Siamo entrati in contatto con Enzo Siciliano anni fa, quando è arrivato a Firenze come Presidente del Gabinetto Viesseux, prestigiosa Istituzione culturale riconosciuta a livello internazionale. Ci siamo conosciuti grazie alla rivista Pioggia Obliqua, allora in edizione cartacea di cui eravamo i giovani redattori. Da parte sua vi era anche un sincero interesse per il lavoro che stavamo portando avanti e così è nata una simpatia reciproca che ci ha reso subito felici e immediatamente consapevoli che stavamo frequentando un uomo di profonda cultura e grande umanità. Enzo Siciliano ci ha donato consigli e suggerimenti di cui abbiamo fatto già da allora tesoro.
Con Enzo Siciliano
una delle voci più significative ed autorevoli del secondo novecento
Intervista a cura di Giacomo Trinci
Domanda – Delle due biografie da lei scritte, una è dedicata a un musicista (Puccini, Rizzoli 1976), l’altra a un poeta (Pasolini, sempre Rizzoli,1978;una ristampa è uscita in questi giorni). In che modo la musica e la letteratura sono entrate nel mobile gioco del suo sguardo di lettore insoddisfatto?
Risposta – Perché “lettore insoddisfatto”? Vediamo questo punto, mi incuriosisce.
D. – Non è una scrittura che si appaga di una compiaciuta mimesi con l’autore di cui si parla; si caratterizza,bensì, per una sorta di concorrenzialità che libera un margine di ansia. Non so, quando nel libro su Puccini, ad apertura del capitolo su Tosca, scrive della primavera romana, rifà e si mette…
R. – Allora la mia sarebbe una “mimesi”?
D. – No, non è infatti la pacifica riassunzione dell’oggetto; ne risulta una specie di lieve controcanto.
R. – Voglio chiarire una cosa. Se le mie intenzioni sono andate a segno, è che questa scrittura vuole essere conoscitiva. Non so se chiamarla controcanto; è uno strumento per poter sciogliere quelli che mi sembrano i nodi sia della musica di Puccini, sia della poesia e intelligenza di Pasolini, e del suo problema di vita. Non mi piace la parola “scrittura”. È stata gravata di troppa precettistica. Insomma, scrivo non per tentare una concorrenza in parallelo con gli autori che prendo in esame, ne’ mi sembra di scrivere “ a dispetto”; ma appunto per conoscere. Certo, con un artista è impossibile fare “fare due più due fa quattro”, o tradurre in un sistema sillogistico l’emozione che una pagina musicale, o di poesia, o di romanzo possono dare. Si tratta ,invece, di impastarsi di quella materia e di intuirne la dinamica. Per quanto mi riguarda, devo dire sinceramente che il ruolo di intelligenza e conoscenza della critica non sono portato a praticarlo indifferenziatamente. Per dirla con più semplicità: cerco di non scrivere delle cose che non mi piacciono o che mi sono indifferenti. Dico cerco, perché talvolta sono preso dalla curiosità di capire se questa indifferenza abbia ragioni che risiedono in me, se ciò che non mi piace è dovuto ad un ostacolo che io stesso pongo. Allora, mettersi a scrivere è sempre cercare di superare la soglia di una stretta soggettività; mi capita anche di mettermi in gioco con qualcosa che comunque mi è lontano. Nel caso di Puccini e Pasolini, le cose stanno su un piano del tutto diverso. Ho scritto Puccini perché in quegli anni la sua musica non era amata, non era intesa per la sua qualità e il suo spessore culturale; quando a me Puccini sembrava un musicista di tutto rispetto. Ma ho scritto quel libro anche perché Puccini, in parallelo a Croce, a Pascoli, a D’Annunzio, credo sia una figura emblematica di questo ‘900 italiano all’esordio; una di quelle intelligenze e sensibilità ( faccio questi quattro nomi non a caso), che spalancano le porte al nuovo secolo.
Fra tante contraddizioni e resistenze, dovute a una cultura, la nostra, che, per ragioni storiche, si trovava a vivere una certa afasia; questa compassione riesce a trovare spazio, voce, immaginazione, penetrazione di pensiero sia in Croce, sia in Pascoli, sia in D’Annunzio, sia in Puccini. Così ho scritto quel libro dedicandolo al più derelitto dei quattro; anche a quello cui è riuscito il colpo gobbo di essere noto in tutto il mondo, ma per motivi che ne tradivano, ne tradiscono la sostanza. Nel caso di Pasolini, ho scritto proprio per capire, anzitutto, che cosa fosse successo la notte del 2 novembre 1975; la mia intenzione era di ricostruire la notte all’idroscalo, mettendo in luce le contraddizioni della deposizione di Pelosi, e le analisi scaturite dalle perizie che portarono alla prima sentenza di condanna; una sentenza che,secondo me, ha posto interrogativi rimasti ancora senza risposta; questo porta a far sì che si romanzi tuttora molto sulla morte di Pasolini.
D. - Dunque, quello che più sopra ho chiamato il margine di ansia di ogni ricostruzione critica è motivato dall’impellenza conoscitiva che diventa il momento centrale; ecco, non tanto di ambiguità fra narratore e critico, come molti hanno detto, quanto di un lavoro creativo su persone libri, che trova in sé il genere di appartenenza.
R. – Le dico la verità, quando mi dicono che sono un critico accetto la cosa, perché appunto ho fatto tanta critica sui giornali, cercando sempre di poter vivere del mio. Non ho beni al sole, l’unico bene al sole che credo di possedere è un po’ la mia sensibilità, la mia intelligenza. Mi sento uno scrittore che fatica molto a mettere a segno le proprie pagine narrative, e che per lavorare ha cominciato a collaborare ai giornali. Non me ne pento, anche perché le riviste, i quotidiani, sono il sale di una letteratura; oggi non lo sono più; me ne rammarico moltissimo. Tengo in vita “Nuovi Argomenti” perché credo che una rivista, anche se limitata a degli ‘affectionados’, sia la sostanza di un ambiente letterario, il segno del suo esserci. Dunque, mi sono affacciato alla vita intellettuale italiana sul finire degli anni ’50, quando in qualche modo la critica militante andava tramontando. Allora, ho cominciato a scrivere di libri, di fatti culturali, letterari, seguendo la mia sensibilità, non preoccupandomi assolutamente di alcun metodo; se c’era una metodologia che sollecitava la mia sensibilità, a quella mi aggrappavo per quel tanto che poteva essermi utile a capire. Per esempio, i tre volumi della letteratura italiana che corrispondono al bisogno di costruire un universo letterario del tutto personale dentro il quale io mi potessi sentire a mio agio. Forse, ma questo credo accada a chiunque scriva, forse questa è un’insolenza: ma se non avessi fatto a questo modo, probabilmente non avrei respirato. Mi ricordo che quando, a metà degli anni ’60, dopo Racconti ambigui, pubblicavo il mio primo romanzo, La coppia, mi chiesero:”Ma insomma, lei fa il critico,il narratore,si decida”.
Io non ho niente da decidere, risposi. Perché secondo me, queste due attività non sono altro che le due facce d’una medesima medaglia; la medaglia è il mio sforzo conoscitivo nei confronti della letteratura italiana, delle modalità in cui la lingua italiana si è manifestata letterariamente, cosa, per me, estremamente importante. La tradizione è un materiale che poi, probabilmente, dentro di me si incenerisce, e forse si trasforma; ma il modo in cui si trasforma; ma il modo in cui si trasforma non ha per me alcuna importanza. Hanno scritto, intorno a Rosa (pazza e disperata), come si compensano in me l’amore per la musica, per il teatro, per il melodramma e la narrativa, o meta letterarietà; so profondamente che, per quanto sembrino eseguite su tastiera diversa, Rosa (pazza e disperata), La note matrigna, La principessa e l’antiquario, Diamante, o Mia madre amava il mare, sono suonate dalla stessa mano. Così la stessa mano ha suonato Puccini o La vita di Pasolini, e la Letteratura italiana. C’è un fatto, drammatico, per la cultura letteraria del novecento italiano: che gli scrittori pensano di essere dei ‘parvenus’ nella modernità. Nei suoi confronti si sentono in dovere di negare completamente tutto quanto sta loro alle spalle. Credo esattamente il contrario, e cioè che la modernità la si possiede se si ha la consapevolezza di un passato, un fascio di conoscenze a disposizione per cui si può affrontare la diversità da noi e l’avventura sapendo che armi si hanno in mano. Forte di questo, ho corso l’avventura che ho corso. Non ho polemizzato con i quasi coetanei del Gruppo ’63 per antipatia personale. Per esempio, ho moltissima simpatia umana per Angelo Guglielmi, e in un certo senso mi dispiace che non capisca certe cose che, a mio giudizio, dovrebbe capire. Mi dispiace, appunto, come se una persona con la quale ho una consuetudine intuitiva, credo di averla, abbia fatto buca tante volte, in tante occasioni. Dico Angelo Guglielmi perché, nonostante quelle che un professore di liceo potrebbe chiamare “gravi lacune” che ci sono in lui, di quel gruppo è la persona più dotata. Sì, Sanguineti è un grande professore d’università, altrettanto Umberto Eco; in più hanno avuto compagni di strada che non avevano niente da spartire con loro, come Manganelli o Arbasino; le famiglie si formano per caso. Ma Guglielmi è stato quello che della tentazione del nuovo cui accennavo ha scritto con una ossessività molto particolare, non trascurabile; però, probabilmente, se in lui ci fosse stata maggiore ricchezza di attenzione nei confronti di ciò che invece era portato a svalutare per furia, se ne sarebbe avvantaggiata la stessa dialettica interna della letteratura italiana di questi ultimi decenni, per lo meno la generazione cui Guglielmi ed io grosso modo apparteniamo.
D.- Mentre parlava di un modo così vitale, attivo, di portare la tradizione, avevo in mente un’affermazione di pasolini che, se non sbaglio, diceva: “strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione”.
R.- Ma certo. Farne un atto conoscitivo, un’arma di conoscenza per la diversità. Il nodo è tutto lì, il travaglio che la mia generazione ha attraversato è stato proprio questo conflitto con se stessi, nell’uso degli strumenti per affrontare quello che cambiava intorno, le lacerazioni che sono seguite alla fine della seconda guerra mondiale; anche le novità sul piano del conoscere, nel farsi forti di ciò che è stato. Se penso, tanto per fare un nome della letteratura italiana, alla vitalità che si sprigiona da una figura come il Foscolo, beh, insomma…Mi meraviglio sempre che le lettere di uno scrittore di tale carattere e forza siano ignorate dai ragazzi italiani di 20 anni. È triste. Ma se questi ragazzi leggessero quelle lettere, troverebbero un meraviglioso ritratto, molto spregiudicato, di se stessi. Queste son cose che nutrono.
D.- La tradizione cessa, quindi, di essere punto di riferimento esterno, fatuo si potrebbe dire….
R.- O accademico, lugubre, lugubre. Gli scrittori italiani, per i giovani che devono leggerli a scuola, sono un concerto di noia, qualcosa che provoca ripulsione, distacco, disprezzo.
D.- A proposito di epistolario, di questo nutriente modo di avventurarsi in una tradizione, ho letto tempo fa una sua raccolta di saggi, La voce di Otello, che contiene un capitolo bellissimo dedicato al grande poeta Salvatore di Giacomo, a quel mazzo di lettere che documentano il lunghissimo fidanzamento con Elisa. Sono rimasto meravigliato per quel modo non aneddotico, evasivo, di trattare il materiale epistolare.
R.- Vede, a me la letteratura italiana piace. Mi piace Torquato Accetto, Foscolo, mi piace La notte di Parini, le lettere di metastasio. Mi piace molto Imbriani. Penso che sia una letteratura molto ricca, piena di colore, avventura, sofferenza. È un paese difficile il nostro,perché,appunto, una cultura di parrocchia, dominante, che poi ha unificato questo paese, nel corso di tanti secoli dalla Controriforma in poi, ha creato un mito: quello della creaturalità, della semplicità, dell’espressione diretta della vita. Una grande stupidaggine, insomma. La complessità, la difficoltà che c’è ad esprimerla, sono valori che questa cultura di parrocchia ha negato. Mentre invece la letteratura si nutre di complessità, e per istinto gli italiani hanno evitato di impastoiarsi nella lettura, nella conoscenza di questa proiezione, di questa geometri riflessa che la letteratura offre. Così gli italiani hanno finito per non conoscersi, per non sapere chi sono, per non socchiudere lo sportello della loro cassaforte. Questo impoverisce il paese, lo rende preda di rivoluzioni inconsapevoli estremamente gravi.
D.- Si è parlato del rapporto con la musica, ma vorrei tentare di capire se esiste anche per quanto riguarda la pittura, un sistema di preferenze. Dico questo anche perché leggendo una sua frase, è possibile rintracciarvi quella cura ‘manuale’, da artigiano, quasi.
R.- Dalle parole, dalla sintassi che adopero lascio volentieri divorare sia pittura, sia musica, o letteratura.
D.- Per esempio, “di artigianato di prima qualità”, mi sembra che parli proprio Pasolini in un articolo raccolto in Descrizioni di descrizioni , dedicato a Rosa (pazza e disperata).
R.- L’autore di Rosa (pazza e disperata) era un giovane scrittore che ancora traduceva, dalla sua condizione antropologica di inurbato, di figlio di inurbati, in italiano; allora l’italiano mi sembrava uno strumento molto sonoro, da lustrare nelle punte più impervie che potesse offrire. Poi le cose sono cambiate; lo scrittore di Mia madre amava il mare è uno scrittore, invece, che toglie, che sottrae. Però rimane sempre quella stessa mano, che ha bisogno, sì, di nutrirsi di pittura, di musica; non per farne uno strumento meta espressivo, ma perché credo che questo sia il pane quotidiano per uno scrittore.
Pubblicato su Pioggia Obliqua n.5 , versione cartacea, giugno 1995