Califia
è un libro che la nostra poesia d’oggi aspettava. Necessario, augurale. Bortolussi qui fonde lirica ed epica in un poema potente, di ampia e profonda risonanza. Califia è il primo nome dato alla California da Cortés, toccando le rive di quella terra, convinto che fosse un’isola: la battezzò così in onore di una leggendaria regina di donne guerriere in un’isola immaginaria dell’oceano indiano.
Califia è una sorta di “viaggio a Occidente” mentale e poetico, un “tutto” poematico e in parte drammaturgico, un’immersione nel profondo di una terra vista e vissuta come luogo di meraviglie e ierofanie, in cui mito e contemporaneo si fondono: il surfer, il povero migrante messicano vittima sacrificale dal coguaro, la musica West Coast anni Sessanta il grande regista Billy Wilder che assume la voce di Coyote, nella realtà atemporale, incantante di questa Atlantide americana. Le Metamorfosi di Ovidio, lo sciamanesimo degli indiani d’America, l’ombra di Hart Crane, il poeta del ponte di Brooklin, la lezione di Ritsos, Walcott, pochissimi altri autori “poematici” del nostro tempo, animano, in un respiro internazionale, una versificazione pacata e ardente, ventosa e narrante: un’indicazione di rotta per i poeti delle nuove generazioni: “– perché come mi ha dettato questa terra, /come di questa terra hanno scritto i suoi poeti, /io sarò il viaggio, il viaggio sarà me.”
ROBERTO MUSSAPI
Da Califia
Califia (anche Calafia) è il nome della leggendaria regina a capo di un popolo di sole donne che abitavano un'immaginaria isola dell'oceano indiano.
La leggenda della regina Califia e delle donne guerriere dalla pelle scura è associata alla mitica e ricchissima Isola di California e fu trasposta nella novella Las sergas de Esplandián (Le avventure di Esplandián), scritta nel 1510 dallo spagnolo Garci Rodriguez de Montalvo.
Lo stato americano della California deve il suo nome ai primi esploratori che nel 1536, al seguito di Hernan Cortés, nella convinzione di essere approdati su un'isola (invece che sulla lunga penisola che oggi si chiama Bassa California) gliene attribuirono il nome.
Sembra Storia, quella che sento galoppare
alle mie spalle sempre più incalzante,
il suo alito distillato di aspettative e intenzioni
sul collo di questo andare spedito sulla strada
che si aggiunge una cifra e che si lascia dietro,
un poco a ovest del mio stupore assorto,
le rocce rosse striate di questo nuovo incontro con la terra
– possibile, probabile perfino, anche se l’ultima volta
che mi è parso di parlare con Coyote lui ha risposto:
“Nessun rimpianto, d’altra parte
il prigioniero delle linee bianche della strada
non sono certo io, vallo a dire
alla Signora del Canyon la prima volta che la senti.”
Al momento rideva, zanne gialle esposte alla luce
del deserto, ma le sue parole da bullo di cortile
sembravano negate dal volto del guerriero
scolpito dal vento verso il cielo,
Rushmore dallo sguardo diretto a ciò che conta,
che sia aquila o pioggia, ma sempre più grave
del granito poroso di Yosemite.
I segnali sono misti quando viaggi in questa terra
di linee che si perdono, ma forse è vero, ha ragione lui,
il segreto è girare – che sia pagina o strada non importa.
And I feel like I've been here before
David Crosby
Il canyon degli allori non è più quello
che sembrava allora, quando Joni e David e Neil
erano presi come per incanto e trasportati
dai vascelli di legno liberi sull'acqua
al solo suono delle sparse note sorgenti
da uno degli angoli addomesticati di foresta;
a vivere sempre in un talento non sono ormai rimasti
che i ragni tessitori di vele da un albero all'altro
di eucalipto, e il vento gonfia solo i loro sforzi
che scintillano geometrici ai raggi del buon incantatore:
eppure se ascolti, se annusi, se ti fermi fra le curve
e non alzi lo sguardo ma lo perdi nelle macchie dei dirupi,
là dove le case si abbarbicano assurde come ponti
che si lanciano nel vuoto per poi esitare e ritrarsi
di spavento, forse senti ancora qualche nota sparsa
di quando il canto non era al passato, di quando il presente
era il languore dell'estate che si sfaceva lenta, irripetibile.
L’ultima preghiera di Aparicio nelle fauci del coguaro
I
Dietro la roccia scolpita dal tempo a testa di santo,
più sottile del normale e allungata
come se una forza del cielo la traesse
ogni giorno, appena al di là della curva
a gomito di quello che qui passa per sentiero,
nella chiazza d’ombra maculata del chaparral:
lì mi aspettavi pronto allo scatto, al balzo, alla zampata.
Ma il primo affondo non è stato tuo;
l’ha preceduto un pensiero, guizzante come mariposa,
ridicolo perfino nella sua logica fallibile:
se il destino è davvero scritto in un nome,
Aparicio non dovrebbe appartenere
a questo bipede migrante bensì a te,
onza di leggenda, quitamiztli dei padri delle alture
o forse solo ultimo nato di una nidiata come altre
fra le gole e le pietre e i cacti del tuo mondo
ma ora, qui davanti a me, tanto possente
nella tua posa naturale di quadrupede
da richiamare alla mente spoglia della preda umana
una sola frase, una preghiera: coguaro, sii veloce.
II
Sii veloce, coguaro, a porre fine a questa marcia
nella polvere volatile del canyon che conduce a casa,
il povero intreccio di lamiera e legno marcio
nella cuna del terreno dipinto di mirto e larrea,
un luogo che potresti aver visitato cento volte
nelle cento notti in cui vi ho chiuso un occhio solo,
l’altro sbarrato a studiare la sera invadente
dagli spiragli fra le assi deformate dal caldo
o dal semplice sforzo di offrire riparo dal vento,
dal buio mai completo della notte,
dalle carnivore intenzioni di chi come te
è composto di fame, fiuto, fasci bruti
di muscoli contratti e allungati.
Eppure non hai mai bussato a quella parodia
di una porta: forse ti sei anche avvicinato,
quando il mio odore esausto ti era giunto
più intenso alle narici, ma ti sei guardato
dallo sferrare la zampata decisa che l’avrebbe
cancellata in un istante, aprendo uno squarcio
sul coperchio di stelle del cielo: non l’hai fatto.
III
Hai atteso il momento di massima ironia:
in pieno giorno sei voluto apparire ad Aparicio
come uno scherzo divino, ricordo dei tempi
in cui eri sacro all’azteco e un tuo ruggito
chiamava l’attenzione del dio piumato ai sacrifici
dell’umano. In questo pomeriggio di luce e stanchezza
ti sei voluto celare dietro il gomito di pietre e cespugli,
quando l’unico timore del migrante di ritorno
s’incarnava alla peggio nella figura eretta
e incravattata di un agente della DEA (no, puma
sacro, niente a che fare con la tua Signora:
è così che qui chiamano i combattenti della droga,
e Aparicio sarebbe anche pronto a celebrarli
se non fosse proprio il loro nemico a sfamarlo).
Hai voluto sorprendere l’ometto dal volto di argilla,
forse avvertito dall’aroma dolce della sensimilla
che insisteva a ghermirlo anche dopo il lavoro
di un giorno nato come tanti e in un baleno
dal tuo alito caldo trasformato
nel passo di troppo oltre un crinale di barranca.
IV
Poco lontano, sulla destra, verso il declivio
che conduce alla piantagione clandestina,
il relitto tutto ruggine e terra di un Chevy del ‘38
sembra acquattato nella macchia quasi fosse
pronto a balzare su di te, su di me,
sulle nostre membra ormai così intricate
che l’unica nota a distinguerle è il rosso
lucore della linfa vitale – perché il rapporto
fra noi è semplice: io sanguino, tu sbrani.
I fari sgranati del pickup fissano ma non vedono
la scena, scherzo primordiale di un destino
che ha forse più a cuore la fame di una fiera
che i giorni residui di un bracciante. Se solo
in luogo di questa meccanica carcassa ci fosse
l’altare al neon della graziosa Virgen de Guadalupe,
forse la tua memoria di animale sacro
ti fermerebbe le fauci, ti farebbe ritrarre
gli artigli che ora mi percorrono la schiena
già incrinata dal lavoro; ma si dice sia stata rapita
dal cartello di Cancun, costretta al miracolo turistico.
V
Le zanne mi affondano nel collo come un bacio
di maldestro principiante di passione,
il sole si cala nel mare come un bimbo paffuto
dal costume arancione, finalmente deciso a rischiare
il brivido delle correnti e il bruciore agli occhi
degli spruzzi: ma la bellezza sacra del momento
si stempera quando le carni si guardano a distanza,
un braccio e l’altro separati non più solo dal torso
ma anche da qualche metro di polvere e furia;
e a un tratto mi sovviene che per arrivare fino a qui,
fino a sentire lo sbuffo rancido della fiera sul volto,
ho pagato il pedaggio salato della Devil’s Highway
costellata delle ossa di chi mi ha preceduto senza farcela,
costretto a udire le risate da iena del coyote al volante
del furgone – dalle rive del Rio Yaqui alle sabbie di Sonora
all’Arizona nella prima classe della sete e della fame,
contando ogni secondo e ringraziando lo scoccare
dei minuti per l’insperata assenza della Migra –
e tutto questo per finire qui, sul crinale di un canyon
come tanti, pasto di un puma affamato come pochi.
VI
Forse ti è indifferente, intento come sei
a rendere le mie membra oramai sparse
al tuo sistema digerente e la mia anima agli dei
che ti governano; ma mi stai forzando a dire addio
a mia moglie, la bella Presencia d’ocra e ossidiana,
e a Carnacion, la piccola dalle forme ancor vaghe
– e quante battute al villaggio su questa singamia
di nomi: i vecchi ci chiamavano Trinidad
e noi sorridevamo timidi d’orgoglio, credendo
che i legami potessero diventare indistruttibili
con un solo incantesimo di sillabe
dette non sempre o solamente ad alta voce
ma scandite dalla nostra musica segreta.
Quanti di quei giorni, dalla sera in cui Presencia
mi si parò davanti, quinceanera, più radiosa
della Vergine che sorrideva fra le gale
dal declivio d’ombre del suo petto appena nato
e mi chiese – inaudito – di condurla nella danza
sulle note della sua canzone: te la canterei,
coguaro, se mi avessi lasciato una gola con cui farlo.
VII
Ora di loro resta solo l’assenza, qui nella terra
segnata dai punti esclamativi dei tuoi artigli
e dai cerchi innocui delle impronte simili a disegni
di bambini ancora ignari del pericolo nascosto
in qualsiasi traccia sconosciuta sul cammino:
a poca distanza dal mio dito, forse teso a indicarla,
se ne staglia una, netta e profonda,
in cui un crotalo ha trovato rifugio dalla sera
avvolgendo le spire diamantate attorno a un sogno
di tana – lo stesso che mi ha sospinto fino ad ora,
rivestendo la catapecchia d’assi e pietre della radianza
bianca di mais di una cena al tavolo scheggiato
della vecchia cucina di casa. Lo troverai sorprendente,
ma nell’uomo la mancanza degli amati cresce
in proporzione inversa a quanto rimane del corpo
dopo l’assalto della belva che l’ha scelto come preda:
può darsi sia una legge di natura, tanto pensiero
per tanta carne viva, ma non è nella natura del migrante
soffermarsi a osservare ciò che capita, occupato
com’è a fare di tutto per evitare che succeda.
VIII
E ciò malgrado è accaduto, o meglio è in pieno
accadimento, questo iniquo interscambio fra noi,
e mentre mi dissanguo non posso fare a meno
di pensare a quanto sia consono tutto questo
a questa terra, così vicina a casa nei profumi
e nelle fughe dello sguardo verso la distesa
del deserto dietro l’angolo ma infine sfuggente,
un pianeta in orbita attorno al sogno di una vita nuova.
Vi arrivai, assetato di liquidi e speranze, con il seme
di un’intenzione, la più vaga: avrei onorato la memoria
del grande Murieta, El Famoso, e della sua vita lontana
di crimine giusto ed equamente dispensato: eroe
di Sonora e terrore di California, vendicatore di torti
con violenze, cacciato insieme ai quattro Joaquin
come bestie marchiate dal destino di un nome:
crotalo, coyote, criminale – so che capisci, coguaro.
Ma forse ignori, divorando, che anche i migliori disegni,
i più eroici, sono segnati da confini; e che quando devi
accettare il giorno per il buon motivo che non ne sorge altro,
non puoi che abbandonarli alla frontiera del tuo ieri.
IX
E sembra ieri quando, in formazione sparsa
davanti all’ovale del centro commerciale, pensando
al cerchio quasi perfetto di terra battuta e tramonto
al centro quasi esatto del villaggio con nostalgia
pari alla gioia con cui ogni giorno vi si accoglieva
il violagrigio della sera, guardando le madri
di Malibu condurre i carrelli rigogliosi
nella nebbia costiera del mattino, mi scostavo
sottraendomi al contatto con le auto più lustre,
più nere, più potenti e con gli uomini al volante
– lindi, ben rasati, sereni residenti in cerca
di braccianti per vigneti, giardini, minigolf –
e mosso a torva diffidenza verso il nuovo, il liscio,
il regolato salivo sul pickup più malconcio della fila,
squarcio di ruggine e fumo scuro nell’aria salmastra,
alla guida uno Yaqui dal volto di terra essiccata,
il gomito sporgente come la polena spuntata
di un peschereccio al porto di Guaymas, e guardavo
scorrere, strette e violente, le curve del lasso d’asfalto
dove il canyon si serrava e si apriva come vulva.
X
E forse allora non è un caso che ciò che vedo adesso,
con chiarezza, dietro la cataratta di polvere e sangue,
sia la perfetta scura fonte di Presencia,
nera come le acque di una cava d’onice
nelle poche sere senza luna, la timorosa offerta
sul bianco della vecchia tovaglia stesa a terra
nella piccola conca stretta dall’abbraccio
di ocotillo paloverde e mesquite e sorvegliata
dalle torri severe del cardon, la prima volta
che portai le labbra fra le sue e bevvi la sua linfa.
O forse è soltanto la voluttà della tua fame
di pantera a trasportarmi in luoghi più usi
all’annodarsi che al lacerarsi delle membra;
e l’abbandono di allora si ritrova in questa resa.
La differenza, come sempre, è tutta nel dolore:
ma ciò che gli sparsi filamenti dei nervi mi trasmettono
non è nulla in confronto a quel nero, a quel bianco,
al succore ancora vivo in me mentre muoio
– ed è per questo che la mia preghiera è diventata altra:
coguaro, divorami concalma.
Stefano Bortolussi, Jaka Book.
Nel recente libro di versi di Stefano Bortolussi, la California, palcoscenico che fa da sfondo all’azione di ogni poesia del volume, appare tanto più reale proprio quando meno si delinea in paesaggio concreto. Essa è insieme spazio fisico preciso e dimensione vagheggiata, presenza immediata e approdo favoloso, scoperta e desiderio. […] Insomma la California di Bortolussi è innanzitutto luogo di un’epopea mitologica, in cui si fondono elementi individuali e collettivi, e dove i richiami a Nettuno, al Minotauro, ad Apollo, a Mnemosine e alle Muse sue figlie si completano e si fondono con i riferimenti, anch’essi a loro modo favolosi e mitici, a Robert Mitchum nei panni di Marlowe, ai protagonisti della musica della West Coast degli anni Sessanta e Settanta, a cominciare da David Crosby, Neil Young e Joni Mitchell, a Jack Kerouac alla ricerca della pace interiore a Big Sur, al regista Billy Wilder, alle bande spettrali di Apache e Comanche che attraversano senza pace le immense praterie. […] E’ una poesia che sceglie con decisione un’ascendenza dalla tradizione letteraria di matrice anglosassone, risale fino a Walt Whitman e risente della lezione del caribico di lingua inglese Derek Walcott. In questo modo Bortolussi perviene, come suggerisce Roberto Mussapi nella quarta di copertina, a “un respiro internazionale, una versificazione pacata e ardente, ventosa e narrante”.
Giuseppe Graccacaso, SuccedeOggi
La California come luogo non solo reale, ma anche metafisico e mitico. In un viaggio senza fine verso occidente Stefano Bortolussi descrive la propria Atlantide americana nel poema Califia (Jaca Book). […] L’autore elabora i suoi versi sulle orme di Ovidio, Dante, Milton, Ritsos, Whitman e Walcott.
Franco Manzoni, La Lettura – Corriere della Sera
[…] Un libro scritto tanto tempo fa. È la più intensa sensazione che si prova leggendo Califia […] E anche questo è un dato non marginale, da esploratore del passato. Un passato che questa poesia densa, lenta, pensata, descritta e che sfida la distanza, suggerisce di leggere come un’eco che risale dal tempo verso di noi tra leggenda e oscuro procedere verso il futuro. […] Califia, dunque, non è soltanto una Terra Promessa: è il procedere della scoperta che diventa canto di gioia, timore, approvazione, stupore e rivelazione: un pensiero, dicevamo, arcaico che Mussapi definisce addirittura “Atlantide americana”. […] Davvero, la fabula si pone come discrimine di tempi, sentimenti, evocazioni, viaggi e ricordi, “il respiro internazionale” come scrive Mussapi […]
Giuseppe Marchetti, La Gazzetta di Parma
[…] Il viaggio presuppone lo spostamento, ed ecco infatti che le primissime liriche contengono suggestioni legate all’uso inevitabile dell’aereo, quell’”andare senza muoversi”, quell’essere intrappolati mentre ci si lascia trasportare, che corrisponde comunque ad una progressiva occupazione dello spazio. Ma in pochissimo tempo – e in pochissimi versi – la meta è raggiunta e quasi superata: è allora un’altra fase del viaggio che prende il sopravvento, che occupa la scena e che apre nuove strade interne al viaggio stesso, ramificandosi in squarci paesaggistici di fulgido e tenero splendore, in recuperi storici che scivolano senza scosse nella leggenda, in costruzioni mitiche che coprono tanto l’antichità quanto la modernità, in uno slancio panteistico ed universale che tende a trasfigurare l’energia transitoria e mortale delle cose belle in qualcosa che la memoria e il cuore siano in grado di custodire per sempre. […] Gradualmente i paesaggi si ampliano e si stratificano, danno spazio ad unità di sostegno: tra le pagine della raccolta si trovano anche tanta musica, tanta letteratura, tanto cinema, echi multipli, significati con un’andata ed un ritorno elementi evocati ed evocatori, proprio quegli stessi elementi che già hanno permesso al lettore sedentario il riconoscimento a distanza dell’ambiente e del territorio. […] Il viaggio narrato in “Califia” non termina in maniera netta e precisa, sfuma piuttosto verso l’intenzione di proseguire, di durare per sempre, di rinnovarsi – eterno e indistruttibile – finché ci sarà voglia di vivere, finché ci saranno cose da fare e da raccontare.
dal blog PaperLife
INEDITI
Dal diario di bordo di Capitan Zero
“All I really knew was that I had found the perfect place on a perfect wave,
and I had remained there endlessly. Forever.”
A.C. Weisbecker, In Search of Captain Zero
Il gesto disteso, alternato, disteso bocconi su questi
due metri di prodigio equilibristico, di immergere
prima un braccio e poi l’altro nell’oceano non rende
giustizia al mistero del momento, alla mancanza
passeggera di fiato, al rapido pugno ma deciso
a stringere la bocca dello stomaco che accarezza
la mia longboard come non fosse materia impenetrabile
ma tessuto mobile e cangiante, permeabile: troppo densa
la nebbia del primo mattino, fitta come pioggia
sospesa al microscopio, troppo opaca la distesa di dune
di questo deserto liquido in attesa della serie,
regolare di numero ma non di forme e dimensioni,
che segna e permette il passaggio di energia che è il segreto,
la consegna delle chiavi del mondo di cui pochi hanno copie.
E quando arrivo, e mi levo a cavallo della tavola
cercando nella media distanza il panorama giusto,
mi rendo conto anche oggi che il dove raggiunto
è una linea che non c’è ma che viene lo stesso superata,
oltre la quale si rischia di incontrare il Padrone di Casa,
l’Uomo in Grigio, il tiburon famelico e istintivo
che non distingue fra umano e pinnipede, riducendoli
entrambi a pasto con poche, trascurabili varianti digestive.
La forma del mio mezzo e sostegno, così longilinea
e regolare, affusolata, silenziosa come in attesa
di diventare preda, e con quelle due estranee appendici
penzolanti – le mie gambe – a muovere l’acqua in modi
invitanti appena sotto il tetto lucente dell’aria,
deve sembrargli la risposta a bisogno e desiderio,
una destinazione obbligata risolta in virata, allungo,
guizzo di caudale. In questo sento fratelli i figli
di Dedalo e Apollo: il mio magnete non è l’astro
ma la parete blu di Salsa Brava, e forse il mio gesto
ha meno conseguenze sui cieli e sulle terre d’Africa,
ma lo spirito è quello: la bracciata verso il muro liquido
montante pari al battito d’ali pennute, al colpo di verga
sui fianchi del tiro divino: la sensazione non tanto
quella della sfida, quanto di una comunione trovata
soltanto in certe, a certe condizioni.
È l’equilibrio perfetto nel mondo che cerchiamo, compagni
di un diffuso equipaggio senza nave, custodi di certi ricordi:
Gerry Lopez a Pipeline, inverno del ’69, Jock Sutherland a Waimea,
tinto di sole arancione a notte fonda, o ancora, e soltanto,
e fieramente, della ripetizione di questo rituale paradosso:
quello di cavalcare non mare, non acqua – energia.
Metazoa
Lepus europaeus
L’ombra tremante di nervi e sopravvivenza
di una lepre di dimensioni mai viste
macchia le curve delle dune erbose
a pochi passi dall’erica che si stende
romanzesca, memoria finora soltanto
di carta e proiezioni speciali,
classici di notte e benvenute insonnie;
sopra, una rincorsa tenace
di grigio nell’azzurro nascosto, timido,
eroso da un vento di sud-ovest che non gira
lungo il dito di sabbia dai giorni contati
teso come a scegliere destinazione
nel timore che il gorgo marino all’incontro
riprenda a sé la striscia, troppo sottile
per essere vera, lungo cui la paglia
rischia e corteggia fulmine, fuoco,
bufera.
Sylt, novembre 2011
Velella velella
Migliaia di vele trasparenti sono sparse
sulla sabbia lappata dall’oceano
o disposte in file ordinate come dalla mano
di bambino divino e sfuggente, troppo piccolo
o forse gigantesco al punto da negare la visione
completa e razionale, l’osservazione in sé conclusa
di chi senza sapere assiste.
Nelle pareti d’acqua della mareggiata che le ha consegnate
alle nostre attenzioni impreparate
come immensa flotta di navigatori di acque più calde,
discendenti innocui di eleganti e letali caravelle,
appaiono come occhi oblunghi e spalancati su di noi,
forse a ricambiare la sorpresa ammutolita
di una specie all’incontro con un’altra, sconosciuta:
perché una distesa tanto capricciosa di corpi
non sempre irreprensibili per dimensioni, curve,
proporzioni? perché la diversità delle posture,
la varietà dei moti e delle pause, il disordine
di un’assenza apparente di scopo e missione?
Sembrano dire, sgranando le iridi violacee: noi che siamo
qui per un capriccio di maree e temperature
sappiamo che qualunque sia il nostro viaggio,
in sé trova senso. Sembrano chiedere:
ma voi?
Malibu, agosto 2014
Asio otus
Ha un metro di apertura alare e ne misura
mezzo nei casi segnalati più notevoli,
ma il gufo che ci siamo visti passare
davanti agli occhi carezzati dalla brezza scura
mossa dal suo volo pareva disprezzare per natura
ogni vano afflato di misura, allungando l’ombra
del suo corpo nelle ombre della sera spezzata
dalla sua comparsa e subito scomparsa,
linea retta di volo dall’occidente
vuoto di sfere alla luna orientale,
rotta offerta in fruscio al nostro bisogno
immediato di ragioni: perché un volo così basso?
perché rasente la scarpata che divide
dal resto ciò che è nostro?
Il suo passaggio, lacerando il quadro orizzontale
che davanti si offriva e uscendone
senza concessioni alla platea,
spezzava la nostra propensione al retroscena.
Camarillo, agosto 2014
Puma concolor
Non ti hanno lasciato diventare adulto,
i bisonti della strada lanciati nell’alba
verso il punto illusorio in cui i due lati
sembrano congiungersi dell’arteria
asfaltata che pompa a ciclo continuo
il sangue necessario alla nostra implacabile
avanzata in questa terra non più tua,
quelle duecento miglia quadrate che hai bisogno
di percorrere marcare reclamare
per incrociare il cervo che sostenta
la polla d’acqua che riflette
la foresta di Los Padres che accoglie,
nasconde e parla le mille lingue degli uccelli.
Travolto dall’acciaio lanciato lungo la mediana
che non ti poteva parlare o intimare la pausa,
l’attesa del passaggio di mandria ignota
e immangiabile, hai messo fine
senza neanche saperlo
alla tua epica di scatti e coraggio
di sfide alle cariche di mostri indecifrabili
di bocche lucenti con zanne tutte uguali
zampe nere roteanti
ruggiti costanti e monocordi:
un conto alla rovescia calcolato da nessuno,
nemmeno da coloro che senza sospettarne l’ironia
ti hanno dato una sigla numerica
che sembra appartenere più a un computo stradale
che animale: dalla 118 che valica il passo
di Santa Susana alla 101 di miti non tuoi,
dalla 26 che termina nel nome del pioniere
alla 23 che riconduce al mare
per incontrare la fine sulla 5
che avrebbe potuto incoronarti re dell’asfalto.
Così non è stato, e del mistero e portento
del tuo andare e venire ora non resta
che il percorso, ridicolo al confronto,
di questa penna sul foglio,
di questa nostalgia.
Santa Monica Mountains, agosto 2015
Stefano Bortolussi
poeta, romanziere e traduttore.
Ha pubblicato tre romanzi, Fuor d'acqua, (peQuod 2004), uscito prima ancora negli Stati Uniti con il titolo Head Above Water (City Lights Books 2003, traduzione di Anne Milano Appel), Fuoritempo (peQuod 2007) e Verso dove si va per questa strada (Fanucci 2013) e tre raccolte di poesie (fra cui Ipotesi di caldo, Book Editore 2001), la più recente delle quali è Califia (Jaca Book, 2015).
Il suo poemetto "Il moto ondoso del cercare" è stato incluso nell'antologia Bona Vox, curata da Roberto Mussapi (Jaca Book, 2010).
È co-autore di due serie di libri per ragazzi (Le indagini di Dick Rabbit e Le avventure di Miss Marmot, Dami Editore/Giunti).
Alcune sue poesie sono state di recente pubblicate sui blog Interno Poesia e Poesia, di Luigia Sorrentino.
Due suoi poemetti figurano nell’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea 3, a cura di Gianfranco Lauretano, Francesco Napoli e Walter Raffaelli (Raffaelli Editore, 2015).
Il suo blog poetico e narrativo si chiama l’autore a pezzi, e non è un caso.
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua