JEFFREY HARRISON
In seguito
Il braccio dell’acero reciso
a dicembre da un temporale
sboccia ancora a maggio
dove giace a terra,
le sue frange rosse un messaggio
dall’altra sponda,
come una lettera che arriva
dopo che il mittente è morto.
Non metti fiori nelle poesie
Non metti fiori nelle poesie
come decorazione, o per riempire
gli spazi vuoti, piuttosto
loro sono stati la punteggiatura dei tuoi giorni
in un particolare momento nel tempo
come l’aprirsi di bocci lattiginosi nelle sterpaglie
lungo la strada dove andavo a correre
( mentre sudavo e pensavo al sesso)
Quella prima estate che eravamo separati,
il primo anno che eravamo insieme.
Ho pressato un fiore dolce e rosa tondeggiante
fra le pagine del mio Rimbaud
e l’ho allegato a una lettera.
Trentadue anni più tardi,
la sua macchia ancora segna le poesie.
Poesia
Sto per fingermi pittore e così
sistemo il mio cavalletto qui nell’erba alta
vicino al fiume, con il ponte sullo sfondo,
perché il ponte ha bisogno di essere nel quadro
con i suoi supporti in acciaio e i piloni in calce
striati di ruggine, qualcosa che offre una costruzione,
opera dell’uomo, un lavoro artistico
o almeno di ingegneria per collegare
non solo le due rive del fiume ma anche
la terra al cielo, allacciandoli
insieme come una linea di spessi punti di cucito.
Se fossi davvero un pittore non dovrei
dire tutto questo ma solo dipingere il maledetto ponte,
libero dall’imprecisione sviante e dall’ambiguità
delle parole, anche se potrei ancora far assomigliare il ponte
a punti di cucito dipingendolo di nero
a contrasto con la ferita insanguinata del tramonto- ma questo
sarebbe il suo proprio tipo di falsità, così forse
è solo un’illusione che un mezzo differente
mi metterebbe più in contatto
con il mondo, ed è possibile che la ferita sia
dentro di me comunque, e questi siano punti di cucito.
Nessuno è morto
Quante volte l’ho detto
negli ultimi dieci anni,
fino a diventare una specie di mantra,
la misura di ogni crisi:
“nessuno è morto”.
L’ho detto a me stesso
per confrontare i fatti,
e l’ho detto ad altri
per ricordare loro che le cose
potrebbero essere peggiori.
Alle spalle avevo sempre
il fatto terribile
della morte di mio fratello,
ad ogni minore calamità
dovevo essere riconoscente.
La nostra casa era stata svaligiata :
orecchini di diamante, collane di perle,
tutti lasciati
da parenti morti da tempo.
“nessuno è morto”, ho detto.
Era come un ciondolo
l’ho indossato intorno al collo
come forma di protezione,
un occhio maligno
per resistere all’attenzione della morte.
L’ho detto ancora
ai nostri amici al lago
quando la loro casa galleggiante è bruciata,
ma quanto mi sono sentito egoista
mentre ordinavo per importanza la loro disgrazia.
E poi l’espressione ha cominciato
a farsi aspra. Mi dispiaceva
che ci fosse il rischio di cercare guai
continuare a dire “nessuno è morto”,
un modo per deridere la morte.
Allora lo lascio andare silenziosamente,
come remassi
lontano dalla riva
e facessi cadere l’amuleto
dentro l’occhio del lago che tutto vede.
Cecità passeggera
È passato un anno e mezzo,
come dolorosamente si fosse chiusa una palpebra interna
fra i miei occhi e il cervello
o fosse scivolata una cuffia sopra la mia testa.
Ho trascorso i miei giorni nello spazio nero
dentro di me, una stella morta in orbita.
Adesso voglio tornare sulla terra.
Voglio fare ritorno dai morti,
per togliere il sacco dalla mia testa
e respirare di nuovo,
e far entrare il mondo-
qui,adesso, dritto davanti a me-
essere svegliato da un lago
scintillante attraverso gli alberi.
S a l e
Non sono sicuro di quando sia iniziata
la tradizione familiare
di usare sale kosher,
un pizzico di chicchi ruvidi
fra pollice e indice
poi tenuto sopra le nostre pietanze
e sparso come neve
su carne, patate, carote.
Ancora non sapevo
cosa significasse kosher
finché non sono cresciuto
la stella a sei punte
sul pacchetto non era ancora
un simbolo di qualche tipo,
solo una stella di speciale interesse
perché era fatta
in modo geniale con due
triangoli sovrapposti.
Non ho mai mangiato
o neanche sentito dei bagels
fino a quando sono andato al College,
dove i miei compagni
di dormitorio avevano nomi
come Immerman, Perlstein,
Adelman, Platnik.
avevano mezuzah
sullo stipite della porta
come strani campanelli.
Michael Chuback,
poche porte lungo il dormitorio
aveva sul muro una bandierina
decorato con le parole
Scuola Ebraico Ortodossa di Flatbush,
un’espressione per me così straniera
che poteva essere il nome
di una divinità Hindu.
Mi prendevano in giro
per essere un WASP,
ma anche mi hanno accolto
mi hanno portato a casa loro
nel Queens o nel New Jersey,
dove i loro genitori
dicevano cose come, “non posso
crederci : un gentile a casa mia”
e mi raccontavano storie
di come i loro genitori
erano fuggiti dalla Gestapo
oppure no, di come crescere
nel Lower East Side,
intere famiglie in una stanza,
storie che mi lasciavano
senza parole, sentendo come
non avessi storie
da raccontare
e poi mi sono innamorato
di te, discendente
di ebrei lituani,
attratto prima dalla bellezza
dei tuoi occhi –
esotici in parte
familiari da subito,
che suggerivano un mondo
a me sconosciuto
ma al quale desideravo
fare ritorno. E là
sono rimasto, nonostante tutti
i cambiamenti nelle nostre vite,
la storia che abbiamo
creato insieme.
Adesso, in una nuova casa ancora,
spargo sale kosher
agli angoli delle stanze
come un nostro amico ebreo
mi ha insegnato a fare –
una tradizione antica
per proteggersi dagli spiriti maligni –
il sale della mia infanzia
e quello dei tuoi antenati
a mescolarsi in questo atto
in parte ridicolo
in parte sacro.
Poesia politica
Sono trascorsi i giorni,
sono secoli, anche,
quando funzionari del governo
sono andati in pensione per diventare
poeti in giardini
da loro stessi disegnati,
come qui a Suzhou
è accaduto così a lungo:
un passaggio ruvido e intrecciato
di pietra calcarea qui,
là verdi ciocche di un salice piangente che ondeggiano
sullo stagno dei pesci,
un ponte a zig zag
verso la pagoda dove,
lontano dalla capitale,
ci si poteva finalmente
occupare di questioni
di reale importanza:
il riflesso della luna
turbato da una carpa.
L’immagine
della tua morte
non la metterò
in parole
la porterò
dentro di me
tutta la vita
non metterò per iscritto
questi dettagli
non l’ho mai voluto
li terrò
nella più buia
parte di me
dove soltanto
posso vedere
l’apparizione di uno spirito
non posso agitare
quello che mi agita
io che ho
trascorso la vita
creando immagini
stavolta
lo rifiuto
queste parole
sono la mia promessa
a te.
TRADUZIONE CURA DI ELISABETTA BENEFORTI
AFTERWORD
The maple limb severed
by a December storm
still blossoms in May
where it lies on the ground,
its red tassels a message
from the other side,
like a letter arriving
after its writer has died.
YOU DON’T PUT FLOWERS IN POEMS
You don’t put flowers in poems
for decoration, or to fill in
empty spaces, but because
they punctuated your days
at a certain juncture –
like the milkweed blooming
by the road where I went running
(sweating and thinking about sex)
That first summer we were apart,
the first year we were together.
I pressed one sweet pink globe
Between the pages of my Rimbaud
And enclosed it with a letter.
Thirty-two years later,
its stain still marks the poems.
POEM
I’m going to pretend I’m a painter and just
set up my easel here in the tall grass
by the river, with the bridge in the distance,
because the bridge needs to be in the picture
with its stell trusses and concrete pylons
strike with rust, something t ogive structure,
something man-made, a work of art
or at least of engineering to connect
not only the two banks of the river but also
the earth to the sky, fastening them
together like a row of thick stitches.
If I were really a painter I wouldn’t have to
say all that but just paint the damn bridge,
freed from the smeary imprecision and duplicity
of words, thug i could still make the bridge
look like stitiche by painting it black
against a sunset’s bloody wound-but that
would be its own kind of falsity, so maybe
it’s only an illusion that a different
medium would connnect me more directly
to the world, and the wound may be
inside me anyway, and these the stitiche.
NOBODY DIED
How many times did I say it
over the past decade,
until it became a kind of mantra,
the measure of any crisis :
“Nobody died”.
I said it to myself
to put events in perspective,
and I said it to others
to remind them that things
could be worse.
Always in the background
was the awful fact
of my brother’s death;
for any lesser calamity
I needed to be grateful.
Our house was burglarized:
diamond earrings, pearl necklaces,
all handed down
by ancestors long dead.
“Nobody died,” I said.
It was like a charm
I wore around my neck
As a formo f protection,
an evil eye
to stare down death.
I said it again
to our friends at the lake
when their boathouse burned down,
but felt how selfish I was
to be ranking their misfortune.
And then the phrase began
to go sour. I worried
that it might be asking for trouble
to keep saying, “Nobody died,”
a way of taunting death.
So I quietly let it go,
as if to row out
far from shore
and drop the amulet
into the lake’s all-seeing eye.
TEMPORARY BLINDNESS
It lasted a year and a half,
as if grief had closed an inner lid
between my eyes and brain
or lippe a caul over my head.
I spent my days in the black space
Inside me, orbiting a dead star.
Now I want to return to earth.
I want to come back from the dead,
to remove the sack from my head
and breathe again,
and let the world in-
here, now, right in front of me-
to be awakened by a lake
glittering through trees.
SALT
I’m not sure when it started,
the family tradition
of using kosher salt,
coarse grains pinched
between forefinger and thumb
then held above our plates
and sprinkled down like snow
on meat,potatoes,carrots.
I didn’t even know
what kosher meant
until I was older,
the six-pointed star
on the package was not yet
a symbol of any kind,
only a star of special interest
because it was made
ingeniously of two
triangles superimposed.
I had never eaten
or even heard of bagels
until I got to college,
where my neighbors
in the dorm had names
like Immerman, Perlstein,
Adelman, and Platnik.
They had mezuzahs
on their doorframes
like strange doorbells.
Michael Chuback,
a few doors down the hall,
had a pennant on his wall
emblazoned with the words
YESHIVA OF FLATBUSH,
a phrase so alien to me
it might have been the name
of a Hindu deity.
They teased me
for being a WASP,
but also took me in,
took me to their homes
in Queens or New Jersey,
where their parents
said things like, “I can’t
believe it: a goy in my house”,
and told me stories
of how their parents
escape the Gestapo
or didn’t, of growing up
on the Lower East Side,
whole families in one room,
stories that left me
speechless, feeling as if
I had no history
to speak of.
And then I fell in love
with you, the heir
of Lithuanian Jews,
drawn first by beauty
of your eyes-
midly exotic
yet instantly familiar,
suggesting a world
unknown to me
but which I longed
to return to. And there
I have remained, through all
the changes in our lives,
the history we’ve
created together.
Now, in a new house again,
I sprinkle kosher salt
In the corners of the rooms
as a Jewish friend of ours
instructed me to do –
an old tradition
to ward off evil spirits –
the salt of my childhood
and that of your ancestry
mingling in this
partly ridiculus
partly sacred act.
POLITICAL POEM
Gone are the days,
are the centuries, even,
when government officials
retred to become
poets in gardens
of their own design,
as here in Suzhou
happened for so long:
a ugnarle shaft
of limestone here,
there a willow’s
green locks swaying
above the fishpond,
a zigzag bridge
to a pagoda where,
far from the capital,
one could finally
attend to matters
of real importance:
the moon’s reflection
troubled by a carp.
The Image
of your death
I will not put
into words
I will carry it
inside me
all my life
I will not
put it down
these details
I never wanted
I will keep
in the darkest
part of me
where only
I can see
a haunting
I can’t shake
that shakes me
I who have
spent my life
making images
this time
I refuse
these words
are my promise
to you
AFTERWORD, YOU DON’T PUT FLOWERS IN POEMS, POEM, NOBODY DIED, and TEMPORARY BLINDNESSS:
From Into Daylight (Tupelo Press, 2014)
SALT:
From Feeding the Fire (Saraband Books, 2001)
POLITICAL POEM:
From The Names of Things (Waywiser Press, 2006)
The Image:
From Incomplete Knowledge (Four Way Books, 2006)
in cui l'autore ci parla della sua poetica, del suo lavoro e delle influenze della poesia
italiana.
a cura di Elisabetta Beneforti
PIOGGIA OBLIQUA - All’interno della tua poesia convivono un’anima lirica ed una narrativa…..vanno parallele o si nutrono a vicenda?
JEFFREY HARRISON - Hai ragione che sono impulsi differenti – il forte desiderio di esprimere un’emozione in un bel linguaggio contrapposto al bisogno di dire cosa è successo – ma non si escludono a vicenda. Veramente li vedo come parti di uno spettro continuo, con un estremo lirico a un capo e forse uno narrativo tradizionalmente cronologico all’altro capo. Puoi scrivere una poesia partendo da un capo o dall’altro su quello spettro. La mia tende a essere da qualche parte nel mezzo, ma alcune poesie saranno più vicine alla parte lirica mentre altre si muoveranno in prossimità di quella narrativa. Il mio vecchio insegnante Stanley Plumly scrive proprio su questo nel suo saggio “Narrative Values,Lyric Imperatives ”( contenuto in “Argument and Song”) – tanto come la narrativa (benché probabilmente non la narrativa tradizionale) è necessaria alla lirica (per mantenere il movimento della poesia), così la maggior parte delle poesie hanno una sorgente narrativa ma possono essere scritte da un qualche luogo vicino a quella sorgente o da molto più lontano ( per esempio più liricamente).Anche la poetessa Ellen Bryant Voigt ha qualcosa di interessante da dire su narrativa e lirica nel suo libro “The Flexible Lyric”. Lei tende a enfatizzare le differenze fra lirica e narrativa – in particolare l’idea che le due abbiano strutture completamente differenti – ma anche avverte che, nella lirica, la narrativa diviene una ‘retro-storia’, indirettamente veicolata attraverso la voce dell’io narrante della poesia ( che in un certo senso rappresenta il personaggio nella storia). Quell’idea sembra accompagnarsi bene sia con la nozione di Plumly riguardo la sorgente narrativa sia con la mia percezione dello spettro lirica-narrativa. Probabilmente è voce o tono che tiene insieme senza lacci la modulazione lirica e quella narrativa, perché la voce allo stesso tempo racconta la storia e comunica le emozioni.
PO - C’è senza dubbio un filo rosso che collega le tue cinque raccolte poetiche e per questo più volte si è parlato di un memor-like…possiamo considerarle come parti di un unico ‘canzoniere’?
J.H. – Non sei la prima persona che fa questa osservazione sulla connessione fra i miei libri. Cosa può sorprenderti è che, a differenza di alcuni poeti ( credo che Louise Gluck ne sia un esempio), non penso ai miei singoli libri come ad un tutto mentre scrivo le poesie – o almeno non fino alle ultime fasi del processo. Bene o male, sono portato a scrivere le poesie come mi vengono, una alla volta…nonostante che una mostrerà la strada a un’altra. In seguito, quando ho un certo numero di poesie, cercherò un modo naturale di preparare il libro come un tutto, un qualche tipo di arco o di principi organizzativi. Non sto mai pensando su come un libro sia in relazione con un altro .Eppure riesco a capire come, quando un lettore fa un passo indietro e considera tutti i libri insieme,possa sembrare che uno segua l’altro, come sezioni di un ‘memoir’ poetico. Credo che questo effetto abbia a che fare con il tipo di poesie che tendo a scrivere che per lo più sono poesie che vengono fuori dalla vita reale.. Così i libri appaiono, e in un certo senso sono, testimonianze della mia vita nel periodo in cui sono state scritte. Per esempio “Incomplete Knowledge”, il mio quarto libro, contiene molte poesie sul suicidio di mio fratello, e ce ne sono alcune altre nel mio libro più recente,” Into Daylight”. Infatti in quest’ultimo c’è una poesia ( la sestina “ Essay on a recurring Theme”) che in realtà commenta le poesie di “Incomplete Knowledge”, cosa che è un’eccezione per me. In un senso più largo, “Into Daylight” non è un libro sul suicidio di mio fratello ma un libro sul decennio successivo, si può dire il suo capitolo successivo. Ma all’interno del capitolo ci sono molte poesie di differenti tipi : poesie d’amor, poesie ispirate da altri scrittori, poesie sulla Natura,e via di seguito. Ciò che le mette tutte in connessione, ancora una volta, può essere una sensibilità, una voce.
PO - Approfondiamo sulla tua ultima raccolta poetica Into daylight (Tupelo Press, 2014) che si offre al lettore con una copertina molto suggestiva…
J.H. – Dopo aver scritto tutte le poesie sul suicidio di mio fratello apparse nella seconda parte di “Incomplete Knowledge”, non avevo nessuna idea di dove procedere. Cosa potrei scrivere dopo la stesura di quelle poesie di intenso dolore? Ho risposto molto lentamente a questa domanda, poesia dopo poesia. È venuto fuori che avevo da dire un po’ più su mio fratello, ma anche su molte altre cose. La maggior parte delle poesie in “Into Daylight” ( in particolare dopo la prima sezione) non hanno niente a che fare con la morte di mio fratello, sebbene la sua assenza potesse aleggiare dietro alcune delle poesie che non sono esplicitamente su di lui. Se il libro è su qualcosa, è sul riconnettersi con il mondo, con la sensibilità e con la poesia nel decennio dopo la morte di mio fratello – sul trovare di nuovo il mio personale rapporto con il mondo, sulla riscoperta delle cose piacevoli anche dando voce al dolore e alla tristezza. Hai fatto riferimento alla copertina, così penso che potrei dire qualcosa sul modo in cui il titolo del libro e la copertina si supportino. Il titolo suggerisce il movimento da fuori l’oscurità a dentro la luce. L’immagine di copertina con la sua bellezza offuscata cattura quel movimento nelle fasi iniziali o mediane – non più a lungo nell’oscurità, ma non ancora nella luce piena,entrambi – mentre il titolo enfatizza il momento ultimo del processo, di fatto l’arrivo dentro la luce. Avevo pensato a un’immagine di copertina più vivace, forse un cielo blu pieno di grandi nuvole, come qualcosa preso da Van Ruisdael, così all’inizio non concordavo su quella scena di neve e nebbia. Ma sono giunto a sentire che la discrepanza fra il titolo e la copertina creavano una tensione interessante.
PO - Fra i poeti americani chi consideri tuo maestro o compagno di percorso?
J.H. – Uno dei miei poeti favoriti, per me una vera e propria pietra di paragone – è sempre stata Elizabeth Bishop. L’ho letta da ventenne e ho subito sentito che la sua voce distintiva e naturale mi stava parlando direttamente. Certo adesso è famosa e esiste un intero apparato critico sul suo lavoro, ma in quel tempo lei era come un segreto ben conservato – era il suo amico Robert Lowell a essere famoso. Dopo di lei, ce ne sono troppi da citare e so che potrei dimenticarne alcuni, così mi fermerò qui. Ma ti dirò che “Into Daylight” contiene un numero di riferimenti e omaggi a altri scrittori (compresi Robert Frost, Whitman, Richard Wilbur e Mark Strand), ma molti di loro non sono americani ( John Clare, Hopkins, Han Shan, Catullo, Edward Thomas, Tolstoy, Virginia Woolf…)
PO - …E per quanto riguarda la scena italiana, ci sono voci poetiche che consideri irrinunciabili? So che di recente hai trascorso un periodo di scritture in Liguria……
J.H. – Mi vergogno a dire che la mia familiarità con la poesia italiana non è quella che dovrebbe essere, anche se ho cominciato presto, al College. Sono andato alla Columbia, dove l’ Inferno di Dante era una parte istituzionale del sillabo. Più tardi ho letto il resto della “Divina Commedia. Ho anche seguito le lezioni sul “Sonetto Italiano”, che includeva “La Vita Nova”, Petrarca, Michelangelo e molti altri. Il poeta italiano moderno a cui sono maggiormente ritornato è Montale, e l’ho portato con me a Bogliasco, così potevo rileggerlo nei suoi scenari. C’erano dettagli da questa poesia tutto intorno a me, a partire dagli alberi di limone nel giardino sotto la mia stanza ( come nella sua poesia “I Limoni”) e comprendendo un muro sormontato da vetri rotti lungo la stradina che percorrevo per scendere in città ( come quello in “Meriggiare pallido e assorto”). Alla fine ho scritto una breve poesia su quella esperienza, iniziando con quei pezzi di vetro e concludendo i minuscoli vetrini smerigliati che ho trovato nascosti fra i ciottoli in spiaggia. Mi sono anche portato un’enorme antologia di poesia italiana del ventunesimo secolo, e ho letto nuovamente poeti che avevo letto in precedenza, come Ungaretti e Pavese, o come altri che non avevo mai letto, come Giorgio Caproni, Pasolini e Umberto Saba.
PO - Che ruolo pensi occupi la poesia all’interno della realtà contemporanea?
J.H. – è complicato. Le persone stanno leggendo e scrivendo poesia più di quanto
accadeva prima, ma rispetto all’intera società non è mai stata ignorata di più. Non aiuta che la modalità dominante in America in questo momento tenda verso un ironico offuscamento – come se i
poeti avessero abdicato a ogni tentativo di comunicare e vivessero nella paura di incontrare un’emozione autentica. Questo serve solo a marginalizzare ulteriormente la poesia. D'altro canto, la
poesia non può competere con i mass media e forse non dovrebbe provarci. Sarà tenuta in vita da quelli che sono ancora impegnati nella lotta forse fuori moda ( o è eterna, senza tempo?) di dire
l'indicibile e, sforzandosi di dirlo, creare la bellezza.
JEFFREY HARRISON, ha pubblicato diversi libri di poesia. Suoi testi sono apparsi su molte riviste come The new Republic, The new Yorker, The Nation, The Yale Review. Ha tenuto corsi in numerosi College e Università. E' "Writers-in Residence " presso la Philip Accademy.
Vive a Dover in Massachusetts.