POESIA PROPOSTA
ANNA POLIN
poesie edite tratte da Canto Primitivo - partitura per tatto e voce, AnimaMundi edizioni, 2022
Non c’è tempo
ci sono le cose.
Il bordo del tavolo
la tazza bianca
il vapore.
Sono la mia carne.
Non c’è tempo, ci sono le cose.
Non ci sono i minuti
c’è il vincolo carnale dell’adesso
folle, della stessa follia della vita,
che un giorno non ci sarà più.
Con la tazza in mano
m’innamoro sempre del vapore.
Ho un corpo di terra
un cuore scarlatto
una voce di maceria e silenzio.
Un disarticolato suono ripete: voce, voce, voce.
Cuore e fango.
Rimbomba,
fa eco, fa mondo.
Di vimini è il pomeriggio
tu mi raccogli
mano che s’intreccia
mi piega
sono curvata dalla tenerezza
amore soffio
amore cesto
cavo in cui abiti
il vuoto che sono.
Io onoro il corpo
incrocio tra terra e cielo
mistico elaboratore
civiltà di cellule
eternità di adesso
viscera, scarto, visione.
Io onoro il corpo-incrocio
e le mie e le tue mani
unica possibilità
di fare terra e amore.
Lo chiamano temporale
fa lampo e spavento
ma io sto con la terra
non temo il buio delle nuvole
voglio la fecondità dello scuro
voglio generare
la sferzata d’acqua
il germoglio, l’animale che beve,
il bambino che ride, le scarpe nell’acqua.
Voglio essere pozzanghera di ogni cielo
ricevuto.
Oggi mentre camminavo avevo le ali.
Non erano mie
ma di una bontà più grande.
Piume e passi
del cielo sotto i piedi
strada del mio buio che ama il sole.
Vino e farina
Arrivi con la spesa. Hai preso il vino e l’olio nuovo. Disponi le cose con gesti millenari. Ci vogliono anni di carta vetrata per arrivare a un unico gesto. È importante aver guardato, aver taciuto, aver conosciuto l’olfatto di chi berrà il tuo vino. Non è la luna, il fuoco d’artificio, lo straordinario, che aprono l’anta dell’olio con un solo gesto. È lo scavo del vivere. Richiudi lo sportello e mi guardi. Siamo proprietari di tre-quattro cose, tutte pagate con la vita. La tua vita, la mia, fino a ora. Tu che arrivi con la spesa mi guardi appena. C’è discrezione per il nostro battito all’unisono, c’è estrema, profonda, cura.
Ogni cosa viva
È finito il tempo della saliva secca. Il tempo del ragionamento si spezza nella matematica di esistere, non c’è logica che arrivi al risultato. L’equazione non supera le linee dell’uguale, il risultato è vuoto, la carta bianca, la pagina a quadretti incensurata. Lo spazio bianco non conosce le addizioni, è diventata aritmetica di vertebre, scheletro che fiorisce, brilla e piange. Si commuove di essere il risultato incalcolabile, concreto come il pugno della mia mano. Puoi studiare l’essere umano, ne puoi misurare altezza peso e pressione, ma non saperlo è un’altra cosa. La carezza del mondo ha mani di silenzio e mille forme analfabete. Uno più uno uguale nulla. Niente è più intimo e adorabile di ciò che non è possibile sapere. Ogni cosa nuda è oltre le linee dell’uguale. Ogni cosa viva non perde tempo a calcolarsi.
Accanto all’Indo
Ho visto un albero illuminato dalla prima luce del giorno. C’era nei rami uno splendore così intimo da far arretrare. La corteccia illuminata conteneva il primo respiro di tutte le cose.
Anna Polin è laurata in pedagogia con il massimo dei voti, specializzata in pedagogia clinica e counselor. Inoltre la sua formazione include elementi filosofici essenziali del tantrismo Shivaita del kashmir. Ha scritto anche: Il musicista (Todariana Editrice, 1999; menzione speciale Opera Prima al Premio Nazionale Letterario Pisa 1999 e finalista premio Fenice Europa 2000), Pelle-Cielo (StreetLib, 2014) e Il dovere della madre (AnimaMundi, 2020).
Susanna Russello, fotografia di Roberto Boccascino
Timide informazioni:
la poesia di Susanna Russello
di
Alessandro Fo
Due anni fa un giovane che aveva frequentato un mio corso mi inviò per un giudizio alcuni testi di una sua amica che, dopo molta riluttanza, si era infine decisa a tirare fuori dal cassetto alcune poesie. Mi parvero, come gli scrissi, poesie di buon livello, rilevanti nel significato e robuste nella complessione. Ma non ho più avuto risposta e solo da poco, nel curioso carsismo della vita, questa ormai remota corrispondenza ha trovato un suo seguito. La riservata autrice delle liriche che ora propongo alla sempre generosa accoglienza della redazione di Pioggia obliqua, e all’appassionata attenzione dei lettori della rivista, si chiama Susanna Russello, vive a Roma, e per la prima volta si affida qui a una pubblicazione. Ha inviato in realtà solo quattro testi – accompagnati da un esperimento di maggiore ampiezza, intitolato Pianto rituale, accluso come ‘fuori sacco’ e, con la sua consueta ritrosia, più per riceverne una valutazione che non per divulgarlo direttamente. I quattro più brevi sono testi densi, che propongono esperienze forse comuni (Promemoria per Stachanov mi ha ricordato il trauma provato da Carlo Emilio Gadda quando un agognato e infine ottenuto gelato fu estromesso dai confini dell’io per colpa di un impertinente piccione), ma con quella cospicua risonanza che pertiene alla più autentica poesia. E non senza un pizzico di sapida ironia, nella fantasiosa ‘variazione’ di Metamorfosi. Il più esteso poemetto mi appare di notevole levatura, nella sua nobile, autentica, aperta e disarmata confessione di alcune difficoltà di gestione del nostro esistere, che colgono ineluttabilmente, prima o poi, molte persone sensibili. «Le Circi, le Cleopatre, i Lotofagi/ li hanno già inventati./ Toccano a noi i Baudelaire, gli Schopenhauer, gli Heidegger,/ le Nausee numerose e il Male di vivere./ S’impone a noi qualcosa di ben più gravoso:/ risolvere questi geni, portarli/ mentre pesano/ a compimento». La cognizione del dolore, proprio e altrui, rende difficile, giorno dopo giorno, sperare contra spem, riuscire a svincolarsi dalle tentazioni del torpore, dell’assenza – fino a quelle più maligne e perniciose del non essere, o anche solo dell’«annientare la vitalità odiosa della Vita». Anche se questo è «un segreto/ che non ci rende onore»: «No, non ci fa onore/ non voler sperare». Susanna tiene comunque, con fiera fermezza, la sua postazione, «adesso che l’ennesimo crepuscolo mi coglie alla finestra, adoratissima mia/ lente sul mondo, quiete della durata/ che almeno assegna un posto». E registra senza alcun compiacimento, ma con «pianto rituale» («“Desidero di piangere per sempre” urlai,/ pregai stramazzando in terra,/ velando talvolta col trucco, talaltra con trucchi, ma sempre/ rimandando») questo stato di difficoltà cui la costringe «l’eterogeneo/ che è la vita». Difficile da lenire, anche facendo ricorso alla poesia.
Susanna Russello nasce nell’aprile del 1995. Dopo gli studi classici, nel 2018 si laurea presso l’Università La Sapienza di Roma in Lingua e letteratura latina con una tesi sugli echi pindarici nella poesia civile delle Odi di Orazio e, nel 2021, consegue la laurea magistrale con una tesi in Ermeneutica della Scrittura sul tema della violenza sacrale della civitas politica nel De civitate Dei di Agostino. Oggi collabora come editor e redattrice presso alcune case editrici romane.
Forse era il limite del vestito corto sulle gambe
forse la missiva onirico-erotica
di una lontana notte sarda
ma il molle composto
dei nostri umori
ha creato i tropici
nel centro di Roma.
Bocche e occhi trasudanti desiderio
dal mantello umido
abbiamo regalato al mondo intero
nuovo seme
dal nostro incontro
come gocce in ogni interstizio se,
come dici tu,
“mi diffondo nell’ambiente”
ché si vede la mia forma nell’aria.
Noi causa
di questa magia erotica
ispiriamo un ciclone di ghiaccio ardente
ai Numi, alle loro collane di stelle.
È la purificazione dal miasma
questa, che ci coglie ore dopo;
su noi e su tutti si scaglia
dei nostri soli sudori la pioggia,
la nube sarcastica
e incoerente
poi ancella accorta, e lieta,
ci sollecita dall’infezione psichica
in cui ti aggroviglio.
Quando mi abbandono
è il sentimento del sole arabo che si annoia su balconi
in rovina
è quel connubio di sapori che non t’aspetti
zenzero e arancia
e anche una diroccata Valencia argillosa
o una Valletta ortodossa che si prepara,
lamentevole, alla Pasqua.
È il ragazzino in bicicletta che scorrazza per le strade di Napoli
e perfino la malinconia in musica
che culla l’Avana.
Quando mi abbandono è come una terra esotica
la vita diventa vera
perché è grezza
e tutto l’imprevisto sta in un solo cucchiaino – che assaporo
dal giardino ortogonale d’Occidente. Foglio squadrato,
te l’aspetti com’è: parla del rigore geometrico muto
e limpido
in cui s’inscrive un labirinto di siepi e zampillii
d’acqua, da sempiterne forme greche custoditi
e marmoree. Immobile verde, contegnoso rigore d’un Cristo
ch’è inarrivabile: è il tempo
ad assestare, decoroso, dei secoli la lunga catena
che tutto polisce e tra proporzioni
e prospettive
raffina ogni cosa.
Quanta placida calma.
Quanta noiosissima pace.
Quale Rinascimento in tanto lucido controllo?
Promemoria per Stachanov
Con inverosimile dedizione ed encomiabile tenacia un giorno,
in Sardegna, divisi nel piatto la pancetta
dalle linguine: tentavo (con non poca
onnipotenza) di trattenere del piacere
il massimo
sino all’ultimo momento.
Poi però, con arrogante ironia,
l’ultima linguina appena levata,
per un soffio di Maestro, d’un solo colpo
tutto in terra il saporoso bottino se ne partì
(il piatto si era fatto leggero).
Cosa insegna oggi l’arrabbiatura di piccina?
Differire il piacere non è cosa
da bambina.
“Scarta la carta, addenta la torta, canta l’estate!”
per una così avveduta saggezza, di tempo
troppo ne avrai.
Saggi sono i grilli che parlano, e le formiche
che prima lavorano, e poi
tutti quei bambini
per cui amore non a mano larga, da un ricco cestino
sempreverde, leggera e sciolta
era dispensato
ma dalla stretta fessura, e dal gesto
contratto,
centellinato con equilibrio economico
solo “a chi lo meritava”.
Così il piacere che allora non fu dono
s’ac
contentò un giorno di divenire premio.
“Se tu fossi un movimento artistico
decadente lo sceglierei:
il tardo-romano, severo sì
ma asiatico insieme;
e se del gotico sei la raffinata coppa
di gemme intarsiata,
artificiosa e complessa è la trama
della tua persona, siccome barocca.
Come due orecchini pesanti e ricchi
indossi oggi quel che non riesci a lasciare indietro
e quel che non puoi non cercare avanti:
il simbolismo sei, perché nulla nomina
senza chiamare altro;
e quando della più sincera affezione bruci
per l’oggetto più contraffatto,
e trattieni il brutto
per trattenere tutto,
hai l’eclettismo del postmoderno”.
Così rispose lo storico d’arte
alla leziosa domanda della poetessa.
Pianto rituale
È da troppo tempo
che dura questo letargo.
Se l’attesa, illusa, perdura
nelle ore trascorse intere a rigirarsi nel letto,
ancor più
in movimento,
stancamente il corpo tra i varia officia trascinando,
offende e indebolisce lo spirito.
Quante volte ho percepito d’aver senso,
che a una certa ora
s’accostasse un
“sono qui, sono qui per questo, vivo e desidero!”
e quel rimuginare spento, poltrito,
ho creduto estinto;
quante volte poi di nuovo
ho spento
quella scintilla,
perché più semplice è parso possederla
una volta ch’era stata raggiunta.
“Domani, come oggi, ma domani”
e poi domani non è mai stato
per altri dieci anni (almeno).
Quel rimanere fermi, cos’era?
Era il puerile incanto d’aver tempo? Avrebbe mai smesso?
C’era, nella pausa, un ricongiungersi a quest’Io
o era un allontanarsi sempre più da esso?
Perché quando si sta in letargo
vi è riposo
ma se il letargo dura una vita
è la morte.
Sempre ho giustificato però
le mie attese, di redenzione futura
biblica speranza;
sempre ho pensato che se l’anima non voleva
il corpo non avrebbe potuto.
Nelle mie tane – la conchiusa automobile,
il morbido letto e il buio ozioso, l’amico fidato – e
ancora – dallo psicologo eletto,
nella polemica sempre pregiudiziale, nello studio frettoloso:
nella comodità c’era
un languore mortifero
così putrido, e pur così necessario
alla sopravvivenza.
E così di nascosto ritengo
che se il vero è inarrivabile e ci esaudisce il verosimile,
allora la vita potrà lasciar spazio, con eguale amarezza,
al sopravvivere.
Così in quei luoghi e in quelle persone,
nelle affettività ostinate,
sempre ho succhiato avidamente
le poche gocce d’acqua – e pur bastavano
ma la mia pianta, ahimè,
non è cresciuta di molto: fa un’ombra
di poche dita,
la qual più che dar ristoro
lascia desiderare ancor più forte il riposo e l’oblio
e si accontenta, e si affievolisce
e sempre meno verde, pur viva, sopravvive
e sempre meno vigorosa, quando sveglia,
agogna d’addormentarsi.
Quando, con qualcuno, perdi il limen di te stesso,
è avvolgente e calda la membrana che vi racchiude ora entrambi;
non puoi, umanissimo,
pensare un sentimento del tempo, né par che ti venga chiesto.
Se prestassi attenzione, coglieresti il prodigio:
ecco come da due anime
viene a fondersene una
puro consumarsi infuocato
da cui avanzano dei resti, di cenere
cenere dell’io e del tu
(che più non servono)
e così gioioso è l’amplesso dell’uno
che abita nel cuore dell’altro
l’incesto senza tempo
che se al mondo una sola ultima notte fosse concessa
con lui, in quel groviglio ch’è già un rifugio
attenderesti alla morte
senza nulla pretendere oltre.
Ma qualora la Falce non vi cogliesse
e raramente ella giunge aspettata – guai!
Quanto strazio, come il parto,
ora dividervi,
lacerare la spessa membrana, imporre al neonato il freddo
e ancora recuperare la cenere sparsa, ai bordi,
la pena
di raccogliere le parti che, cadute,
non dovevano più separarvi.
L’inizio di ognuno
dipende
dalla fine dell’altro.
Ma se noi
non desiderassimo affatto
d’iniziare?
Infatti esistono mattine dal colore di neve:
in assenza di gravità
pesano i muscoli e parlano
i ricordi.
Non più distanza tra oggi e ieri:
oggi è ieri
che giocavo col padre sul prato, al primo sole.
In talune mattine non posso
permettermi un passo.
Mi hanno mangiato la carne
e bevuto energia, rotte le gambe
mi hanno vista andar via,
addormentarmi, per attendere
domani.
A novembre non vuoi, in genere,
esser salvato;
più dolce è il fluire del Lete nello stomaco
in quei crepuscoli ghiacciati, quando all’ideale
s’appressa, magnanima,
la dimenticanza di te.
Se qualcosa hai da chiedere:
vuoi esser lasciato lì, che nulla ti consoli,
sei qualcosa che non si vede
qualcosa
che non importa.
“Sempre ferma, sempre resta” è il ritornello per ogni volta
in cui un passo avanti significa andarsene.
E se è vero che andarsene vuol tradurre
il tradire, allora mai
migrerai e sempre protrarrai
l’addio
dacché conosci nelle ossa lacrimanti
tutto il terrore della vita
che dall’abbandono – sempre – incomincia.
Oppure, lo farai.
Ma le ossessioni, accovacciate, ti tacceranno d’avidità:
come Narciso sarai, come l’Inverno
che abitando solo se stesso
d’ogni altro ha paura
e nient’altro conosce.
Lascerai al gelo lo spazio
e al ghiaccio pungente e bianco
come roccia dura e sì resiliente
che neanche mille e un’estate ristoreranno
tanta algida Bellezza
così autonoma, così netta
che sa di scienza.
Sarai condizione d’amore ma,
ogni volta,
ripiegherai in te stesso.
“A tanto vale coprirsi”, dirai.
Aristotele e Hegel con anco,
chi l’avrebbe detto,
chi c’è più vicino (odioso desiderare
al posto nostro)
invero di romper le file suggerirebbero:
“Permani ancora, indugia nell’ordine così a lungo
da bramare il disordine”.
Lentamente, così ti piace,
tenterai allora – eccellente
nel tentare – d’occupare
quelle ore, eterne, di senso vuoto;
tenderai un piedino soltanto
al di fuori dell’antro, proverai a vestirti,
a concedere te al mondo:
Frenesia.
In quel turbinio d’intenti, di sagome
veloci, impazzite particelle
ancor più pesanti noi
senza talenti
avvertiremo fin troppo viscerale angoscia
di dissipare
vasta parte
d’esistenza
nel più cavo perdurare senza forza,
né scopo.
E chi non dovesse accorgersi
di più ancora, se possibile, ne soffrirà.
Non così lontano è il momento, per lui,
di contemplare il Niente Immenso:
non è forse la notte
il profondo di se stessi?
Nella baia maltese di Sliema era dolorosamente chiaro:
gettata nel mondo, l’altro brillava
io sprofondavo nel buio in cui fondo
non c’era e tutto si perdeva.
Terrore
tutto d’un tratto: non un gusto, non un sogno.
Quella notte fu uno schiaffo
indimenticabile.
E anche per lui, lui che se ne va in giro
recitando a tempo pieno l’occupatus
non diversamente.
Stasi inerte di un movimento perenne, stasi in movimento
di un perenne momento,
che sbiadisci il senso giorno alla notte
aggiungendo, dovrei debellarti? Potrei sopprimerti
con disincanto maturo e amaro? Con innocente indugiare ingenuo?
Sarai medicina o insidioso veleno?
Nell’infanzia ho creduto peculiare quello stare in attesa – qual vanto!
Scrutare, allerta, il resto cambiare
impressionistica dote e malinconica.
Appesa controllavo, mi fregiavo
del potere
di avvertire sotterraneo fluire, e mi specchiavo
in chi mi guardava, per ore,
non mi accontentavo mica di imparare solo me.
Aveva del dolce quel sentire
ogni cosa, mi faceva fiorire;
ero un’eletta e il Tutto Intero se n’arricchiva.
Rimedio sembrava – lo era? – ritirarsi
e lasciar così che il mondo prendesse colore di sé.
Io demiurgo, io c’ero
(era un’illusione o una promessa?)
Poi invece, a poco a poco
m’intorpidii tutta di quel languore prima
lezioso, poi narcotico
sino alle più onnipotenti scelte d’oblio.
Vivere da morti era già una soluzione
disciolta, languida come fumo poggiato su un vetro.
È lei, la perfetta pozione dell’immobilità:
Aurora bianchissima attende dell’amato il bacio,
intanto,
gioca (e si diverte?) alla bambina morta.
Non si contano gli exempla di chi – fortunato è colui
che vive nel mito – preferì il veleno,
ma troppo morale pesa oggi l’anima quando al cuore
impone il battito:
le Circi, le Cleopatre, i Lotofagi
li hanno già inventati.
Toccano a noi i Baudelaire, gli Schopenhauer, gli Heidegger,
le Nausee numerose e il Male di vivere.
S’impone a noi qualcosa di ben più gravoso:
risolvere questi geni, portarli
mentre pesano
a compimento.
Vi dirò un segreto
che non ci rende onore:
per tutti noi sonnambuli, un solo desiderio
accartocciarsi, piegarsi, come parassiti alimentarci
estinguere la luminosità del Bello, accecante,
annientare la vitalità odiosa della Vita.
“Desidero di piangere per sempre” urlai,
pregai stramazzando in terra,
velando talvolta col trucco, talaltra con trucchi, ma sempre
rimandando.
No, non ci fa onore
non voler sperare.
E adesso che l’ennesimo crepuscolo mi coglie alla finestra, adoratissima mia
lente sul mondo, quiete della durata
che almeno assegna un posto,
la silhouette è il segno che più mi somiglia, mescidanza incerta
che tutto uniforma
a far scomparire l’eterogeneo
che è la vita.
Ma quanto durano le ore
che presiedono alla fine?
Certo non da noi, non da chi è già stanco
(d’aver solo resistito),
la fine sarà stabilita, non
da chi non vuol compromettersi.
Noi siamo quelli che solo l’attenderanno,
gli incapaci del dono
i separati dalla vita
per cui persino l’abbandono alla carta è un Eden
che non fiorisce fiducia.