Per Silvia Rizzo
a cura di Claudio Pasi
Silvia Rizzo ( Roma 1946 - Campiglia d'Orcia 2022)
Fotografia di Michele Feo, 1976
Silvia Rizzo, Orchidee dell'Amiata, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015
LE ORCHIDEE DI SILVIA RIZZO.
UN OMAGGIO POSTUMO
Di persona morta divenutami cara sentendone parlare
(Giuseppe Ungaretti)
uscir del boscho et gir in fra la gente
(Canzoniere 126)
Silvia Rizzo non l’ho mai incontrata di persona, né ho mai avuto con lei alcun contatto telefonico o scambio epistolare, digitale o cartaceo. Anni fa Alessandro Fo mi disse che anch’ella condivideva con noi due la medesima data di compleanno (Otto febbraio si chiama infatti la raccolta di versi che Alessandro pubblicò nel 1995 presso Scheiwiller), e mi inviò un file contenente poco meno di cinquanta poesie sue, successivamente uscite a stampa con il titolo di Orchidee dell’Amiata (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015), suggestiva denominazione in apparenza più idonea a un qualche trattatello di botanica.
Silvia Rizzo è mancata lo scorso 27 febbraio, appena tre settimane dopo il suo giorno genetliaco, colta da un improvviso malore mentre, insieme alla sua amata cagna bianca, camminava per i sentieri e i boschi intorno a Campiglia d’Orcia. In quel piccolo borgo della provincia di Siena – che conserva pressoché inalterata la sua struttura urbanistica medievale ed è circondato da un paesaggio che appare in vista ancora quello degli affreschi del Buon Governo – si era da qualche anno trasferita da Roma, dove era nata nel 1946, lasciando anticipatamente la cattedra di Filologia della letteratura italiana che deteneva all’Università «La Sapienza». Il vasto orizzonte dei suoi interessi annovera svariati contributi su autori antichi, da Plauto a Cicerone, e di età umanistica, da Lorenzo Valla a Poliziano, ma il centro privilegiato del suo impegno di studiosa è legato all’opera e alla figura di Petrarca, di cui ha curato, mentre già risiedeva nel suo buen retiro toscano, l’edizione delle Seniles. Notevoli infine la lectura Dantis di Inferno XXVI e le non frequenti ma originalissime incursioni nella modernità: Pascoli, Rilke, Lampedusa, Montale.
Un’attività tanto intensa quanto variegata aveva però sospinto nell’oblio quell’inclinazione alla scrittura creativa che pure si era manifestata in Silvia già nell’adolescenza e nella prima giovinezza, nella forma di brevi prose narrative, squarci autobiografici, riflessioni (testi ora in parte rintracciabili nella rivista on-line LaRecherche.it). Stessa cosa per la poesia, anch’essa guardata con sospetto e poi dimenticata. Eppure quel fuoco, che continuava a covare muto sotto la cenere, ad un certo punto di nuovo si ravviva e torna ad illuminare la sua vita, come un barlume o un’intermittente fiammata: «È strano... All’improvviso, / dopo anni di silenzio, / una corda nascosta / è tornata a vibrare. // L’anima mia di nuovo / va in cerca di armonie / e sentimenti inquieti / voglion farsi parole» (Parole, p. 16, vv. 1-8). Così quelle liriche, riemerse e lentamente distillate, composte, come annota l’autrice, «a partire dagli anni Ottanta fino al 2011» appaiono dapprima su rivista («Caffè Michelangiolo» e «Italian Poetry Review») e poi nel summenzionato volume.
Il libro si apre proprio con la poesia eponima, costituita da un elenco delle specie di orchidee spontanee che l’autrice via via individuava e fotografava durante le sue frequenti passeggiate lungo le falde del Monte Amiata. Uno stupefacente erbario dove le misteriose nomenclature linneane appaiono incastonate negli endecasillabi come in vasi di vetro: «Orchis morio, ophrys fusca, gymnadenia, / neottia nidus avis, orchis simia, / dactylorrhyza maculata e fuchsii, / serapias lingua e vomeracea e tante / altre dai nomi e dalle fogge strane / dischiudono corolle non vistose, / simili a vulve femminili o in forme / bizzarre, come d’elmo, con speroni, / con rilievi, con creste, con puntini, / purpuree, bianche, maculate, rosa, / verdastre, gialle, brune, quasi nere, / con placche blu, con strani geroglifici» (p. 7, vv. 1-12). Questi rapidi dettagli, queste fantasiose similitudini, queste improvvise accensioni cromatiche trasmettono a chi legge una sorta di vertigine della molteplicità, un po’ come le frastornanti descrizioni barocche di un Marino o di un Bartoli; o possono magari, se vogliamo guardare a tempi a noi più prossimi, richiamare alla mente certi passaggi da Flowers and Insects di Ted Hughes.
Ma è tutta la raccolta ad offrire lussureggianti immagini di piante e di fiori: robinie che tremano al vento (p. 23), rose palme banani giunchiglie contemplate nei giardini romani (p. 24), «i candelabri gialli delle ferule / e le ginestre [che] incendiano le pietre» (p. 48), zagara datura gelsomino ficus ibischi di un rammemorato Hortus conclusus siciliano (p. 61), e ancora i Fiori di cappero (p. 25); Il ginepro schiantato (p. 26), l’azzurra Scilla bifolia avvistata nelle escursioni campestri e descritta con la tenue metafora «Sono caduti pezzetti di cielo / oggi nel bosco tra le foglie secche» (p. 63, vv. 1-2). E poco oltre, in quello stesso bosco, ecco apparire gli amati animali domestici, nominati uno ad uno: «Lara, Piotr e Tigrin, due cani e un gatto! / E tutti e quattro camminare insieme» (vv. 10-11).
Un amore, questo di Silvia Rizzo per gli animali e per la loro disarmante innocenza, apertamente dichiarato nella poesia Sogni di un cane (p. 27) in cui il «compagno fido» (v. 19), ormai anziano e malato, ancora freme nel sonno forse ricordando le corse sfrenate e gli inseguimenti di un tempo. Ai suoi cani ella dedica inoltre due accorati testi in prosa (Amicizia fra cani e Un cane), dove si fondono insieme memoria, affezione e attenta osservazione etologica, e da ultimo anche uno studio oltremodo singolare dal titolo Il cane spagnolo di Petrarca, riferito all’esemplare donato dal cardinale Giovanni Colonna al poeta, che diviene il protagonista di una sua epistola metrica (III, 5). L’autrice tiene a precisare in nota che il suo «scritto sul grande cane bianco di Petrarca è un piccolo omaggio al mio grande cane bianco Lara, anche lei, come quello, mio ‘comes assiduus’ nelle spedizioni campestri e boschive, amante dell’acqua e instancabile nel correre per i prati, magari dietro un capriolo in fuga». Al saggio fa poi seguito una sua elegante traduzione in endecasillabi degli esametri latini. E, durante quelle spedizioni, molti gli incontri ravvicinati con animali selvatici, talora fortunosamente fermati in una serie di scatti fotografici: cinghiali, lepri, tassi, una volpe, un ghiro, e grilli api farfalle, il picchio e la capinera (presente nelle due liriche Zipippì e, appunto, La capinera, pp. 17 e 18), nella quale la poetessa, sulla base magari del nome scientifico di Sylvia atricapilla, ha forse voluto scorgere una sorta di «auto-senhal». La quotidiana immersione nel mondo naturale, come ammette nella breve prosa intitolata Neve, dunque «le ha dato uno sguardo nuovo per l’infinita bellezza di tante piccole cose: un nido di uccello che il vento ha fatto cadere, un aculeo d’istrice, le pietre, le piume, le foglie, le ragnatele, i ghiaccioli».
Altre poesie rientrano invece in una dimensione più intimistica e introspettiva, e registrano alcuni eventi indelebili di una vicenda biografica semplice in apparenza, se non fosse che nulla è mai semplice in nessuna vita umana: la fine di un’infanzia spensierata e rimpianta (Ballata dell’infanzia, p. 9), i primi turbamenti della pubertà (Metamorfosi, p. 33, che è una sorta di autoritratto nudo), l’incanto di un ricordo «sottratto / al rapinoso scorrere del tempo» (Leano, p. 34, vv. 31-32), un innamoramento celato dietro la maschera virgiliana di Didone (p. 55) da cui riprende alla lettera il proverbiale agnosco veteris vestigia flammae (Aen. IV, 23) nella versione dantesca di Purgatorio XXX, 48; e ancora da Dante, nel contesto di una Separazione (p. 54), trae l’altrettanto celeberrima rima aspra «scerpi / sterpi / serpi» di Inf. XIII, 35-39. E poi le atmosfere, le memorie, i lutti famigliari: l’austera figura del padre (La lampada, p. 31), i due sonetti Un’altra lingua e Propemptikon (pp. 43 e 44) che rappresentano il doloroso viatico per la madre ormai vicina al trapasso, e una Preghiera (p. 62) mormorata sottovoce al capezzale del fratello morente.
Da un certo punto in avanti l’incombere della morte e il dialogo con i propri defunti diventa infatti il motivo dominante del libro: Ultimo addio (p. 40), L’enterrement (p. 45), epicedio per un amico filologo, Lacrime di vento (p. 56) a un’amica scomparsa. L’immagine della morte compare improvvisa, come «una presenza muta, / che tu ed io soltanto / scorgiamo» (La presenza, p. 51, vv. 5-7), e poi altrettanto improvvisamente scompare. Né vale a lenire l’angoscia l’arrivo della primavera, che riporta «l’amore / a piante ed animali; e chi l’amore / l’ha sotterra, si muove a passo lento», come afferma in Aprile (p. 52, vv. 10-12), quasi una chiosa a «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena», Canzoniere 310. In qualche momento il dolore individuale arretra davanti al dolore collettivo; è il caso di Natale (p. 36) dove, proprio mentre «celebra l’Occidente / i suoi riti opulenti» (vv. 18-19), altrove, in Cecenia a Sarajevo a Gaza, la gente continua a morire. Silvia fa cenno ad avvenimenti del 1994, ma anche ora, nel momento in cui scrivo queste righe, assistiamo impotenti alla medesima assurda follia.
Dei luoghi già si è detto: la Sicilia etnea del ramo familiare paterno, frequentata durante le vacanze infinite dell’infanzia (La casa di Regalna, p. 38; Salendo alla rocca di Taormina, p. 47), o la flânerie romana che rammenta gli inquieti itinerari urbani di Giorgio Vigolo. Infine, proprio verso la conclusione della raccolta è la visione del paesaggio di Valchiusa (p. 64), quel silenzioso rifugio di Petrarca che ora è divenuto irrimediabilmente preda di un turismo di massa fatto di schiamazzi, bar, fotoricordo, souvenir da quattro soldi. Eppure, chi come Silvia ancora sente con il suo poeta una non spenta affinità elettiva, può ancora, raschiando via dal palinsesto la bruta superficie del presente, riscoprire l’incanto di quell’antico paesaggio che nuovamente si squaderna allo sguardo e nel pensiero come un’epifania, una sorprendente agnizione, e quel luogo torna allora ad essere quello stesso veduto un tempo e fissato dal poeta in un famoso disegno: «Sorge nel ricordo / quello schizzo sul margine inferiore / di un foglio del tuo codice di Plinio: / rocce, chiesetta, il corso della Sorga, / un airone col pesce dentro il becco, / e le foglie ed i fiori di una canna / palustre che Linneo battezzò ‘typha’» (vv. 31-37). È la poesia, insomma, che sembra poter dare forma al paesaggio ed in una qualche misura legittimarlo, e il paesaggio finisce per esistere solo in funzione della sua esistenza letteraria.
Ma il vero luogo dell’anima è ormai quello in cui Silvia ha scelto di trascorrere gli ultimi anni, là dove per sempre ha chiuso gli occhi. Citando ancora da Neve: «ecco la sua casa contornata da neri cipressi: davanti bianchi pendii da cui il sole sta facendo riaffiorare il verde. A questa vista prova un tranquillo e rassicurante senso di appartenenza. […] La sua vita è ormai qui: questo è il suo paese, questa la sua casa». Che è la casa della poesia ritrovata, la sola cosa che nell’oscura premonizione di Congedo (p. 66) ella con garbo chiede agli amici di salvare:
Amici, alla mia morte distruggete
le cose che ebbi care e che serbavo
gelosamente: piccoli regali
ancora avvolti nelle carte, ciottoli,
conchiglie, scatoline, un vecchio paio
di scarpe con cui corsi alla vittoria
nei quattrocento piani,
il sacco da montagna, la piccozza,
arrugginita ormai,
lettere, foto, quadernini, appunti
e fiori disseccati.
Soltanto questo poco
vi prego di salvare di poesie,
e magari di leggere, se avrete
qualche momento d’ozio, anche se furono
scritte solo per me, per altri pochi,
molte volte per uno solamente.
C. P.
Esemplare di Orchis Morio
Fotografia di Silvia Rizzo
Lara, comes assiduus, fotografia di Sivia Rizzo.