GRETA ROSSO
effetto di mera esposizione
Maria Rosa era calabrese.
Dopo le vacanze di Natale
al ritorno in convitto
aveva portato due grosse forme di pane
ne aveva utilizzata parte per preparare delle polpette di pane
finite nella salsa di pomodoro
anch’essa portata da lei
ne avevamo mangiate tutte
la siciliana la napoletana la valtellinese indecisa
(mentre io in genere, per la condivisione,
preparavo zuppe di legumi e verdure
più raramente delle ratatouille imprecise
o insalate di pomodori).
Poi si poteva o meno condividere un momento di televisione
ma mai spesso e mai a lungo
e ognuna tornava alla sua camera con lavabo.
Spesso in quel piccolo lavandino lavavo qualche indumento
ci furono, addirittura,
diversi arrampicatissimi acrobatici bidet
per non raggiungere l’area bagno;
fumavo, bevevo un bicchierino di liquore alla frutta
(dopotutto, avevo diciassette anni),
studiavo poco, leggevo molto, ho anche amato
una bellissima amica,
in quel vuoto penumatico
dell’adolescenza giunta a maturazione.
Comunque stasera ho ritrovato
le polpette e il pane di Maria Rosa
e ho ricordato, con chirurgica precisione,
che dopo giorni di viaggio e permanenza
a Casale Monferrato
avevano preso un sapore di stantio
oltre il quale recuperare la fragranza del grano e della semola
richiedeva uno sforzo di immaginazione
che non ero ancora pronta a praticare.
degustazione
C’è il linoleum
come dire anni novanta
il sudore ai concerti
un odore di appartamento chiuso,
di gomma, di giocattoli,
di frutti disegnati.
Poi viene il pomodoro.
E la fragola di bosco,
quando passi oltre la superficie tinta
e il bianco ti sbatte sui denti
non appena lo penetri e perfori.
Ecco che lei passa le mani sull’intonaco veneziano
nella camera bene ammobiliata
e il tramite sono i capelli
che non ha mai saputo avere,
soffici e corposi.
Il secondo macera.
Semplice, dolce e poi verde quanto basta.
Io ci sento Orta
quando raccolsi i fiori del rosmarino
e non le foglie
per il risotto.
Il lungolago,
l’estate.
Infine l’ultimo, inguine, lattice
e anche, forse, un po’, il benzinaio
che ti controlla pure l’autovettura
mentre tu attendi nel negozio polveroso
fra i prezzi mancanti
e il non sapere quanto pagherai
per il controllino.
effetto di mera esposizione
Ricordo la prima volte che misi piede in questa cucina
non ancora avevo ben compreso
con chi avevo a che fare
vidi le piccole piastrelle quadrate
che ricoprivano il piano di lavoro e il paraschizzi
nella luce della lampadina
pensai fossero sporche, molto sporche.
Sono dopo qualche minuto realizzai
che erano ricoperte uniformemente di piccoli
puntini di diverse dimensioni, insomma
una fantasia regolare e irregolare,
non molto differenti da te, col senno di poi.
Ho preso, da qualche settimana
questa abitudine che era tua
quando vivevi solo
di asciugare le stoviglie dopo averle lavate
e riporle, ognuna al suo posto, in ordine
per lasciare la cucina il più possibile sgombra.
Rimangono però le cose che fanno la mia piccola confusione
un po’ per velocizzare lo svolgersi delle mattine
un po’ perché il mio essere al mondo è ricco di particolari
così ci sono tazze pronte per la colazione
portamerenda e borraccia di irene, e una serie di vasi
aloe, un pomodoro nato a casaccio che ho
maltrattato e mai ha dato frutto, il basilico spogliato e spoglio.
musica da un’altra stanza
Stamattina l’aria
è una granita sorbita troppo rapidamente
le cime rosse del sole crescente
di settembre
paonazze come quindicenni
e il paese, deposto grigio,
ancora sotto le coperte.
Assenzio ovunque, crespino
cammino riverenziale
senza tuttavia soffermarmi.
Questo verde lussuoso
di tonalità ancora primaverili.
E il sole
attraverso uno spioncino
l’occhio che si stropiccia
di tanto lavoro davanti e dietro.
Improvvisamente prendo coscienza
di un’ombra furtiva e ridanciana
che mi segue sul mio lato sinistro
in barba all’inclinazione del sole
e alla precisa geometria dei suoi raggi.
La sento correre e nascondersi e indietreggiare
mentre conto le vene gonfie e pulsanti
del sentiero.
Io che a vedermi
mi riconosco nello strumento ligneo
dei rabdomanti
manipolata per fini d’acqua puntando il suolo
pronta a recepire e tradurre il flusso
avendolo testato in prima persona.
Sai quanti lupi ho visto e vedo
che non mi dicono per mangiarti meglio bambina mia?
Avallati dagli avvallamenti del mio campo visivo
non scantonano più, restano nel sonno profondo
perché non disturbo, se non l’universo.
(La rugiada lubrifica
incita e invita nell’eccitazione del mio
essere leggera
sulla traccia perlacea del camminamento.)
Quanto stride il nylon dei miei vestiti
su questo tappeto di bosco
un modernariato per il quale
non provo interesse
a parte l’utilità relativa al movimento.
Stridono volatili di settembre
ma loro per natura, e bene.
La suggestione di formicai franati
fra i capelli dei prati scoscesi.
La suggestione dell’intendere
finendo col portare tutt’altro
perché il buono irradia e spenge
le proliferazioni più deleterie-
talvolta.
Il mattino di settembre che disimbruna
e il farsi scoglio ultramarino
della mia fronte afferrata a stagioni
sempre più rarefatte.
Il concetto è un dopodomani che si diluisce
e al tempo distilla
nello stare disallineato
delle cose reali e disponibili.
Io che tocco il ginepro
con lo sguardo
e colgo il razziare i cieli di velivoli secondari
mentre non ricordo il mio corpo
fra spini e rameggiare.
Da dove viene il respiro
acceso delle erbe, tu chiedi
senza chiedere e pertanto ottenendo
carezza.
ordine e avventura
Il locale monta archi commoventi.
Marianne, we are ready for you, so long.
Quante lettere scritte senza il beneficio
del dubbio.
I giovani passano e lasciano segni
non indelebili.
Invece:
le puttanate trovate al cimitero sono finite
nel cassone della spazzatura.
Lo squallore fine a sé stesso.
È tutto molto dilatato.
I libri che sto terminando, tutti insieme.
I secchi della differenziata.
La crescita di Irene, nonostante
i picchi estremi.
La mia crescita e la mia
contestuale decrescita.
L’animale guida che tace, avendo io
in buona sostanza
esaurito le strade note.
Ghirri e il suo registrare istanti consapevoli
e sfuggenti assai.
La lettura di un brano,
che non è questo,
che non è una canzone gettata
in un crepaccio.
E i ghiacciai, muti, che sentenziano
quando li tocchi, da lontano, con lo sguardo.
La subitanea sparizione delle orde
qualsiasi cosa ciò significhi.
Ray & Liz
1
Un’esistenza sfatta
dettata da tavolini da caffè macchiati
e lampadine impolverate.
Il pentagramma delle cittadine,
ovunque identico.
2
I cuscini sono sudici
la testiera ricamata di escrementi di mosche.
E la firma dell’abbandono
incurante dei viventi
nonostante i viventi.
3
Nella camera un comò con specchio
sgombero di ninnoli:
nel trascorrere inerte delle periferie
è appannaggio di santini annoiati
arresi alle circostanze
stagliati sulle tendine amidate, scagliati nelle ore.
4
La vecchiaia nei capillari scoppiati
nei genitali arresi e mai menzionati
nella birra calda versata nei bicchieri.
5
(La solitudine mi somiglia.
Non parla, non lava i vetri,
si dimentica di invecchiare,
non appende fotografie.)
6
Ci sono esistenze che scolorano
già dal principio
altre subito attente
all’entusiasmo, ai fantasmi
dedite all’esperienza
indifferenti alla polvere.
7
Nel mentre l’inverno addobba
i fili della luce
prepara il tè, si nasconde
dietro ai quadri.
8
Negli anni il disinteresse non è mai
cambiato
ha solo preso nomi differenti
senza deviare
sempre menando al disastro.
9
Cosa ne pensi dio di tutto questo
lo guarderà scorrendolo su un dispositivo
distrattamente
parlandone a tavola la domenica
una diceria qualunque –
un predestinato tamponamento
e tutto così sbagliato
e tutto così dissimile dalla vita come ce l’hanno assegnata.
10
Usciamo portandoci dietro
una stanza piccola e stracolma
l’isolamento ci è congenito
interminabile e ottuso
padroneggia
avendo perso noi
perfino il fatto di aver perso.
11
L’artificio dei fuochi
le tubature appese al cuore
lo sfiato delle mani così esili e incapaci
quando si tratta di donare-
così ci si sottrae dall’esistenza
con la resa, senza davvero
partecipare,
allestendo l’assenza dalle cose umane:
così siamo insetti in una scatola e
nulla abbiamo appreso.
Greta Rosso è nata a Casale Monferrato nel 1982. Vive a Bormio.
Ha pubblicato Cronache Precarie (Aìsara, 2009), In assenza di cifrari (LietoColle 2012), Manuale di insolubilità (LietoColle-Pordenonelegge 2015), col quale ha vinto il premio Castello di Villalta Poesia Giovani 2016 e Fenomeni di collisione (realizzato in 37 copie numerati da Barbara Giuliani per trepuntinidisospensione) . Finalista al premio Lorenzo Montano (sezione raccolta inedita) nel 2014 e nel 2016. Sue poesie sono apparse nei siti internet Nazione Indiana, Absolute Poetry, Imperfetta Ellisse, Viadellebelledonne, Poetarum Silva, Words Social Forum, e nelle riviste cartacee Il Foglio Clandestino, Le Voci della Luna, Quadernario 2016, Smerilliana, Bacchanales (Revue de la Maison de la poesia Rhône-Alpes).
Dal 2022 collabora con la redazione de Il Foglio Clandestino.