FABRIZIO PARRINI
PONTORMO
I
Piove da un mese ormai e gran freddo
e gran vento e acqua dappertutto.
I muri della Cappella Grande sono fradici.
Da ieri notte non faccio altro che tingere il cielo
d’azzurro come carne marcia e piove sui vetri in alto.
Sono diventato sordo dal chiasso.
I tuoni fanno tremare San Lorenzo
e le candele sono finite.
Bisogna che me ne procuri
o dovrò dipingere ai lampi di questo infinito temporale.
Chissà se questo lavoro avrà mai fine.
Le figure nascono da sole,
crescono come creature vive.
L’altra notte ho finito l’Ascensione delle Anime al cielo,
una fila di nudi che si aggrappano alle gambe degli altri,
si fanno scala per salire in Paradiso.
Non mangiavo da giorni, mi parve all’improvviso
che tutto scomparisse.
Ero stordito dal forte vento che avevo creato io stesso,
come un bambino che finge di salire
i gradini che ha dipinto per terra,
per poco non fui risucchiato in quell’ascesa di sogno.
Mi sono aggrappato ai ponteggi per non scomparire
nell’universo. Ora non ho più forze per continuare il lavoro,
questa buia cappella è come un mare
senza cielo. I miei passi rimbombano nel vuoto,
mi scalda solo il pensiero,
il centro vuoto del pensiero.
Non c’è niente, in questo abisso, ora lo so,
c’è solo questo vasto respiro del mondo sotto forma di vento.
Mi spiano di giorno e di notte, lo so,
a volte sulle impalcature sento il gelo
intorpidirmi le mani e allora devo accucciarmi
come un cane per scaldarmi le dita
al calore delle candele.
Scorgo delle facce che ridono all’altezza dell’ultimo tetto.
Ridono della mia barba sporca di colore,
delle mie spalle curve che nascondono
poche once di pane raffermo che è la mia cena sopra l’altare.
Vengono a osservare il pasto dell’aquila,
io che mando giù fiele con lo stomaco incrinato
dalla vertigine. Allora sputo contro i vetri del rosone
per cancellare quei visi di cadaveri.
Mi ferisce la loro allegria, nei loro pensieri
sono una scimmia ammaestrata, uno zimbello.
Un acquazzone improvviso mi salva,
ora sui finestroni corre un torrente d’acqua sporca.
Ho alzato i ponteggi che non avevo ancora i capelli bianchi,
ora devo rinforzare da solo le scale di legno e gli snodi,
perché la chiave la porto al collo come una reliquia.
Da solo sono entrato nella cappella di Cosimo Vecchio,
da solo ne uscirò vivo o morto, come vorrà Nostro Signore.
Non ho più tempo, mi fermo ormai solo per bere
e pensare, il resto è notte. Io sono vivo solo lassù,
sotto la cupola. Qui sulla terra sono una bestia presa a calci.
Rivedo un febbraio lontano, acceso come un fuoco.
Dipingevo sotto un padiglione
i carri del Carnevale per la Compagnia del Diamante.
Ricordo angioletti dalle gote di rubino,
Saturno, cani e montoni da sembrare veri
e un re di Roma con i Libri della Religione
e balzane e fregi d’oro ed elefanti.
Ne parlano ancora in tutta Firenze.
Scoppiavano mortaretti, si accendevano
fuochi per i carri di Pontormo.
Fuochi che duravano lo spazio di un giorno
allegria d’ubriachi che con la bava alla bocca
strisciano sugli scalini di Santa Croce
e disgusto e nausea, musica d’occasione
e anch’io puttana tra le puttane
ma lontano, chiuso nella mia casa senza scale,
come un gufo, le mani sulle tempie
per non sentire quelle grida oscene, gli scherzi,
le promesse d’amore , i gemiti, ladri che si fanno
santi, usurai, bambini che i padri travestono da nani,
come allora io resto
al di qua di ciò che sono o dico, diverso e dannato.
Andavo per le strade di Ognissanti
con i capelli e la barba tinti d’argento nell’ultima
notte di quel lontano Carnevale.
Volevo diventare re o stella,
andare per le vie trasformato in angelo
dei vasti cieli stellati, somigliare all’universo degli uomini,
ridere, attraversare finalmente
la notte senza sentirmi pugnalare dalle chiacchiere
“è Jacopo, non vedi, il pittore lunatico,
il compagno di tutti i dolori, dicono
che mangi minestre di lucertole, filtri di ramarri”.
Solo un bambino mi riconobbe.
Mi chiamò Angelo Scappato dall’altare,
non sorridevo da un’eternità.
Ora non ho più nulla da spartire con nessuno.
Non voglio più un’esistenza diversa da questa
che condivido con i pipistrelli della volta:
Ogni creatura mi spaventa e mi affligge.
Solo a volte, mentre mi affanno sopra un cielo,
un incarnato mi viene sulle labbra una canzone d’amore,
di quelle che mia nonna Brigida
cantava sottovoce per addormentarmi
in qualche inverno di tanti anni fa.
Mi viene sulla bocca un nome lieve, Alessandra.
Da allora è fioca la luce del sole,
non c’è più ragione in questo orribile alternarsi
di luce e di gelo. Alessandra dai capelli scuri
che mi guardava ammirata saltare
sui ponteggi, che mi lasciava la cena ai piedi della parete.
Nemmeno la peste mi ha voluto.
La vita si è dimenticata di me.
Ogni cosa ha le sue radici nel buio,
anche Alessandra. Lei mi guardava incantata
nel grande Giardino dei Medici.
Io non riuscivo a trovare nemmeno una parola.
Avevo la testa piena di musica
e me ne stavo lì, sbattuto dalla tramontana,
con il cuore murato, e poi un po’ d’amore
frettoloso sul ballatoio,
necessario come il dormire e il mangiare.
So che non tornerò quello di una volta.
La mia anima si è disciolta come neve.
Sono ciò che sono sempre stato, vecchio.
La vita mi sembra stordita e lenta,
una notizia che appartiene ad altri,
un lieve dolore che attraversa l’anima in silenzio.
Lassù non ci sono domande
e dai finestroni si vede tutta Firenze.
Quando scendo dai ponteggi, all’inizio della notte,
sono consumato, ho solo fantasmi, vaghe memorie,
luci tremanti come le barche che scivolano lente
sulla superficie dell’Arno.
Meglio fossi stato scultore
come Baccio o Michelangelo, avrei lavorato la pietra dolce,
scheggiata dai riflessi rosa
o verdi, non avrei avuto a che fare con le ombre.
La statua resiste alle stagioni come una quercia salda.
Faccio un mestiere da femmine, mi pentirò amaramente
di questo gioco di acchiappare angeli e pensieri.
Le nostre figure non le rovina il vento,
ma il nerofumo dei candelabri,la dimenticanza.
Cosimo è venuto già due volte
per spiare il suo pittore selvatico,
ha lodato il mio Cristo in Santa Felicita,
dice che il Buonarroti
mi chiama il più grande talento dopo il suo.
Sono chiacchiere buone per la veglia,
per le notti dove si gioca a gabbare la morte.
Queste figure sono impastate nel fiele. Questa è la verità.
Nascono alla luce della luna, quando la notte è di bronzo
e tutti questi colori trasparenti se ne vanno in giro
per il tempo che mi rimane,
come foglie trascinate dal garbino.
Ah il tempo della Certosa con la morte appollaiata
sulla cupola di Santa Maria del Fiore.
La città era diventata silenziosa, buia,
di giorno e di notte.
Il martellare della campana di piazza
come una cicala piantata in mezzo all’estate.
Come un castello assediato aspettavamo la resa,
ci spiavamo l’un l’altro alla radice del collo
il segno della morte.
Il cielo era sempre troppo azzurro quell’estate,
all’orizzonte il fumo dei morti bruciati in Santa Croce.
La morte si è divorata gli amici portati via
sui carretti di cipresso,
il vecchio Nunzio che mi procurava
il legname per i ponteggi, Sebastiano,
i bambini che vedevo giocare
sulla riva destra dell’Arno.
Quando la peste finì si poteva camminare
per la città senza incontrare nessuno,
nell’aria un odore soave di ginepro,
qualcosa di vicino al sonno.
Le parole pronunciate sottovoce
come per non disturbare i morti.
Io ho dipinto alla Certosa quel Cristo abbandonato
e stanco davanti a Pilato, è mio quel muso smunto,
sono io nel mondo vuoto e non c’è aria,
non c’è sole abbastanza.
Non volevo più uscire dal convento.
C’è voluto l’ordine dei Medici per stanarmi
come un topo nel solaio.
Il giorno somigliava finalmente solo a un altro giorno,
perfettamente uguale,
scarne figure in cambio di una cena.
I fiorentini che ho amato
sono murati alle porte della città.
Potrei raccontare montagne di bugie,
tutti mi crederebbero. Ho avuto in sorte il nascere
un’altra volta, ma il mondo non è cambiato.
La peste è passata invano
posso ancora mettermi la maschera del mago
che dà vita a splendori, nuvole, paesi lontani,
animali di ogni tipo e tante altre cose ancora...
Tra poco sarà giorno, parlare del passato
non addolcisce il cuore. Impallidisce l’orizzonte,
verso il mare il cielo è più verde.
II
Era un inverno gelido, il peggiore di tutta la mia vita.
Le vie erano coperte di neve e fango, bisognava farsi largo
tra i maiali e la sporcizia per raggiungere i prati sotto le mura.
Dappertutto mendicanti distesi senza forze
sulla neve disciolta, non parlavamo che del tepore
della primavera. Ci scaldavano i ricordi,
avevi diciassette anni
ed eri innamorata giorno e notte.
Venni nella tua casa nascosto in un mantello grigio.
Tuo padre mi pregava di una grande Maestà,
quando ti vidi fu luce da ogni parte.
Hai posato per me in quell’interminabile inverno
nella mia casa di polvere e di sonno.
Sei stata Sant’Anna, una donna del popolo,
un angelo a volte. Le tue lacrime mi bruciavano il cuore
ed io tornavo ad essere quello che sono,
un uomo malinconico e gentile.
Andavo in cerca di violette.
Ogni giorno ne trovavi sui pochi mobili di casa.
I miei amici mi chiamavano dalla via,
io ti facevo cenno di non rispondere
e così cominciava un’altra lunga notte simile al giorno.
Sul campanile di fronte
ricordo una cicogna che stavamo per ore ad osservare
e la nebbia, la nebbia di un giorno
di marzo dove ci siamo persi fuori dalle mura
della città. Sento ancora la voce dei miei cardellini,
li lasciavo liberi per la casa, pulivano il tavolo
dalle poche briciole, cantavano fino allo stordimento.
Ogni tanto ne liberavamo alcuni all’arrivo della primavera,
quasi sempre tornavano ed era una gran festa.
“Non sono così matto allora ” ti dicevo
“se i cardellini tornano è perché trovano
buona la mia compagnia”.
Sfidando la tramontana, raggiungevi la mia casa
appena prima dell’alba. Firenze restava ai nostri piedi
con le sue torce consumate. C’erano passi d’armigeri, canti,
il verso del lupo di un amico contro la mia vita selvatica.
In un vaso trasparente una manciata di margherite.
Io soffiavo sulle candele perché il fumo
non ti bruciasse gli occhi. “C’è una collina bianca”
ti dicevo “dietro San Miniato,
l’ho visto in Masaccio, è così perfetta
che sembra un diamante.
Non ci saranno colline nei miei dipinti,
ma pensieri e vuoto come cadere in volo,
come precipitare dal cielo”.
Che altro mi resta se non raccontare quel che è stato
dire di una notte nera come la pece,
che altro mi resta se non l’immagine mia
in alto sul cornicione della cupola, sospeso sulla vertigine
che ti faccio cenno con la mano indicandoti la Vergine,
leggera su un pavimento di nuvole, con il tuo viso
e il tuo sguardo. E’ tutto quello che hai
e una piccola pietra vulcanica
rubata per te nel ghetto di Venezia.
Oggi il giorno ritarda.
In piedi contro il vetro del lucernario
sento l’incalzare del sonno e piove ora.
Un soffio leggero di vento piega
la caduta della pioggia.
Vedo appena le mie mani ora,
la luce ha riflessi verdastri.
Tra poco sarà l’alba. Sui ponteggi c’è umido
e freddo, ma nessuno può tenermi testa.
In tutti i luoghi della terra, io sono un intruso.
Io non ho fatto altro che sognare
e nel mio sogno c’è posto solo per me.
Passo lunghe ore sulle colline che dominano
la città, dove il fiume fa una leggera curva.
Medito sulla voce del vento, sulla mia fragilità.
Sento la mancanza di tutto, sotto di me l’ultimo sole
fa scintillare il marmo delle chiese.
Mi piacciono certe piccole piazze solitarie,
piazze di paese dentro la città
dove tutto svanisce all’inizio
di una via più assolata.
Da un anno ho cominciato a scrivere le mie ore.
Scrivo per tenere a bada la morte.
La morte che è dovunque,
in cielo quando avanza l’autunno, sulla tua spalla
come un falcone da caccia.
Il Rospo non si ferma mai.
Dovrei forse farmi canzonare dai giovani del Borgo
che si approfittano della mia vecchiaia
per gettarmi in faccia manciate di sterco,
dovrei attendere la morte nascosto
in un angolo della casa?
La morte non ha bisogno di scale.
Il Rospo deve venirmi a prendere lassù sui ponteggi
e spero che soffra la vertigine.
A volte in cerca di pace, guardo verso levante.
Gli occhi vagano e i pensieri vanno lontano,
le colline sono così chiare al mattino, pulite.
Al buio ascolto il vento che frusta
i vetri della Sacrestia Nuova.
Io sono nato in giorni sinistri, dimenticami.
Dai passaggi più alti non vedo altro
che corvi che vanno e vengono e il suono sordo
del tamburo del cambio della guardia.
E le nuvole, ne ho dipinte di tutte le forme
in questi mesi. Le nuvole mi arruffano i pensieri,
corrono verso oriente, a volte bianche e gonfie,
a volte grigie e compatte, chiuse fra le linee
dei caseggiati. Sono stanco di me,
sono anch’io come una nuvola che si attarda
nel cielo più del dovuto.
Nuvole come fiocchi di neve,
nuvole che continuano a passare
e che passeranno sempre,
perché questo sogno non ha fine.
STABAT MATER
Si può scrivere di questo? Di un gemito che sale dal centro del mondo
e che nessuno è capace di nominare. E’ un evento incomprensibile,
come uscito dal fondo di un abisso. Mi dicono - è cemento quello che
tua madre ha nell’addome. Come se le avessero asfaltato il cuore.
E’ una bugia. Il suo cuore è sempre stato morbido, di crema,
spaventoso e ardente come quello di un amante che si è liberato di noi.
Si entra nella solitudine attraverso un lungo corridoio celeste
al profumo di fragola. Camminando si va così lontano
che il coraggio e la vergogna coincidono con me.
Ora ho una vita povera. Le tue scale si aprono su un cortile
assolato. Le lenzuola stanno ad asciugare. Il sole accende
quel bianco che non fa vedere più niente. Sono cose così.
Innocenti. Salgo le scale. Il cortile è vuoto delle tue risate.
Ingombro di gatti affamati. I bordi secchi delle garze
non nascondono niente. “Non ti fidar di stelle galeotte”
è solo sangue che sale al taglio procurato.
Il cielo non ci protegge più. Dalla balera esce un sincopato
“Non ti fidar di stelle galeotte”. Io non mi fido di niente
e di nessuno. I ragazzi più grandi non mi fanno giocare.
Fanno l’amore nei gabinetti della stazione. Io faccio la guardia.
Da ogni parte è il ’56 e siamo appena scampati
ad una nevicata infinita. La voce della Callas invade la strada deserta.
Io preferisco le lucciole sul greto asciutto del Magra.
Mia madre cammina lentamente. Ha un vestito bianco
nelle stanze del Giudizio. C’è ancora così tanto tempo davanti a noi
da vederlo arrivare come un treno in corsa lungo l’orizzonte.
Io ho appena imparato a leggere e a scrivere.
E’ il cuore che insegue il suo ritmo. E’ gelatina nel petto scavato.
Ha brividi perché è dicembre. Nelle vene acqua e zucchero
come la cena di un bambino povero. Hai un ago nella succlavia,
le solite banderillas. Mi vieni incontro su una sedia a rotelle,
una regina magra, provata dalla prigionia. Niente più regni.
Mai più. L’unghia del drago ti ha reciso il passato.
Posso ricominciare un libro, ogni volta, ma non più la mia vita con te.
Dormi nella morfina. Respiri piano, ogni tanto
un lamento come un delfino all’arpione. La fiala bollente
dell’ossigeno non fa rumore. Guardi il boschetto di castagni
-ho sete - mi dici , ma non posso darti da bere.
Dovrei riempire un bicchiere infinito. L’acqua non smetterebbe
mai di versare. Respiri forte tutta l’aria del cielo, un respiro gelato
che ti fa battere i denti. Vorrei metterti al riparo, da qualche parte.
Come se fosse solo grandine quello che aspettiamo.
Niente più di una buia notte di dicembre.
E se la morte non fosse altro che questa malinconia
che ti prende nel guardarti le gambe smagrite?.
Hai le palpebre d’acciaio, pesanti. Non hai più niente da difendere.
Sono rimasto io. Solo. A scrivere del tuo giovane cuore. E devo far presto.
-non ti sei riposato gli occhi nemmeno un istante - mi dici.
Il mondo si è inclinato su un lato sotto il peso del tuo semplice amore.
Ci sono nuvole di gesso che il vento strappa via.
Davanti alle stanze dei terminali c’è una ragazza che guarda
da un’altra parte, sempre da un’altra parte.
Lo chiamano l’acquario dei pesci perduti. Il luogo più distante
da ogni forma di vita. Con la cera nelle orecchie
prenderò il posto della ragazza - è qui che è passato l’orso cattivo -
diranno ai bambini dei tuoi occhi sempre chiusi.
Ora lo so. La vita finisce in piccole sevizie coperte dal rumore delle onde
se c’è il mare vicino. I bruchi attaccano le foglie nella parte più tenera.
E’ così. Sempre. Nel sonno ti agiti per il bisturi che incide un’improvvisa asfissia.
Com’erano grandi i tuoi occhi solo un mese fa, ora occhi smarriti
di balena consacrata ai bassi fondali da ramponi di magnesio
in un oceano d’acqua distillata. - che vergogna - mi dici -
hai consumato la tua riserva di grasso nel lungo digiuno invernale.
Mi chiedi di parlarti dei canditi nelle vetrine dei pasticcieri.
Nevica appena sulle colline già bianche. Ti lascio dormire.
Hai il diritto di finire il tuo sogno. Marzo rivela la sua prima dolcezza
con regali di poco conto. Io da solo salgo il fianco della ripida collina.
Tu sei in casa, ma non puoi vedermi. I colori volano via nell’immenso biancore.
Ora mi nascondo nell’ombra azzurra dove planano i falchi. Sotto di me
il vento alza la polvere degli ulivi che è verde e d’argento. Poi agito la mano
su uno sperone di roccia e tu finalmente mi vedi. Mi gridi qualcosa
che non riesco a sentire nella luce piena del mattino, poi scuoti la testa e sorridi
come può sorridere il cielo in un giorno di marzo.
Non dovevo lasciarti sola nel corridoio dell’ambulatorio.
Tremavi di paura - portami via - mi dicevi.
Ti tengono forte le braccia, ti aprono la bocca come a un eretico,
la gamba sinistra scossa da un ritmo di epilettico, i tuoi occhi smarriti
nelle folla dei pazienti, le chiacchiere sul tempo. Sei condannata all’asta delle flebo,
al tuo albero di natale - e se mettessimo delle candele colorate,
dei globi trasparenti sui ganci dell’asta? - diciamo insieme
nello stupore di ridere di nuovo.
Che non le manchi mai la carne rossa dell’anguria. E’ una bambina ribelle
che avrai tra le braccia, Signore. Ed ha paura dei tuoni e del terremoto.
Ti farà tremare perché dice sempre quello che pensa, è pallida, impaziente,
allevatrice di cactus e di mimose, non farle del male, le manca solo un po’
di glucosio ed alcune proteine, ha il viso scarno e stupito. In gola ha un tubo
di plastica che le impedisce di cantare. Le vene sono gonfie,
ma ben disegnate, ha una piccola piaga come una rosa sfuggita all’inverno,
da una rosa si comincia a morire. Fai ricorso alle tue pomate miracolose,
Signore, per me è lei tutto ciò che sconfina e tu le hai riempito l’anima di buio.
Gli occhi. Gli occhi dove non si legge più niente. Restano aperti.
Non hanno mai smesso di guardare una veduta di Copenaghen sotto la neve.
Cadrà anche da noi ed io ti parlerò dell’intera forma del bianco che circonda il frutteto.
Comprerò un mastino dalla grande giogaia per tenere lontani i saccenti.
Ti sfioro piano le tempie. Vorrei che tu dicessi - con la tua mano
mi hai liberato dal dolore - Dimentica ti prego questo sogno
dove dio vola sugli alberi per farli sfiorire. Mi crescono i denti -mi dici-
da quasi due mesi non mangi, vuoi che ti parli di capperi e di uova,
mi mostri i tuoi denti bianchissimi, di latte, che non userai più.
Molto, è vero, deve ancora finire, come quando si estingue una specie,
come se il falco scomparisse dagli atlanti di zoologia.
In pieno sole ti massaggio le spalle intorpidite. C’è un’agonia che sale
lungo le vertebre come una piena in corso. Due fiale di potassio per la notte. Frammentato. Ti tolgo le calze bianche da ginnastica,
ti distendo la vestaglia sui piedi con le maniche incrociate sulle ginocchia.
Due garze ripiegate con cura sul ripiano del comodino. Una luce celeste
sulla testa, acqua corrosiva che brucia il sonno, i miei passi pesanti
lungo i corridoi desolati, ti lascio inchiodata ad una delle tue ultime notti.
Stai morendo di sete. I pavoni impazziscono per la sete.
I facoceri sfidano i leoni nei rigagnoli. E’ nera la gola del coccodrillo,
nera la tua bocca bruciata. Mi indichi sulla parete una porta che non si apre.
Ti bagno le labbra con acqua di rose. Un coltello vorrei, per sbucciarti
come un fico, per toglierti via questa buccia verde, ungerti d’essenze profumate,
in questa pioggia di fuoco muovere l’aria che ti brucia i polmoni.
C’è ghiaccio dovunque si cammini. Si può pattinare come a Paperopoli
sulla crosta di un lago. Mentre subisci la terapia della sera Godzilla
divora l’aereoporto di Manila. Cosa c’è da spiegare di una donna
con le unghie di formichiere che si aggrappa alle sue ultime ragioni?.
Mater Dissanguata è caduta la neve sulle ginestre. Dal fondo dello stagno
è affiorata la tua voce. Una mosca si è dissolta contro il fondale d’oro del sole.
Come può scendere la primavera sulle antiche cattedrali ora che non ci sei più
nel nostro sistema solare. Anche le marmotte si svegliano dal letargo,
Mater Luminosa che appari ubriaca d’ossigeno, una lenta tempesta
che ci fa inginocchiare, una forma di valentìa, Mater Sospirosa che grandeggia
dentro un’azzurra vena, premurosa come una femmina d’orango, nel brusio
dei consigli, Mater Nubilosa per questo improvviso temporale che sale dalla terra,
Mater Desiderata, non sono pesci o condor, semplicemente vento che ferma il respiro,
bambini pescati con le reti in nome di nostra sorella Ariel mangiata dagli insetti alati,
Mater Sventrata dalle terapie, dalle dita di lattice amaro che frugano gli organi
fonti di siero e ghiandole, baci rubati nell’ ora delle visite, polmoni che si riempiono
di vento, Mater Operata per mancanza di liquidi e di luce
e a niente serve una tazza di brodo, un incoraggiamento sincero.
Si gonfiano le gemme della quercia, l’acqua crepita nelle vesciche dei rami,
l’orso strascica le sue ciabatte pelose. Sta per irrompere marzo
con i suoi riccioli di leopardo, con le tende di lino aperte sul mare,
Mater Gelata che non puoi più conoscere il tepore del camino,
sono uncini questi arnesi d’argento che ti sollevano come selvaggina,
Mater Smisurata che hai la sorte delle comete che cadono
sulle carte dei magi, Mater Capturata, ti alzi in piedi e mi confondi di nuovo,
Mater Soffocata il cuore si è rovesciato davanti a penosi sonagli,
in castigo mi hai messo, al dominio dell’acqua e della ruggine.
Sbrigati a pensare a me. Il fragore del tuono soffoca la voce della fisarmonica.
Ti stai gonfiando di glucosio, di glassa sono le tue lacrime, ti trasformi
in meringa, in marzapane. Muovi gli occhi come un camaleonte,
sei un cespuglio di salvia fiorita che attira le api.
Il mattino che abbiamo perduto la speranza non ci siamo accorti
dei delicati rami del limone. Ci avrebbe illuminato il cammino.
L’orina versata sotto il tavolo brilla alla luce viola, devono esserci degli iris
da qualche parte, stelle e aminoacidi. Non è facile respirare questo cielo
fatto dagli uomini. Un paio d’ore ancora in questa scatola per conigli.
E’ la notte del tuo ultimo Natale. Se tu potessi ancora camminare
saresti con le tue cartelle della tombola a combattere il sonno,
si potrebbe uscire con il cappotto pesante verso la chiesa ancora vuota,
appena un po’ allegri per il vino bollente, accenneresti Verdi
sulla schiuma dorata dell’organo, ma quando scende questo vuoto
di ragioni di premure l’aria intorno alla tua bocca si può muovere
solo con la frusta. Il cielo di questa notte di Natale si sposta indietro
verso bagliori, collisioni misteriose, abiti che cadono perché il chiodo
non regge come profeti e tiranni. All’infinito. Sbrigati a guardarmi
in questo vento che non smuove nulla nei corridoi di cartone e gesso,
senza orchidee, bambini. Sei diventata più solitaria qui, senza nome,
una spia. Sei la sei uno che scende dalle stelle con la sua aureola di plastica
piantata nel naso e nella gola, nella notte lieta dove si celebrano
i morti di sete, le iguane dimenticate dalla pelle ruvida.
Vedrai la morte arrivare davvero, quella morte che ci faceva tremare
leggendo, al cinema, nei resoconti di guerra, la vedrai arrivare, vera,
feroce, quella dei granchi, dei vecchi, del fagiano che cade
nel punto più alto del suo volo per insufficienza cardiaca.
E’ una notte chiarissima. Si vede la città come sul dorso
di una mano - ti ricordi quel libro- mi chiedi con gli occhi socchiusi-
forse di Molnar, non ricordo, sui pesci volanti?- uno spiraglio di luce
nelle orbite chiuse basterebbe a salvarti. Mi dici di sacchi di plastica
in gola a soffocarti il respiro. Un uomo si lamenta nella stanza vicina.
Grida forte. - Tra poco anch’io griderò così - dici piano.
Sei un boccone prelibato per il cielo. Ci sono giorni che non si possono
toccare senza provare ribrezzo. Cadono su di noi senza rumore,
ci aggrediscono alle spalle come i banditi o il temporale.
L’anno finisce nell’ombra che avvolge la nostra magnolia.
Sono stato un pessimo figlio. Solitario e ribelle ed ancora lo sono,
perché l’amore è violento, fa morire le deboli piante. Anche da te
ho dovuto difendermi. Ti ho fatto del male, spesso e a lungo.
Mi hai preparato allo scontro con pomate di miele e di curaro.
Per questo sono qui, fedele, a scrivere di te che la morte invade.
Sarà questa l’assenza, non poterti confidare un raggiro, una gioia,
non sentire più la tua voce al telefono - finalmente sarai contento,
è finita l’estate- Vorrei che tu potessi entrare
nel nuovo anno senza questo tuo passo di neonato.
Da quale pensiero si stacca lo struzzo bianco che t’insegue?.
-Aiutami a vivere -mi dici -massaggiami le caviglie, da non crederci,
sono di marmo- L’odore della tigre si sente da molto lontano.
Si esibisce senza applausi. La tigre ha il mantello di raso.
Abbiate pietà di mia madre in gabbia. Ha lasciato l’Africa per farsi curare.
Vorrei pregarti di smettere di morire in questo modo
mentre tutti si preparano ad uscire sfoggiando i loro vestiti nuovi,
le loro speranze. Con te si estingue una specie dolcissima.
Smetti di morire in questo modo come una foca distratta
che non si avvede dell’orca alle sue spalle.
Vuoi la porta aperta. Giorno e notte. Hai paura di soffocare.
Il vento la chiude. Il vento che non ha pensieri, che non si cura di noi.
Ti avessi abbracciato più forte forse ti avrei salvato, se ti avessi toccato
gli occhi con le dita avrei potuto difenderti.
Sei vittima di un insano incantamento che stritola la resistenza di un’anima.
Ti cercano il sangue. Sul dorso delle mani, nelle caviglie.
Ti vedo chiudere gli occhi per ricevere l’ago. In tutto il corpo.
Ti libero dal nodo dei tubicini di gomma, l’ikebana delle soluzioni
di destrosio, l’arte di disporre i giorni nelle vene annerite.
Il tempo è in bilico sopra la tua testa, sta per crollare
toccato dai tuoi lamenti. E ora l’altra vita, quella senza speranza.
Vorrei dirti ancora con la faccia di sfida-“ sto mettendo insieme
dei soldi per l’Honduras”. Penso che stai morendo come una cernia
nel basso fondale e che ogni giorno veniamo nel tuo acquario
a controllarne gli effetti. Una regina con il suo scettro di flebo,
incoronata di agli, con un’orrenda proboscide di gomma
che aspira un liquido verde in un sacchetto di plastica.
Una regina in vestaglia con le calze arrotolate sulle caviglie.
Ti massaggio i piedi per scaldarti il cuore, ti pettino,
ti aiuto ad indossare le scarpe. Te le allaccio
come facevi con me bambino. Ti racconto cosa succede
fuori da questo mattatoio. Non ho più paura.
Sarò il tuo cane da guardia, tenero e feroce.
Perché non ti vogliono più. Sei il loro insuccesso.
Dalla finestra vedo delle giovani coppie camminare
nel morbido scintillìo della luce. Ma dove stanno andando
se il freddo ha smesso di far male?. Tu sei qui,
inchiodata e nessuno si ferma a chiederti un miracolo.
Ti ha catturata la forza di gravità, tiepida, come di sangue.
Ti spinge giù, tenace. E’ gelosa dei tuoi polmoni sani.
Stai già dimenticando. Stanotte resto qui con te - ti dico-
ti guarderò fino alla fine senza paura, senza distogliere gli occhi.
Rovescerai questi giorni che ti cadono dalle mani
-è questo che so fare -dirai alla morte - amare, tagliare le cipolle,
impastare uova e farina, ridere per sciocchezze, amare -
come si ferma la macchina del respiro? Sentirai la mia mancanza?.
Chi mi sorriderà, come fai tu stasera, con la bocca piena di sangue
voltandoti poi verso la finestra per non farmi star male?
Vorrei che non ti perdessi fuori di me.
-Non aver paura - mi dici e sul muro della camera si allarga
la macchia nera di quand’ero bambino dopo un piccolo incendio
di fronte al mio letto - Non voglio crescere più - ti dicevo
con la faccia nascosta nel tuo petto. Non mi volterò mai più
verso quel muro annerito. Ti allontani.
Hai grandi ali che sbatti senza rumore.
Sei più grande di ogni altro dolore e mi superi. Imprendibile.
Signore, dov’è la tua immagine antica in questi corridoi
indifferenti al mio vagare inquieto?. Hai generato il cammino
dei mostri ma ti sei smarrito agli incroci mortali.
Non ci sei in questi silenzi rotti dal pianto. Qui cresce solo il tuo disordine.
Qui si perde la tua linea antica, le tue piume d’avvoltoio.
La sua solitudine è il rodere del tarlo nella trave marcia,
è la pioggia di brace che ti cade sulle mani.
Questo ci hai imposto, Signore, una devozione senza speranza,
il profitto di questa morte in pieno vento, in questo termitaio
ci hai lasciati soli con la nostra vocazione all’eterno.
La tua luce cupa si è materializzata in viole, in vicoli ciechi, in lamenti,
io t’invoco ostinato perché tu spezzi loro la schiena, Signore.
Qui ridono, bevono vino mentre mia madre digrigna i denti
in prossimità del tuo regno se ne hai uno dove non si parla di vacanze
accanto a un corpo di cane digiuno invaso dal tumore.
Fai rotolare le loro statue, i loro capitelli che incantano gli idioti.
Io sono chino sul tuo viso, Signore, è verde come carne avariata,
non hai parole per lei che vomita sangue e stupore, almeno liberaci
dai nostri miseri teoremi, dalle nostre immonde gerarchie.
Che cosa sai di lei, della sua feroce bramosia di guarire,
di questa tragica sorte che ha sfigurato i tratti del suo volto?.
Mater scarnificata rendo omaggio ai tuoi grandi prodigi, per esempio,
cadere nell’azzurro con le palpebre chiuse o nel fiume
del tempo nostro senza un lamento, Mater disseccata oltre i nostri confini,
nello scempio che provoca la boria, Mater turbinosa il cielo fu creato
tutto intero e tu con lui con le sue molecole di vetro e di verità, nella schiuma regale
delle tempeste, Mater sfiorita e affannata sulla collina d’erica bruna
che non salirai più, il tuo respiro distinguo a fatuca dagli scrosci di pioggia,
in questa Waterloo la nostra storia si compie, Mater sospirosa
da dove ti nasce tanta speranza dolorosa?. C’è solo una trappola
di vetro e acciaio che si strofina al cielo.
Ti ho lasciata ai carnefici, straziata da questo inverno
che brucia la lingua dei delfini. Il fortunale ci ha investiti
lasciandoci sull’asfalto. Non c’è tregua. E’ la fine crudele
dei tonni nella camera della morte, con le branchie intasate di rabbia e di sangue.
Nostra Signora dei Reietti, nessun reparto ti vuole, indegna sei per ogni chirurgia.
Tagliano carne viva che può tornare in alto, indegna per ogni cura
perché della specie dei morituri che indugiano troppo sul confine della vita.
Nostra Signora degli esclusi, docile come i lupi di selva,
crocifissa alle prime luci dell’alba, in gran segreto come il maiale
accecato dai fari che non vede chi gli spacca il cuore
ed ha un destino di sale, d’acqua bollente il sultano del porcile,
davvero nessuno ti vuole Nostra Signora dei porci
sepolta nei calmanti, nobile e per sempre digiuna,. orsacchiotto sventrato, immobile
per abbronzarti di fiele, più alta e più pura delle gerarchie terrestri.
Tu che eri la grazia in persona mi guardi con gli occhi
affogati in una disgustosa gelatina. Ti bagno le labbra
con una spugna - come nella Passione - mi dici - vengo dalle strade
invase dall’odore marcio delle mimose e delle pescherie.
Sulla ghiaia del Taro lanci nell’aria una piuma.
La sostieni soffiando verso l’alto e tutt’intorno è Parma e cielo.
Come un calabrone la morte ti ronza intorno.
A volte te ne vai oltre la parete bruna, poi ritorni con gli occhi
sempre più opachi, con lacrime vischiose di un collirio velenoso.
Ti faccio la guardia come un mastino dominante.
Se io sapessi cosa fare per il tuo ventre di zolfo, se sapessi massaggiare
il tuo male, farlo lievitare fino ad esplodere in una nuvola di talco.
La morte ha assaggiato il tuo latte. L’ha tenuto contro il palato
come un vino novello. Ti cercava con i suoi segugi. Una bestia da stanare
e sbranare. La vedi arrivare con balzi di iena. Lo sapevi perché nel pugno,
senza farti vedere, hai nascosto il petalo di una margherita.
Dormi dormi mentre cadi nel passato, non c’è fuga passeggera,
dormi e ascolta un fruscìo di biciclette, c’è il carretto dei gelati,
il veleno nelle arterie, è la tua gonna di lana che trascini in fondo al buio,
dormi dormi che il tuo sonno non finisce come un bimbo che si arrende
al potere degli adulti, sono in piedi sulla porta della stanza
a contare il tuo respiro, dormi dormi che il silenzio già ti avvolge
e la nebbia si riversa sulle ultime ragioni, dormi dormi,
dolce Dori che deliri.
Ti avverto che te ne andrai in un luogo scuro e che ci sarà
un vento lentissimo che ti farà rabbrividire. Ti prenderà per mano
senza poterti consolare, nell’erba fredda sarai ed io non dormirò
mai più accanto al tuo respiro, alle tue meraviglie.
Le tue mani ora sono di nuovo innocenti, le tue mani
stringono una fiala di calmante, mi hanno difeso
dall’assalto del crescere e della polmonite.
-non aver paura, ci sono io - ti dico, ti addormenti
nello splendore del lenzuolo come distesa su petali di sambuco,
sogni di viaggi, di acque chete, di attori che recitano Marlowe
nel sibilo della tracheotomia. E’ la stagione dell’unicorno
che si nutre di rose e di tormenti.
I capelli sulla nuca rimangono sollevati alla maniera dei pavoni.
Con le spalle al sole dell’alba ora non compare più il tuo normale
alone di fumo e se guardi verso la luce della lampada
con il pugno destro sulla fronte la linea del polso s’interrompe.
-il figlio scrive - dicono di te - è sempre qui, cammina nel corridoio
avanti e indietro come in gabbia, lei è gialla, peggio del vaiolo
e parla da sola - Ricordi? Il perimetro del triangolo...in una vasca da bagno
che contiene cento litri d’acqua...non puoi stare seduta né in piedi.
-ha la febbre gialla - grida un bambino ai piedi del tuo letto.
Corre via impaurito. Il padre gli chiude gli occhi con le mani.
Non aver paura è una madre come le altre.
La malattia le ha asciugato i lineamenti, ma gli occhi
sono ancora di puro vetro.
Parli di tamburi, di sonagli. Benvenuta nel reame dei bradipi,
animali lenti e cerimoniosi sul filo dei rami, pochi metri al giorno
per non cedere mai, guardano la Tasmania con gli occhi di un criceto,
un bradipo nella stanza 6, lento, ostinato. Sono rimasto solo
in questo sommergibile che affonda, un’anima che evapora
come l’orina di un cavallo. E’ grazia che brucia. Non fa fracasso.
- Mi scoppiano i denti. Mi crescono in bocca come le zanne del cinghiale -
Ti osservano i cacciatori di teste, i visitatori che scendono le scale,
dentro gli ascensori, nelle ganasce della notte, vengono a vedere
le tue labbra nere, labbra come il dorso di una carpa d’oro,
mangime che ingrassa solo la morte.
Tu mi avresti salvato. Avresti gridato lungo i corridoi.
Non mi avresti lasciato solo, mi avresti detto - credevi che ti avessi dimenticato? -
ti guardo ansimare nel rumore della grandine, ti attraversano immagini confuse,
parli di lepri, di giocolieri, io sono già senza nome. L’arco si è rovesciato
e si fa buio sopra questa scorpacciata di tarme.
Tu mi avresti salvato solo con la magia della tua voce.
Stella del mattino dentro una nuvola che si solleva solo a pensarla,
nella fiducia solenne, nella polvere di Tangeri, eccitato dal nulla
e dai medicinali, protetto dall’albume di una donna, dalla sua bava
cristallina, stella del mattino d’Alfama, camminando a grandi passi, io,
traditore e ciarliero come un cacatoa, in una missione delicata, stella del mattino
a caccia dei mansueti, senza padroni che fai luccicare l’ebano degli altari,
con le tasche del cappotto piene di confetti, noi non abbiamo vaste praterie
dentro di noi, ma croste e amianto, stella del mattino devi rimetterti in piedi
e camminare come tu mi hai insegnato, un piede dopo l’altro
contando fino a cento, stella degli ultimi giorni, ti porterò via da qui,
tu mi hai tolto la sabbia dalle scarpe, mi hai difeso dal Grande Coniglio,
non ridevi se inciampavo nei miei lunghi piedi, è l’ora esatta
della stella del mattino quando nascondi la faccia dentro al petto
come un passero ed io non posso darti nuove giornate
docili alla pioggia, esposte alla speranza.
Ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,
la darò all’uomo bianco che le accarezzi il viso stanco,
che le bagni labbra e tempie, che le tenga un po’ la mano,
ninna nanna in questo buio fa paura anche la luna,
quando avanza primavera si va in cerca di fortuna,
dolci notti, dolci attese, il tuo viso di una volta,
ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,
la darò all’uomo nero che la tenga un mese intero,
ninna nanna le tue ciglia sono rade, questo tempo ha chiuso il pugno,
è lo scorrere dell’acqua, è il narciso che combatte,
ninna nanna dell’estate col suo passo di lumaca
dormi dormi che tua madre sceglie i tronchi per il forno,
ci sarà una torta bianca da mostrare agli invitati,
ci sarà tuo padre ancora dentro il lago dello specchio
e la grazia del futuro si è posata sopra i vetri,
ninna nanna è come prima nei suoi abiti invernali,
tutto questo è già accaduto ma ritorna se lo vuoi,
dormi dormi mia regina, soffia vento
questa nuvola candita, che se tieni la mia mano
questo grigio passerà, dormi dormi in questo buio
che è soave anche la pioggia, dormi dormi che mi vesto per seguirti,
come fanno solo i figli che non devono sapere,
ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,
la darò all’uomo bianco che la tenga finch’è stanco.
Mater intemerata, non dovrai più sfoderare gli artigli,
sarai la luce che sfiora la pioggia e scompare.
Le giornate si faranno più brevi. -sei a casa - ti dirò - apri i pugni
e mostrami le stelle che hai afferrato per me. Diventa docile al tepore
che ti bacia le tempie. Mater amabilis, non accade più nulla.
Qui non devi nasconderti. Il tuo incarnato non spaventa nessuno.
Mater admirabilis, niente può ancora farti del male, ad accoglierti
quasi un bagliore di cometa nel cielo notturno. Dietro ai vetri appannati
la città è scomparsa. E’ un lento crepuscolo da vivere, stella dopo stella,
nel più cupo fragore come si ammaina una bandiera contro un cielo nero.
Ti dico -guarirai, potrai cambiare pettinatura, comprarti un anello d’oro,
passeggiare. Come te ho mani appena cominciate. Noi siamo senza sforzo
oltre le cose lievi. Non sei più in nessun luogo. Sei svanita
dentro una nuvola di farmaci dai nomi dolcissimi. Lasciati andare alla magia
dello Zantac, alla fiducia nel Darinol, la tua voce è l’urlo di una bestia ferita.
Mi hai chiamato piano, con la misura che mi faceva crescere.
-non è niente -mi dici -vuoi prolungare questa tua nostalgia fin dentro la morte.
E chiudere gli occhi inzuccherati d’amore e il cuore si ferma
come finisce la carica di un orsacchiotto di latta. Senza tracce di risentimento.
Hai chiuso gli occhi e il tuo cuore si è dissolto
nel lago del tempo come polvere di vaniglia.
E’ venuto da molto lontano questo vento gelido
che avanza superando gli Urali, sollevando i torrenti
che trascinano fango e carogne. Viene dalla Siberia,
violenta le pianure foderate d’aranci. Non sopporto i tuoi occhi
senza luce, la bocca ferma nello stupore, riempita di cotone,
il mento sostenuto da due asciugamani arrotolati.
Così si trattano le bambole, i coccodrilli impagliati, i trofei di caccia.
E’ un dolore che lascia senza fiato. Sfioro le tue guance gelate,
penso a questo tuo cadere all’indietro per quanto dura il nostro cielo strappato
che cerchi di baciare ancora con le tue labbra bianche.
( Ho solo voluto dirti che ti amavo.
Gridarlo forte.
E’ tutto.)
FABRIZIO PARRINI
Docente di Storia dell’Arte.
Ha insegnato Drammaturgia presso la Scuola Comunale di Teatro L’Artimbanco di Cecina, del quale è tra i fondatori, dal 1995 al 2003. Nel 2003 fonda con Roberto Veracini, Eleonora Chiarugi e Michele Bracciali, il TEATRO DELL’ANIMA.
Nel 1995 pubblica la prima versione di UN CAVALLO NEL CIELO per le Edizioni Zephiro di Firenze, nel 1996 pubblica per gli OSCAR MONDADORI una scelta di poesie d’amore. Nello stesso anno esce CANTI PER LA SCENA edito da Loggia dei Lanzi di Firenze. Pubblica il poema CAM sulla vita della scultrice francese Camille Claudel nelle Edizioni Giacchè di La Spezia. Nel novembre 1997 pubblica UN CAVALLO NEL CIELO per RIZZOLI SONZOGNO di Milano. Nel 1999 pubblica il poema MARINA DAL PASSO DI COMETA presso VANNI SCHEIWILLER EDITORE.
Nel 2002 pubblica in VENT’ANNI DI POESIA un’antologia curata da Maria Luisa Spaziani e Mario Luzi per l’editore PASSIGLI.
Cura per la casa editrice BARBES di Firenze la traduzione e la presentazione della raccolta di poesie di FEDERICO GARCIA LORCA dal titolo IO PRONUNCIO IL TUO NOME , di FERNANDO PESSOA dal titolo INQUIETUDINI , FlEURS di Arthur Rimbaud.
Pubblica con R. Veracini IL CRISTO DEI POETI – Versi sulle quattro Deposizioni di Volterra per le Edizioni ETS.
Nel carcere di Volterra presenta il reading GENET in Volterrateatro 2013.
Nel marzo 2015 pubblica per le Edizioni Clichy - CARMELO BENE.Il Teatro del Nulla.-
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua