Angelo Santangelo
poesie da Screziature della porcellana, Le Farfalle, 2020
Prima del diluvio
Per perdersi e rinsavire
le tue fanfaluche neppure distraevano
l'epilogo del silenzio
l'attesa del diluvio
eravamo schiccheracarte scapigliati
resilienti, sparsi.
Per riaversi ed ammattire
resisteva l'umida fanghiglia
sulle nostre chiome
svernava il tempo maniscalco
sulle nostre selle
stantuffati, sparsi.
Per stringersi e fuggire
le mani deploravano la resa
tra le dita di pietra di un abbraccio
ammanettati, sparsi.
Per vivere e morire
sparpagliavamo cadenze e piume
nella stretta dell'urlo che svanisce
stralunati, sparsi.
Screziature della porcellana
ad Angelo Scandurra
Eppure non ti infrangi
esile creatura
di porcellana.
Luca Canali
Nessuna spia di sole
per viandanti su sponde d'acqua.
L'inizio disatteso, procrastinata la fine.
Solo forre e santini negli interstizi.
Chi può deglutire ancora?
Fabbri di chicchessia depongono
parole su seni di madri– guerriere,
forgiano spade e serpi per arte
o condanna.
Mentre poeti di porcellana
si squagliano al sole
e i loro dolori sono tesori
negli abissi.
Tacchi sull'agorà
Ma la piazza è morta, morta,
spenta: il dondolio delle nuvole
è sepolto sotto scarpe con il tacco
venti centimetri sovrappiù
decidui slanci
mani smaltate
scongiuri agorafobici
e Dio profanato con corni di stoffa.
Ma la piazza è morta, morta,
spenta: la calca è anonima
fucina di piombo rappreso
lo schermo è sguarnito
le teste svuotate
caldaia soporifera di manichini
diafana novella
in differita processione.
Ma la piazza è morta, morta,
spenta: non più agorà di uomini
bagnati da fuoco e semenza.
poesie inedite
In sordina e in posa
Nel balenio di luce
sorbito a sprazzi schizzinosi e lenti
l’imponderabile inverecondo assedio
ad alberi dai fusti cariati ed alti
noi, incamiciati, a penzoloni
su quattro volute di mosche
accerchiati dall’arsura.
Nessun sfavillio d’altri tempi
volo
nessun ricamato di farfalle
sentore o tatto.
Il fiato si libra sospeso, irreale,
quasi assente nel perimetro di sonno
che sigilla arrendevoli occhi e spazi.
Un assaggio di mela marcia
appena colta:
lezzo e grumo di buccia
nello schianto di fango
ed ossa sull’asfalto.
In sordina, come l’inciucio sibilato
da tripolari faccendieri in cashmere,
un adagio-omaggio di donna
dalle fauci di Cariddi ci ghermisce
con quella litania giunonica di sguardi.
È l’urbanità in una domenica
garbata di aprile che chiede il conto
con movenze ad uncino:
a noi, in posa, per una sculettata
profili silenziati
di incravattate girandole.
Davanzale di un segreto
Alle luci dell’alba affiora inatteso
e sono dune carnali sinuose: non bastano certosine
creature ad insabbiare disadorni capogiri
guizzi detriti
stagni cieli
gemme poltiglie
così appaiono calibrate immagini
dove il nero si fonde al nero
dove la sabbia diluisce l’acqua
ma un segreto
un sogno
allora cresce all’alba:
un sorriso a davanzale
su cui si poggia un mare
sconfinato di donna.
Mentre sei scalzo
L’invadente schierarsi delle foglie
mentre sei scalzo
e vorresti sporcarti di terra
a perdifiato.
Una silhouette irriverente
nuda e calzata
che guarda in te una sagoma in bilico
tra due limiti.
Una richiesta d’amicizia
rimasta intrappolata in uno schermo
perché non hai nulla da condividere
se non chimere e turbolenze.
Lo schienale planato in leggerezza:
i cuscini non raddrizzano
la curvatura materna delle scapole
in un sogno a mano aperta.
Angelo Santangelo è nato a Catania nel 1984 e risiede a Valverde (CT). Laureato in Lettere Classiche, è insegnante di materie letterarie e di attività di sostegno didattico. Ha partecipato ad “Isola Poesia”, promossa da “Interminati Spazi”, e ai cicli “Notte della Poesia”, “Rito della Luce”, realizzati da “Fiumara d'Arte”. Per le Edizioni “Le Farfalle” di Angelo Scandurra, ha pubblicato le raccolte poetiche Tra i boschi di Fauno assonnato (luglio 2012) e Screziature della porcellana (novembre 2020). Attualmente fa parte del Centro di Poesia Contemporanea di Catania.
Giulio Mazzali
Ogni volta che ammiriamo una perla dimentichiamo che è la cicatrice della malattia della conchiglia
Karl Jaspers
Alla vita (I)
Ti ho visto ancheggiare
e poi scantonare
Del tuo corpo,
della tua carne
non so più che farne
Stanotte abbiamo fatto l’amore
e chiodo nella terra battuta
non ho provato alcuno stupore
Stasera è tornata
Stasera è tornata. Dallo stomaco
è salita al cuore, lieve
tra costa e polmone,
ad incontrare il punto
in cui la frattura si compone,
in cui costeggio sulla soglia
il tempo nuovo - altro da ieri
e da domani, quando tu amara
non c’eri.
Stasera è tornata. Dallo stomaco
è salita al cuore, lieve e senza
stupore
La tua schiena immersa a filo
nella bianca lacca della sera,
il sorriso di mio figlio
, misura esatta
e tonda
di una vita intera
2 novembre
Non è diretto il cielo
della mia città, ma limpido
come la bellezza che obbliga
alla verticale,
come l’altezza
che stende intera
tutta la colonna vertebrale.
E m’accompagna meridiana
l’ascesi della strada,
nel giorno in cui soffici
al tepore
indugiamo sulla morte,
a non dimenticare
che il corpo –
e solo il corpo
è la dimora della nostra sorte.
Rassegnazione
Che hai – chiede lei.
Scrivo, compilo,
restituisco alla pratica
del gesto
il segno curvo
e insufficiente
della mia rassegnazione
Niente – rispondo.
È tutto come avevo immaginato:
le carte, il passato
un bambino mai nato
Convivialità
La convivialità mi fa
orrore
puntura
trafittura
orrore l’esotico
l’agopuntura
Grazie
Scusa
il gatto e le sue
fusa
Odori come
schiamazzi
Amo mio figlio ma
la convivialità
l’umanità
che senso ha?
L'autore è docente di lettere, recentemente (2018) Tempora è stata pubblicata da L' Erudita di Giulio Perrone.
MARCO BINI
"La storia del cane che tra gli anni Venti e gli anni Trenta a Tokyo si recava ogni giorno alla stazione per attendere invano il suo padrone - morto
improvvisamente mentre si trovava al lavoro - è molto nota, ma non di meno ha spesso stuzzicato la mia fantasia. Nell'immaginario popolare essa spesso trova la sua collocazione nel repertorio del
kitsch sentimentale, richiamando alla mente virtù come la fedeltà e l'amore incondizionato. Tuttavia a me ha sempre ispirato altre riflessioni. Ed è da questa vicenda che sono partito per ideare
Il cane di Tokyo, la mia seconda raccolta di poesie. In realtà la vicenda si consuma in una sola delle sezioni del volumetto, posta al centro dello stesso, dalla quale si irradiano altre sezioni
che le sono germinate attorno.
Pensavo che avrei realizzato una raccolta di poesie attorno al tema della coerenza. Una qualità che - volendo antropomorfizzarlo - al nostro cane non manca. Una qualità solitamente giudicata
positiva, ma della quale vedo le luci e percepisco le ombra, facendola diventare un tema interessante per costruirvi attorno un testo letterario. Mi sono ritrovato con un libro che parla forse
più di tenacia (una sfumatura secondo me nettamente differente), e ho imparato una prima lezione: in poesia viene prima la poesia, il tema, se proprio deve esserci, emerge spontaneamente.
Attorno al dialogo surreale tra una voce narrante/interrogante e il cane del titolo, ho costruito una raccolta con la quale ho inteso pormi, e porre a chi legge, domande sul nostro presente.
Domande non nuove, ma che ho rivestito della mia sensibilità di uomo del XXI secolo. Ha senso spendersi fino a consumarsi talvolta per essere artefici del proprio destino, specie in un mondo che
si rivela sempre più incontrollabile e dove tutto sembra deciso altrove? Che cos'è l'attesa: la virtù dei pazienti o una forma di resa incondizionata verso gli avvenimenti? Qual è la postura
migliore per stare al mondo?
Una raccolta che - come ha colto bene Alberto Bertoni nella prefazione - è essenzialmente allegorica, dove di umani ne compaiono pochi, e quando ci sono figurano ridotti allo stato di randagi
sulla Terra o come personaggi di finzione (alcune poesie sono dedicate ai protagonisti di film che amo). Una raccolta per la quale ho cercato di mettere a punto una lingua ruvida, che in certi
momenti si muove verso un'espressionismo duro e quasi pulp, ma che ha nelle accelerazioni liriche il suo cuore pulsante; ed è lì che risiedono la richiesta di senso e la domanda di riscatto che
innervano anche i testi che qui sono presentati. "
Marco Bini per Pioggia Obliqua
Il cane di Tokyo
Ore trascorse a mordersi la coda
contano, eccome: sono ore vita
comunque si declini la nozione
riguardo l’utile e il tempo perso
il da farsi, il già fatto e il faceto
movimento del tempo quando annoda
i fili incustoditi in un gomitolo
serrato che non si apre con le dita.
Il piede piega alla posa del cane.
Il richiamo è uno schiocco trancia-vento
altro che un angolo ampio in eccesso
non dispiega davanti alla paura
della bocca che mastica e va a vuoto.
Così le zampe si fissano a terra
le unghie – dure – si fanno radici.
Tue news in quantità arrivano, amico
evaporato in volo in una stilla
di stupore allo sprint per latitudini
cui la tua stella ha diretto la rotta.
Rinvieni in ogni dove come il radio
alle radici, dentro la rubrica
o nel vuoto tuo posto passeggero.
Lascia che sia ipermetro per dirtelo, se vuoi.
Hai mandato un’immagine in cui rotola
un livido di nuvola e s’avvoltola
il cielo proprio sopra il tuo balcone.
Un post dall’Armageddon ma è su quattro
lati il mare – chiarisci – che rigonfia
e gioca strani scherzi.
Anche l’Asia
fissata sulla mappa è come un’isola
ma si fa turbamento di distanze
e all’idea di addentrarsi capogiro.
Di una cuccia che a pezzi infradiciata
al lato del cortile sta cadendo,
del gioco che consente la catena,
di necessità fatta la virtù
più singolare; questo ti riporto
alla memoria mentre presagisco
all’altro estremo sotto i polpastrelli
un pre-pensiero cui non dai l’INVIO.
La deriva si accorda ai continenti.
Nient’altro che un rimpallo di materia
infinitesima e non sparizione
degli strati più zingari del mondo
si ottiene a insistere fino alla crosta
atomica dei piani; è il pianeta
che espulso per igiene fa ritorno
e generandosi ancora si addensa.
Dal panno al vento: armata di puntini,
un uragano in una bolla elettrica.
Spogliazione. A un profilo più prudente
il rasoio riduce delle guglie,
al formicaio ripiega le case.
Rattrappiscono i corpi e la memoria
si assembla per sfaldarsi. A galla, polvere,
dei flutti fino al fondale s’infiltra,
sott’acqua ricongiunge terre emerse.
Millenni di travaso e l’equilibrio
di un’unica palude dilagante:
in un sottomarino articolarsi
nostalgico dell’alba non c’è scoria
rimasta intatta al nostro dilavarci,
solo avanzi sommersi senza storia.
Con la sua ascesa prende il via il tramonto
di una stella o forse inizia con il suo non essere
stella ancora ma scintilla di fornello
che non avvampa divorandosi i dintorni;
ne viene poi un’altra che già muore prevalendo.
A testa in su è uno spettacolo plasmante,
allegoria scolpita nel timpano del cielo.
A poche spanne c’è la luna nel vapore
del suo latte che stenebra le tegole
lasciate a riparare letti sfatti e la terra
in sé stessa inabissata, fatta di ceramica.
Ad altezza d’uomo si propaga un nuovo
e ribadito ordine reale mentre a milioni
di chilometri brilla un primo innesco
di luminosità incalzante: assieme imparano
a splendere di una celeste pace di Vestfalia.
Necessita ai superstiti un firmamento da incolpare.
TORO SCATENATO
Il gioco non era divertente. Finivo con le scapole
forate dalle nocche e il cuore rimbombante
fuori posto ad ogni botta sempre di una forza
sopra la misura.
Nei gesti grezzo e nella vita
una palla di cannone sparata contro il mondo.
Cascasse pure tu solo per dispetto rimarresti in piedi.
Uno così contiene uranio sotto la sua scorza.
Un baffo di sangue, a volte la barba completa
una foto sul giornale e un nomignolo scadente:
altro non porti a casa dagli incontri
perché vincere è gloria e smarrimento, un pugno
alzato e la puntura sull’orgoglio che torna
a farsi sotto.
Giù non vai finché non avrai chiaro
se è tutto ciò che vuoi o se quando dici tutto
è per non dire che altrimenti vedi se ci pensi
solo il secchio fondo dove galleggia la spugna.
BUZZ ALDRIN
“Una magnifica desolazione”.
Il vecchio solito trucco, un ossimoro
scagliato ai limiti del sentimento
ma un centro al primo colpo quel gracchiare
intermittente, mito nel suo farsi.
Potrebbe uscirne a termini invertiti
il titolo perfetto per un secolo.
“Cosa hai provato all’aprirsi del vuoto
intorno, al trasmodare dei minuti –
gli chiesero – per primo raccogliendo
fra le mani un pezzetto di poesia?”
“Pensavo al giorno dopo e che un’occhiata
oltre il muro è un impulso naturale
che preme anche se alto e senza appigli,
che la velocità è stata fatta
per essere esperienza: si rimpiange
l’inottenuto non che un gesto superi
il pensiero” rispose, al quarto whisky.
Dal nocciolo elettrico del temporale c’è chi
ci ha scattato un’istantanea; si è tirato
il nero delle nubi sulla testa e ha fatto clic.
Di sorpresa ci ha colti nel bagliore
riassumendoci nei contorni e nel nero
di concavità e nodi sottraendoci spessore:
adesivi apposti su natura viva.
Sulla ghiaia erbacce portate dal vento sbalordisce
quanto siamo casuali e smontati a compromessi
confinati dalle spalle e sotto il peso dei capelli.
Vale allora un lampo a fare luce anche dentro
noi e l’aria compresi nello squarcio
ad attrarci gli occhi gli uni dentro gli altri
a rivelare quanto inerme è la pelle, e la pietra.
È una sera di quelle che l’indomani non sapremo
raccontare, l’attimo prima della bomba:
uno spavento al confronto è fosforo allo stato puro.
Eppure l’avevo scacciata, chiaramente mostrandole
come uscire; fece invece il suono della foglia
che friabile si frantuma nella richiusa pressa degli stipiti.
Cadde poi al riaprirli con un tuffo senza gloria,
un racconto consegnato ad un finale sbrigativo,
il nero-giallo rovinato ma ancora respingente.
La abbandonai. Un’offerta sull’altare in travertino
del davanzale al dio del caso o all’inserviente.
Provvide invece un elisoccorso della specie discendente
lungo un filo che non c’era a planare e a fallire
cento volte l’intreccio di zampette per una discordante
geometria da forzare alla ferrea volontà di vespa.
Questo è il punto – di una pietà moderna scriverebbe
il recensore pigro – in cui la giungla cede a uno spiraglio
da celeste assunzione a illuminare sfatto il fante
che sussurra “col cazzo che ti lascio” al suo compagno
gli occhi rovesciati nell’ultima fantasia morente.
Neanche quella volta mancarono il decollo, il ronzio
e il volo verso un gigantesco sole accecante.
RIPENSANDO A HEANEY
Se te la senti – e fìdati, si sente –
la carta avvolta stretta sopra i muscoli
guastarti ogni guizzo quando sbatti
contro il sabato e sfarsi poi in minuscoli
sforzi gli inutili ampere in accumulo,
prendi il volante e guida a capofitto
dove ogni curva alla via cambia il nome
e sali dove il cielo è un manoscritto
per il falco e i rami dopo il pioppo
del castagno e da sponda fa il crinale
allo scrivibile che si nasconde
fino giù all’orizzonte tuo mentale.
Da lì si vede proprio bene Modena
appena effondere dal suo respiro:
ne indovini le piazze nei collassi
in superficie e l’idea del raggiro
che fanno i fiumi a stringere e riaprire
la scheggia di pianura detta Emilia.
Scendi poi verso sera dolcemente
in folle: c’è un torpore che assomiglia
al cauto soverchiarti di un custode,
spicchio di sole in tasca, e c’è una lotta
con le ortiche fra i piedi pronti al salto
come le dita nell’acqua se scotta.
DAI VENTI AI TRENTA TRA GLI ZERO E I DIECI
Esorbitanti ne capitavano, incontenuti dai recinti
e altri che in un buco alla difesa il perimetro
eccedeva: gli anni si inanellano e non tornano
nel conto in diretta piuttosto collimando
al ricordo cui disporsi. Sereno, trattabile,
nei venti tra gli Zero e i Dieci ad urti
proceduti e scatti come evolvendosi una specie,
accerchiato dall’eccentrico mio espandermi.
Di frequente nella fronte si rovesciava il sangue
dal rischio manifesto spinto forte
che allo scrutarmi crollasse il sipario delle ciglia.
Ore per calmare il cuore e nello sbattere
il tappeto volante posteggiato sotto casa.
Sarà la vampa che si ossigena ammattita
a temprare o il bluastro sottotono delle braci
undicimila giorni dopo con la forza avermi offerto
l’aria il destino cui mi accingo o che già incarno?
Non sopito un indizio almeno nella cenere
lucciola preziosa la notte riorienti
un soffio attizzi e non sparpagli come stelle
ciò che ancora in qualche mia parte brucia:
mi faccia luce nel brancolare vicino casa.
da Il cane di Tokyo, Giulio Perrone Editore
Marco Bini
Laureato in lettere moderne all’Università di Bologna, oltre a scrivere poesie e traduzioni, collabora con l’organizzazione di Poesia Festival in provincia di Modena e lavoro come free-lance nel settore della comunicazione. Suoi testi sono apparsi sulle antologie La generazione entrante (Giuliano Ladolfi editore, 2011) e Post ‘900 (Giuliano Ladolfi editore, 2015). Nel 2011 è uscito il suo primo libro di poesie, dal titolo Conoscenza del vento (Giuliano Ladolfi editore), che ha ricevuto diversi riconoscimenti. Nel 2013 ha prodotto con Anonima Impressori di Bologna una plaquette in tiratura limitata, Posto unico. Poesia sul cinema. Nel 2015 è uscita la sua seconda raccolta di poesie, Il cane di Tokyo (Giulio Perrone editore).
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua