GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO
poesie
Dalla raccolta inedita “Dolore
minimo”
apparse sul n° 86 della rivista “Atelier”
dalla sezione “Cespugli d’infanzia”
La prima perdita furono le mani.
Mi lasciò il tocco ingenuo
che si addentrava nelle cose, le scopriva
con piglio bambino – le plasmava.
Erano mani che non sapevano
ritrarsi: mani di dodici anni,
mani di figli che tendono al cono
di luce – che non sanno ancora
giungersi in preghiera.
Mani profonde – come laghi
in cui nessuno verrebbe a cercare,
mani silenti come vecchi scrigni
chiusi – mani inviolate.
La prima scoperta furono le mani.
Ricevetti un tocco adulto che sa
esattamente dove posarsi – mani
ampie e concave di una madre
che si accosta alla soglia ad aspettare;
mani di legno e di fiori
di ciliegio – mani che rinascono.
Mani che sanno aggrapparsi anche
all’esatta consistenza del nulla.
*
La seconda perdita fu la luce.
La malattia mi tolse la vista
dei campi abbacinati dal sole,
la trama arsa e viva dei litorali
siciliani dei miei tredici anni.
Passai quegli anni tra i fili
di panni stesi divorati dal sole,
vasi sbriciolati di terracotta
dove steli di basilico e lavanda
si inerpicavano verso la linea
del cielo – quasi a raggiungerla,
a toccarla. La luce era tutto.
La seconda scoperta fu la luce.
Non la luce che accende i terrazzi
né quella che assottiglia le strisce
di costa, ma la luce delle case
al tramonto – che si mischia all’ombra,
la luce setacciata dall’intreccio
dei rami e quella che si schiarisce
a fatica dopo un temporale
– dopo un grave malanno.
Conquistai la luce intatta dei corpi
vergini – delle fonti d’acqua
perenni che nessuno sa.
*
La terza perdita fu il perdono.
Avrei voluto scusarmi per i toni
accesi verso il tuo non comprendere,
la rara gentilezza dei miei
quattordici anni quando parlavi
senza premesse. Ma la colpa
non era di nessuno: non era tua
che mi indicavi il corpo e mi dicevi
di stare attenta, che non sarebbe stato
facile – non era mia che non riuscivo
a perdonare il tuo insinuarti
maternamente tra pelle e nervi
a scovare tutte le incertezze, gli stalli
che a quel tempo non avevo.
La terza scoperta fu il perdono.
Quando fui grande abbastanza
per capire cosa volesse dire
essere madre, un perdono tondo
e commosso provai per te, e provai
per le altre donne-bambine come me
e lo provai per me, che tenevo
fino a quel punto il filo rosso dell’infanzia
e da un giorno all’altro, adultamente,
non tenevo più.
*
Una volta l’anno discendevo
a te, madre, d’autunno.
Tu mi accoglievi con foglie
tra le mani che disperdevi
al vento ad ogni mio arrivo.
Capivi, madre, l’ordine nascosto
delle cose – così quando ai miei otto
anni sussurravi “figlia mia”,
io ti rinnegavo tante volte
quante erano le foglie che svolavi.
“Siamo foglie d’autunno, figlia mia”
era il tuo unico, dolce monito.
Per i successivi dieci anni
discesi a te ogni autunno, madre
e ti vedevo, com’eri solita fare,
disperdere foglie e sibilare
tra le labbra nomi di donna
– nomi di figlia a me ignoti.
L’autunno dell’undicesimo anno
scesi a te, madre, ma non ti trovai più:
le foglie restavano ammucchiate
– non c’erano mani a liberarle nel vento.
Ti chiamai, sussurrai il tuo nome,
sciogliendo la verità in esso nascosta.
Quell’autunno al posto tuo,
in vece delle tue mani dispersi
le foglie, mi nominai al vento,
riemersi dall’inferno che mi moriva
in petto: fu così che mi arresi
al dolore dei nomi quando capii
che quel nome che andavi chiamando
era il mio, madre.
*
Accadde che le ombre della mia infanzia
si addensassero attorno al mio letto,
afferrandomi le caviglie, facendosi
strada sulle gambe, scivolando sul ventre,
intrecciandosi infine sul petto.
Si dice che le anime orfane
vaghino di notte in cerca delle anime
madri – a cui riallacciarsi.
Ma le ombre che sostano sui muri
sono abbagli di morte imprevisti
– ti si incurvano addosso
a bisbigliare la morte di un caro.
A quel tempo non mancò nessuno
– eppure le ombre continuavano
a rantolare una perdita.
Fu allora che compresi tutto.
Bisognava che io morissi
per strappare il mio tempo
fermo dai cespugli dell’infanzia
– che lo lasciassi riprendere
anche senza di me.
Bisognava che affidassi il mio nome
agli spiriti bambini del passato
per lasciare il posto ad altri cespugli,
ad altre infanzie, senza ombre.
*
Per anni ho provato a stanarti
dal doppiofondo umido delle mie
ossa. Sarebbe stato uno spremerti
via dagli occhi se solo ti avessi
trovata in tempo – invece è stato
un chiedere invano senza risposta.
Sarà che certe cose a quindici anni
non si possono ancora capire
– mentre tu in silenzio già strisciavi
nelle stanze disabitate
incorrotte del mio corpo.
Sarà che la voce interna fiorisce
solo a forza di strappi e toppe
mal ricucite – da lì sguscia l’anima.
Eppure seppellito sotto mucchi
di foglie secche un indizio c’era
– un debole presupposto
inavvertitamente esisteva:
il rifiuto del padre, il rigetto
della sua assenza – la sua voragine,
la preponderanza del ruolo
materno – l’ombra femminile
troppo a lungo riflessa.
Fu nel vuoto che ti conficcasti:
una scheggia di legno mentre
si chiudono le finestre
che sbattono sole al vento.
Fosti il compromesso da accettare,
la voce interna da nutrire,
la preghiera da salmodiare
in ginocchio. L’ultima toppa
sgraziata da ricucire – sul cuore.
*
All’inizio non ci piacemmo affatto.
Fu uno squadrarsi da lontano
come fanno i gatti di notte
gonfi e diffidenti – un po’ goffi.
Le prime settimane tu sedevi
in fondo alle scale e mi fissavi
con lo sguardo di chi porta con sé
un segreto che non si può dare.
Allora avrei voluto strapparti
la bocca insieme alle parole
che nascondevi tra i denti.
Mi negavi persino la tua
identità – tacendo tutte
le parole si facevano mute,
le attese slabbrate, le stanze
all’improvviso enormi.
In realtà volevi darmi tempo.
Mi avevi protetta per diciotto anni
ed io non lo sapevo – vedevo
in quei silenzi una minaccia,
una beffarda provocazione
a indovinare quale pensiero
mi precludevi, quale angoscia
mi risparmiavi – sbagliavo.
Così l’attesa era la tua.
Aspettavi da anni come si attende
la salute ai piedi di un malato,
come chi ha perso qualcuno
smaltisce il male sulle scale
di casa. Quegli occhi erano
una preghiera, un inno muto
alla rinascita.
Mi amavi ed io ti incolpavo il silenzio
– già sapevi che in quel silenzio
sarebbero germogliate
le verità più oscure. Più vere.
*
Sono una madre atipica, madre
di una figlia atipica. Ci sono
voluti diciannove anni
per partorirti, c’è voluta
la fragilità che prende
a diciannove anni, l’ansia
adolescente di mettere mano
dietro le proprie paure. Forse
se non l’avessi fatto allora
non l’avrei mai fatto – fecondarmi
per ridiventare minuscola
materia di un corpo universale.
Il tuo pianto – lo sento ancora dentro –
è la voce miracolosa dei morti
che sale muta dalla terra,
il verbo che salva, che scuote
il pianto intimo dell’animale
– hai mai visto una bestia piangere? –
che non dà strazio, eppure c’è
minimo, docile, conficcato.
E forse, figlia mia, sei giunta di notte
quando le ore non hanno volto,
né pianto, né ombra di nome
per mostrarmi che in ogni vita
c’è un punto esatto che cede
ma anche un punto, più occulto,
che resiste.
*
Al mio paese esiste una parola
nitida come un chiodo
un motivo che scongiura il male.
“Scansatini” è una preghiera,
un inno altissimo alla preservazione
di se stessi. “Fa’ che non accada”,
sentivo bisbigliare spesso
“Fa’ che non diventi così”, e poi
all’improvviso le labbra si serravano
e le parole assumevano un accento
arcano, quasi inviolabile.
Eppure gli “Scansatini, Signuri”
tornarono uno ad uno: il male
da scansare fu concepito tutto
nel mio grembo – ma non ci furono nuovi
spergiuri da formulare, parole
che annullassero parole, mani
da alzare al cielo per fingersi
inutilmente sorpresi, feriti.
Allora ci fu solo da sbrogliare
gli anni subìti, mettere a posto
le parole e liberare all’aperto
quello che a mani giunte si temeva.
E quel mostro che in tanti anni
avevo allontanato, fu assai più
docile quando, abolite le catene,
lo presi infine per mano.
Testi inediti
dalla sezione “Cespugli d’infanzia”
L’altra nascita portò con sé
la distanza degli alberi
– la verde solitudine dei tronchi.
A noi parve – per così tanto tempo –
di non toccarci mai, mai raggiungerci
– per quanto ci protendessimo
l’uno fra i rami dell’altra –,
mai poterci dolere con foglie
solamente nostre – e che la tempesta
non rendesse indistinguibili.
Ci vollero diciannove anni
per prepararsi alla rinascita,
per trasformare la distanza tra noi
in spazio vitale, il vuoto in pieno,
il dolore in malinconia – che altro
non è che amore imperfetto. Aspettammo
i nostri corpi come si aspetta
la primavera: chiusi nell’ansia
della corteccia. Capimmo così
che se la prima nascita era tutta
casualità, biologia, incertezza – l’altra,
questa, fu scelta, fu attesa, fu penitenza:
fu esporsi al mondo per abolirlo,
pazientemente riabitarlo.
*
Baciai la terra quando seppi
che non eri più solo un’ostile
probabilità – e benedissi le ore
di struggimento in cui apparivi
imprecisata sulle pareti di casa
per un istante e sparivi.
Allora avvolsi il ventre con entrambe
le braccia, indicai il centro
della pancia – come a dirti che quello
era l’unico punto da cui
potevi arrivare – e nessun’altro.
Senza saperlo, ti fui già madre.
E quando le mie scelte furono le tue,
quando i tratti tuoi si sovrapposero
ai miei, vidi quella fragile natura
aprirsi, e radicarsi, e consolare.
Di tutto quel fondersi violento
capii che darti spazio non fu
annullamento né mutilazione,
non fu rinuncia, non negazione:
fu cederti lievemente il passo,
farmi fiaccola della tua luce.
*
dalla sezione “La traccia del passaggio”
Anche l’organo ritrovato
è una ferita che si apre in verticale.
Il vessillo di un corpo-bosco
che muore e rinasce a pezzi.
Ho imparato l’arte del mettere
da parte – giorni, anni, parti
del corpo in disuso, nomi, mani.
Trattenuti in un solo posto.
Li ho liberati con quel taglio
che si protende da parte a parte
– un parto che si compie dormendo.
Ho vendicato, ho svuotato,
qualcosa ho perso, ho ritrovato
ma due mani a volte non bastano
a richiudere i lembi. Due mani
che mimano nel vuoto quello
che appariva un tempo
a volte non sono abbastanza.
Così anche l’organo ritrovato
è una ferita.
*
dalla sezione “Dolore minimo”
L’altra notte, sai – adesso ricordo –
oltre l’amore paziente che mi hai dato
c’era qualcos’altro. Tu forse
non ci hai fatto caso. Tu pensi
forse che due corpi non abbiano
altro da darsi che i loro corpi.
Ma l’altra notte – ne sono sicura –
c’era qualcos’altro.
Non so come l’avessi proprio tu
quello che in vent’anni andavo cercando.
Perché proprio tu e non un altro
– così caro verso questa carne
che a stento si riconosce –
ma per sbaglio nella tasca destra
dei tuoi pantaloni, prima di andartene,
appallottolato ho trovato il mio nome.
Ed è così buffo sapere che ti appartenga
prima ancora d’appartenere a me.
*
Non ho figli da dare – non potrò.
Non ho tube che si gonfiano
né ovuli da spargere per il mondo.
Non ho vulve da tenere fra due
dita – da schiudere tra le valve
delle gambe non ho niente.
Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,
a perlustrare con le dita questo
corpo imploso, risucchiato tutto
all’interno. Fuggito senza lasciare
tracce. E lui persiste a sfiorarmi
per trovare il punto che possa
dargli piacere. Che possa
consolarlo, farlo sentire uomo.
Non glielo dico, ma non c’è.
Eppure tutta questa sua goffa
illusione, quest’avventatezza
nel proiettarsi verso il dato certo
per un attimo mi restituisce
tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo
questa sera mi faccio donna.
Completamente.
*
Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribaltava e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi nei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di una natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.
A dirci che potevamo essere
chi non volevamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere.
Metamorfosi virgiliana.
Il Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto
di Alessandro Fo
Non so se prima di queste poesie, ovvero prima della rivoluzione personale entro la quale è scesa docilmente, di propria iniziativa, con tremore, probabilmente, e con speranza, Giovanna Cristina Vivinetto abbia mai scritto poesie indirizzate a sé stessa. Non lo so, ma provo a indovinare: non credo. Le poesie che leggiamo qui, infatti, sono sì rivolte a se stessa, ma a un sé che non c’è più, è chiuso nel passato e non è più recuperabile. Paradossalmente è questa separatezza che consente ora di rivolgergli un indirizzo poetico. La Vivinetto lo contempla da una certa distanza, con la stessa nostalgia carica di affetto con cui si guarda a una persona cara perduta. Molto ci lega ancora a lei, ma si è frapposto un diaframma – il perentorio diaframma dell’ineluttabile.
Sarà forse per questo che, quando la prima volta ho avuto occasione di leggere i suoi versi sulla rivista «Atelier», istintivamente mi è capitato di sentirli vicini alle Lettere di compleanno che Ted Hughes scrisse per l’ormai scomparsa Sylvia Plath. Vi tornavo a sentire la stessa accorata, pensosa, toccante ‘ricostruzione dei fatti’ a posteriori.
Ma l’unione spezzata che entra in campo qui è, se possibile, ancora più intima di quanto non lo sia un matrimonio, foss’anche quello che viene a coronare la più autentica e profonda storia d’amore. È un’unione che era «identità» – nel senso di «essere identici»: la stessa, persona, lo stesso io. Più uniti di così… Però quell’io nasceva duplice e scisso, e così si è imposta a un certo punto una scelta. Una trasformazione. I versi della Vivinetto sono il diario di quella metamorfosi: scrivono, dall’oggi, talvolta al (e del) sé di ieri, e talvolta anche al (e del) sé di oggi, inteso quasi come filiazione di una propria volontà che a un certo punto è entrata nella creazione, e si è fatta demiurgo della propria vita e fabbro della propria fortuna.
Questo fa sì che, sebbene l’autrice sia ancora molto giovane, le sue parole ci giungano con una maturità artistica già impressionante: la maturità risultante dall’aver percorso già ben due esistenze, e ciò che più conta, la dirompente crisi del transito dall’una all’altra, dalla morte di un sé che non poteva essere, alla nascita di un sé che lotta per realizzarsi nella pienezza. Di questo suo percorso impervio, fatto di risistemazione di tutti i rapporti, di riscrittura di nomi, documenti, connotati e anatomia, l’io-demiurgo tiene un diario, grazie al quale partecipiamo di un attraversamento esistenziale che di rado è dato sperimentare, e altrettanto di rado si registra in poesia.
Considerando la portata degli accadimenti, ero quasi tentato di sostituire «diario» con «sismogramma», ma lo impedisce il fondo di quieta convinzione su cui poggia tutta questa riscrittura di un destino: un senso di sereno superamento di tutti i drammi (o almeno i principali) in un porto raggiunto. Ed è un tratto che contribuisce alla levatura alta di queste liriche, insediandole nei paraggi dell’omerica epische Ruhe, cioè del pacato fluire di un imperturbabile epos. Ne scaturisce quel profilo di austero regesto, che tuttavia continuamente s’intenerisce, e dunque quel timbro risolto e malinconico insieme, così caratteristico di questa voce.
La migrazione dall’uno all’altro sé si è ormai compiuta, e, certo, in un complesso marasma di sconvolgimenti e di dolore, che solo per nobile understatement viene qualificato ora, nel titolo della raccolta da cui questi brani discendono, come «minimo». C’è un passaggio, nei versi apparsi in «Atelier» che mi ha profondamente colpito fin dalla prima lettura:
aspettavi da anni come si attende
la salute ai piedi di un malato,
come chi ha perso qualcuno
smaltisce il male sulle scale
di casa – quegli occhi erano
una preghiera, un inno muto
alla rinascita
E la rinascita è compiuta: luminosa, e tuttavia di quella splendida luce del pomeriggio che ritaglia i suoi ori intrecciandosi calda e invitante alle sottili lunghissime ombre. Un passato come questo non può non irradiare ancora i sui colori sul racconto di chi oggi, in salvo, si rivolge indietro a contemplare: ma il narratore ben ricorda che un giorno si è trovato – come, in Virgilio, Enea ai suoi compagni nel pieno delle sventure (I 202-3) – a confortare, fra sé, i suoi due sé con le parole «recuperate coraggio, e il triste timore lasciate;/ forse sarà grato, un giorno, il ricordare anche questo».
A.F.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Dottoressa in Lettere Moderne. Suoi testi sono apparsi sul n° 86 della rivista di poesia e critica letteraria “Atelier” e sui siti web “Poetarum Silva” e “Atelier online”. “Dolore minimo”, di prossima pubblicazione, affronta il tema del transessualismo e della disforia di genere.