sempre saputo e anzi ardente-

mente voluto perché chi si vuole sposare il signore 

vuol dire che vuole morire, vuole dolce-

mente ed inesorabilmente decidere di morire da sé.

Mentre noi credevamo solo di fare le splendide.

Mentre noi volevamo solo fare spettacolo.

 

 

 

L’assemblaggio dei pezzi, evidentemente malfatto

non ha retto il pestaggio del mio rodaggio. Certo, io 

ho spinto forte in quella curva, poi una bótta tremenda 

un tonfo sordo nel casco e poi piú nulla. S’è spento 

il rombo della moto e ho finalmente sentito il mio 

respiro profondo, l’ultimo, un rombo 

anche quello, ma piú bello, come quando di sopra 

facevo il morto nell’acqua calma che entrava nelle ore-

cchie e ottuso di silenzio sentivo il mio respiro, cosa 

che di solito, facendo attrezzi, non sentivo, mentre mi 

gonfiavo bevendo proteine pasto sostitutivo ora di pranzo. 

Anche ora gonfio gonfio gonfio a dismisura e me ne

vanto. Tanto fluttuando le mie ultime sinapsi percepisco

che mi stanno svuotando: di buona famiglia che dá 

il permesso per l’espianto, essendo fatto tutto di

roba buona, fresca e soda. Mentre il cervello si scio-

glieva come una medusa al sole delle lampade in riani-

mazione non sentivo nulla. Mi hanno tolto le mie belle

cornee, fegato, cuore, reni e quant’altro: hanno riempi-

to un sacco di sacchetti in fretta e furia sigillando i pezzi

del mio io: ho fatto una gran buona azione senza merito mio.

Adesso che comincio a ritirarmi divento anch’io

come un ecosacchetto al mais della coop: la mia pelle secca 

grigiastra e floscia si sfalda come gli scisti di lavagna 

su cui scrivevo da piccino, a caval-

cioni sul muretto di pietra, il mio nome, con le manine 

convinte, convinte fino a ieri di appartenere ad un io. 

Qui sopra, su una lastra tutta bianca, di marmo buono, 

che mi ricordi pulito dentro e fuo-

ri, la famiglia ha pagato qualcun altro scalpello feroce

a incidere, come se fosse davvero esistito, il mio ex nome.

 

 

 

Ci siamo appesi con una corda al collo in azienda,

siamo affondati, come dei veri capitani, con la nave.

Questo è l’orgoglio, il premio alla carriera, di noi

piccoli imprenditori del nordest colati a picco con

la crisi piú brutta dopo quella del ventinove. Farci

trovare penzoloni nei nostri capannoni è un fatto

per noi di indubbio valore in un mondo senza valori.

Abbiamo creduto nella lega, abbiamo creduto in berlu-

sconi. In realtá questa, oramai possiamo dirlo, era una 

balla. Ma ci piaceva sentirci ancora padroni, padroni

di qualcosa di nostro nell’italia dei ladroni, noi eravamo

gente semplice, poco istruita e che ama rimboccarsi le

maniche. Ma quando abbiamo dovuto licenziare dal

nostro nosocomio gli operai con cui la sera ci ritrova-

vamo al bar, quando le loro mogli non ci mandavano

piú sorrisi allusivi ma sguardi smarriti perché dovevamo

licenziare i loro mariti e quindi addio shopping il sabato

con successiva cenetta e scopata, ecco allora noi ci siamo

sentiti improvvisamente anormali, come quelli che prendono

gli psicofarmaci, i drogati, e quindi pur di non andare

dal dottore di cui ci si vergogna ci siamo suicidati. Tanto

certe cose si fanno in un attimo, meglio levarselo subito

il dente malato e a noi che non avemmo nessuna dimestichezza

col pensiero filosofico ci premeva soprattutto la dignitá 

i quattrini e conseguente fica in quantitá. Le nostre mogli

adesso mettono in vendita le villette di barbie, ma nessuno

le puó comperare, e questo ci riempie di un piacere volgare che 

ci piace. Rimarranno anche loro piú morte di noi lassú povere 

nel loro nosocomio, che non ammette questa condizione. 

Sui capannoni lungo la piana ci hanno scritto tanti 

affittasi, noi affissi loro affitti e intanto gli infissi

giá cominciano ad arrugginire e tutto imploderá affon-

dando nella melma della piana, visto che ormai il clima

si è fatto subtropicale nelle pianure nebbiose e afose

del vostro nosocomio. Abbiamo fatto bene a non aspettare.

 

 

Dalla sezione Dal dormitorio in Rosaria Lo Russo, Nel nosocomio. Inedito

 

 

 

 

Rosaria Lo Russo, poeta, performer, traduttrice, saggista. Ha pubblicato L’estro, Firenze, Cesati, 1987, Vrusciamundo, Porretta Terme, Il battello ebbro, 1994, Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano (Milano, Crocetti, 1996), Comedia (Milano, Bompiani, 1998), Dimenticamiti Musa a me stessa (con sedici disegni di Renato Ranaldi), Prato, Edizioni Canopo, 1999, Melologhi (Modena, Emilio Mazzoli, I Premio Antonio Delfini 2001), Penelope, Napoli, d’if, 2003, Lo dittatore amore. Melologhi, Milano, 2004 (libro + cd), Crolli, Trieste, Battello Stampatore, 2006, anteprima di Crolli, Firenze, Le Lettere, 2012 (con un’opera di Renato Ranaldi), Io e Anne. Confessional poems, Napoli, d’if, 2010 (libro + cd), Nel nosocomio, Massa Carrara, Transeuropa, 2011 8anticipazzioinne di un volume in cerca di editore), Poema (1990/2000), Arezzo, Zona, 2013, ed è presente in numerose antologie poetiche. Ha tradotto la poetessa statunitense Anne Sexton e la poetessa argentina Alfonsina Storni. Insegna lettura di poesia ad alta voce. Da oltre vent’anni si propone in pubblico come “poetrice”, poetessa-attrice  e esperta nell’arte oratoria e nella recitazione della poesia. 

 

Alcuni libri di Rosaria Lo Russo

alcuni libri di Rosaria Lo Russo

 

ROSARIA LO RUSSO, POEMA 1990-2000, Editrice Zona , 2014.

Rosaria  Lo Russo (...) "ci presenta ritmi e sottotracce ritmiche insieme prosastiche e poetiche, coniugando tutte le tradizioni letterarie più importanti(...).

Parlare infatti di plurilinguismo, per la ricerca poetica della Lo Russo, rischia di essere e sarebbe banalmente riduttivo: tanto la significanza, scaturente dalle necessarie e necessitanti ragioni dello scrivere che si presentano pressantemente a ogni canto di questo Poema, segue strettamente e accompagna in pieno di vivanda da non consumare, ogni stratificazione del significante e sia ad esso costantemente mischiata.

Nel susseguirsi delle scritture che fanno parte di questo Poema pubblicato per Zona e che comprende testi del decennio 1990/2000 – dall’«abbuffata linguistica» di Comedia, così definita da Elio Pagliarani nella prefazione («io non so bene se ci troviamo di fronte ad un caso di bulimia o di anoressia […] Rosaria lo Russo chiamando in causa soprattutto il proprio corpo e le metamorfosi di quello») alla splendida Sonettessa che chiude la raccolta – i materiali presentati urgono, si affastellano ed eccitano l’attenzione del lettore.

Si va dal sensibile peso del linguaggio erotico («Come il presame fa nel latte / coagula colloso sperma in bocca») alle parole di cose per ambientazioni domestiche («anche tu / che ti movi di fretta agile donna-cubo, proverbi sta che purghi, con Unità / e famiglia cristiana sottobraccio, / – chiesa, cellula / onfalo rosso onfalo bianco / questa famiglia che si divora la pelle / – e parli come magni») alla rivisitazione degli archetipi femminili («Così un disagio iracundo mi provocò la cupa insonnia / e mi fece arricciare il nasino più volte stanotte») e dei padri nobili della poesia italiana («Sempre caro mi fu stare qui chiusa / e questo speco ch’è camera oscura […] ove io mi fingo un fallo fra le cosce») anche contemporanei, come nel secondo e terzo tempo degli Angoli della bocca dove la sintassi della scrittura rimanda al frantumato finale della Ballata di Rudi di Pagliarani. (...)

 

Da un articolo di Cetta Petrollo, La lanux satura di Rosaria Lo Russo,  Alfabeta PIù, 19/5/2014

 

La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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