Miguel Gomez
Grand Tour
2024
Cannes 77° Premio miglior regia
"Fuggo da una donna che mi insegue"
Il grand tour del titolo evoca da subito spostamenti avventurosi d’annata, promessa mantenuta fino all’ultima scena. E non basta, visto che quelli nella cornice del viaggio racchiudevano vagabondaggi terreni e spirituali, letti ora dal regista portoghese Miguel Gomez con sguardo visionario e con sincero tributo all’arte cinematografica. Si parte allora da Rangoon in Birmania nel 1917, dunque in un’epoca di amore per l’oriente e orientalismi trasposti di vario genere con luoghi, atmosfere, oggetti…. In due tempi ben distinti, mai in sincrono, vengono seguite le vicende sentimentali dei fidanzati Edward e Molly, disperatamente uniti e disgiunti sia per libero arbitrio sia per un fato magico e intrigante. Dalla Birmania il tragitto dell’inseguito e della sua inseguitrice prosegue attraverso Singapore, Siam, Saigon, Manila, Osaka, a concludersi infine in una Cina sospesa fra i fumi dell’oppio e antiche leggende. In portoghese non è un caso che la parola ‘destino’ abbia anche il significato di ‘destinazione’, di fatto ogni tappa nasconde le insidie di imprevisti assolutamente decisivi per lo svolgimento.
Ad una trama tutto sommato lineare si affiancano un necessario realismo e visioni altrettanto necessarie per lo spirito del lungometraggio, realismo e visioni che si alimentano a vicenda di pari passo con l’alternanza di presente e passato delle scene montate. Qui sta uno degli elementi più interessanti del cinema di Gomez, vale a dire il continuo passaggio d fra fiction e documentario, con le immagini attuali a colori delle capitali orientali e con quelle in bianco e nero 16mm come nelle vecchie pellicole inizi ‘900. Allora la finzione non velata del cinema, aggiunta alla magia degli inserti con spettacoli di marionette e figurine, si realizza in Grand Tour come solida narrazione di ombre e luci, di sogni costituenti un reale sfuggente. Tutto è proiezione instancabile. E forse la storia di Edward e Molly in tutti i suoi corsi e ricorsi è soprattutto rappresentazione della fuga costante tanto dal desiderio quanto dall’imprescindibile realtà. Finzione fa rima con illusione, è tipico della natura umana non desistere (la tenacia di Molly) al pari di riuscire a scamparla (la fuga di Edward). Comunque tutto resta proiezione instancabile, la storia privata nel cinema come il cinema all’interno della storia privata. Intorno fanno da suadente accompagnamento ora il ritmo frenetico delle metropoli ora il pacioso sentire della giungla e della foresta. La cornice narrativa viene fornita dalla voce fuori campo che ci racconta la storia, cucendone finemente scampoli e strutture portanti, una voce che prende in prestito la lingua parlata nella tappa in corso. Incontri e dialoghi con altri viaggiatori provenienti dal vecchio continente portano alla luce quanto Oriente e Occidente siano insondabili al cuore l’uno dell’altro. Si esplora e si tenta di capire, i personaggi anche si esplorano e tentano di capire/di capirsi. In prospettiva temporale e in prossimità culturale questa pellicola ricorda le suggestioni di Notturno indiano di Tabucchi, dove la ricerca di una persona si definisce come ricerca interiore. Attraverso vaticini, leggende, viandanti, abbandoni, esiti ineluttabili, Grand Tour è un film straordinario che ci avvolge e ci porta via.
Elisabetta Beneforti
PARADISE IS BURNING
(paradiset brinner)
Di Mika Gustafson
Svezia, Italia, Danimarca, Finlandia, 2023
Premio miglior regia sezione Orizzonti Venezia 80
Questa storia singolare trova il suo scenario eccellente in un quartiere operaio, con le sue sacche di scorie esistenziali e al contempo con un coraggioso adattamento all’ambiente. Ne sono protagoniste tre sorelle, Laura Mira Steffi, figlie di madre scomparsa nel nulla mesi prima e del tutto abbandonate a sé stesse. Allo sbando, si direbbe, eppure in qualche modo sistemate nella loro disordinata quotidianeità. Hanno i servizi sociali alle spalle con il rischio di un’eventuale separazione con relativo affido a differenti famiglie. Fine della sorellanza, di una sorta di autogestione di base, di una crescita fatta di rabbia e libertà. Assistiamo allora alla corsa di Laura contro il tempo per reperire una “madre-di comodo” fra la cerchia di familiari e conoscenti. Sarà una causa persa, visto che gli adulti si rivelano individui anaffettivi, irresponsabili, falliti, vigliacchi. La regista Mika Gustafson svolge Paradise is burning in modo dissacrante e seguendo una direzione anarchica e frenetica, a metà strada fra il documentario e il racconto onirico. In altre parole, il cinema si fa poesia contemporanea come si vorrebbe frequentare: una voce forte senza compromessi di linguaggio. La vita delle tre sorelle viene scandita da alcool e sigarette come principio di non adeguamento a qualsiasi legge, furtarelli compiuti per necessità, intrusioni nelle case altrui per festicciole in piscina dunque a riprendersi un’agiatezza che non posseggono. Ogni nuovo evento, che sia la fine della scuola o il primo ciclo mestruale o la caduta di un dente da latte, diventa momento celebrativo per la piccola tribù di ragazzine. Veri e propri riti di passaggio a sancire la continuità vitale, nonostante le mancanze affettive e sociali. Tutti i personaggi, i piccoli e i grandi, camminano su un confine labile e continuamente sfuggente. Niente e nessuno è destinato a salvarsi in Paradise is burning , neppure il dentino di Steffi buttato giù con un sorso di vodka. I vari riferimenti di luogo e tempo in cui è collocata la storia non sono esplicitati, in fin dei conti non pare questo l’importante per Gustafson. Conta molto di più l’avvicendarsi minimale e mai retorico dei fatti quanto dei gesti gratuiti che li mettono in moto. La cinepresa indugia sui primi piani (bravissime Bianca Delbravo e Dilvin Asaad), scorre in ampie carrellate, insegue fughe a perdifiato. Un respiro sommesso abbraccia questo notevole film fino dalla prima inquadratura, un respiro che significa pura sopravvivenza. Senza mancare un’incredibile delicatezza nello sguardo di Mika Gustafson, assolutamente privo di falsi moralismi.
Elisabetta Beneforti
Scyphozoa ( meditazione subacquea )
tre video still di Duccio Ricciardelli e Marco Bartolini tratti dal video arte omonimo
La mattina del 5 settembre del 2019 ci siamo immersi a largo dell'Arcipelago Toscano con una telecamera subacquea go - pro ed un microfono impermeabile. Non siamo dei sub professionisti, ma semplicemente dei vagabondi della natura, dei videomaker in viaggio. Ci siamo imbattuti subito in un branco immenso di meduse, che sono diventate il soggetto di questo video installativo, nel quale abbiamo elaborato in studio il suono "profondo" del Tirreno. La medusa e l'elemento liquido, rappresentano per noi un momento di profonda meditazione sul silenzio e la lentezza del mare. Questo animale etereo ed impalpabile, ci ricorda la fluidità del pensiero e la purezza di quella mattina, immersiva, indimenticabile, inaspettata. Gli Scifozoi sono una classe del "phylum" dei Celenterati (o Cnidari) a cui appartengono le grandi e variabili meduse, più propriamente dette "scifomeduse". Le specie di Scyphozoa sono presenti sulla Terra dal Cambriano fino ai giorni nostri.
Il video è stato proiettato in anteprima a Livorno nel luglio 2024 – per “Medusa, La Gorgone” mostra internazionale di scambio culturale, ospitata a Villa Trossi, sede della Fondazione d’Arte Trossi-Uberti a cura di Rossella Tesi, Yuanqi Cao e Xue Rui.
Anno: 2024
Durata: 3 minuti
Genere: videoarte
formato: Mpg4
lingua: senza dialogo
IO NON SCENDO
Magazzino delle idee, Trieste
Mostra fotografica a cura di Laura Leonelli
Fino al 25.8.2024
“With the sky above me, the earth below”
L’albero è da sempre un archetipo di crescita e energia vitale, gli alberi posseggono una pienezza a cui possiamo aderire per sentire la nostra. È il destino delle foreste incantate, lungo secoli di credenze religiose e di elementi mitologici, non ultimi eccellenti riferimenti letterari. Per Cosimo Piovasco di Rondò salire su un albero, non scendere più e trascorrervi l’intera esistenza significa trovare la ricchezza umana attraverso un punto di vista differente da quello imposto dalla società: “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. La saggezza raccontata da Italo Calvino, pur distante riguardo a vari motivi socio-culturali, corre in definitiva parallela al concetto che muove questa mostra triestina.
Sintetizza già bene la cartolina di presentazione quando fa notare che nel corso dei secoli le donne, ferme ai piedi degli alberi come imperiture radici, sono state per lo più destinate a nutrire i frutti di esistenze altrui – padri, mariti o figli che fossero. Ad un certo momento le donne salgono sugli alberi, dal basso si avventurano verso l’alto.
Io non scendo raccoglie più di 200 ritratti di donne in posa su un albero, tutte foto di autori anonimi e di varia provenienza geografica come temporale. La simbologia è immediata: dall’alto fra i rami o sul tronco la visibilità risulta più ampia, tanto per favorire la conoscenza individuale quanto per liberarsi collettivamente di stigmi antiquati e patriarcali. Insomma, l’immagine in sé si fa simbolo dell’emancipazione femminile: “si rivendica il diritto di arrampicarsi sugli alberi, non importa quanto in alto, dal momento che già un metro è abbastanza per modificare l’orizzonte”. Il prezioso allestimento è all’interno degli ex locali-deposito del porto vecchio, recuperati e restaurati per accogliere mostre e rassegne di pregevole livello. La curatrice Laura Leonelli ha esposto fotografie dalla sua collezione privata, un archivio preziosissimo proprio perché composto di scatti che rimandano frammenti sparsi di vite multiple.
Questo “io non scendo” suona allora come un grido, come uno slogan importante, una dichiarazione perentoria dal tono asciutto e dal messaggio fortissimo. Le donne che scorrono nelle immagini in mostra sono bambine, ragazzine, donne sole o in gruppo; appaiono qua e là pochi uomini, più comparse che co-protagonisti. Sorridono tutte, qualcuna ha l’espressione contratta di chi sta pericolosamente in equilibrio. Assolutamente in posa, indossano abiti che segnano in successione la moda del loro tempo. Sono sedute sui tronchi, a cavalcioni o distese sui rami accoglienti. Gli sguardi sono sempre gioiosi e fieri da vari tempi e vari luoghi, arrampicandosi su alberi centenari o in via di crescita – poco importa l’età degli uni e delle altre ai fini del concetto che riunisce le foto in bianco e nero. Verticalità è disobbedienza già a partire dall’inquadratura, imprecisa spesso imperfetta come voleva l’analogico. Questa fragilità tecnica, insieme a nomi e date e brevi commenti posti sul retro delle foto, aiuta a raccontare una storia, più storie affascinanti.
Infine, a compattare e strutturare la rassegna fotografica, passano i tableaux – testimonianza di grandi donne e del loro rifiuto di scendere. Da Simone de Beauvoir a Voltairine de Cleyre, da Bianca Di Beaco, Tiziana Weiss e Riccarda de Eccher a Julia Butterfly Hill, e molte altre conosciute o sconosciute alle cronache. Come dire che il destino delle donne e la loro volontà di pensiero sono da sempre trasversali agli stati anagrafici. Tutte danno un contributo per il percorso delle sorelle.
La terra
sotto di me,
sopra il cielo.
Amy Lowell
Elisabetta Beneforti
“Kabul:
che odore ha?
In quante lingue sognano
I suoi abitanti?”
NUR – La luce nascosta dell’Afghanistan
Fotografie e testi di Monika Bulaj
Biblioteca Comunale di Lignano Sabbiadoro
Fino al 10/8/2024
Nur in arabo significa luce e in queste foto realizzate fra Kabul e Herat è la luce la sottile protagonista nelle pieghe di un quotidiano ridotto ai minimi termini, doloroso ed emblematico. Qui la luce spezza e scolpisce, definisce e raccoglie il momento riducendo un qualsivoglia spazio sentimentale. La luce spesso arriva come dal fondo di un tunnel, attraversa la scena in un suo punto particolare per creare un contrasto. Altre volte la luce si fa polvere, quasi a sottolineare la degna religiosità alla base di ogni azione, di ogni movimento. In questo lavoro la fotoreporter e documentarista Monika Bulaj offre il suo sguardo sul mondo afghano fatto di uomini, donne e bambini, di sunniti e sciiti, di nomadi Kuchi fra transumanza e accampamenti nelle discariche urbane, dell’etnia degli Hazara perseguitata dai talebani perché più emancipata. Senza tralasciare il corpo della donna, forse il vero campo di battaglia del paese. Dai fotogrammi altamente significativi scorre la città di Kabul, rifugio e capolinea di persone in fuga, colta nelle sue cento sfaccettature con gli inestinguibili nodi che legano i vivi ai morti. Scorrono le campagne e le abitazioni sommarie sulle colline, prima o dopo le inondazioni a tarda primavera. Scorrono le inquadrature degli adepti sufi, per i quali conta la verità della frase poetica, nell’allestimento vicine a quelle degli uccelli canori vietati dai governativi (una credenza radicata vuole invece che in ogni settimo uccello abiti l’anima di un morto). Di grande impatto è la foto dei bambini che ballano all’interno di una necropoli delimitata dal filo spinato, nella Kabul “attaccata al cielo con i fili degli aquiloni senza una via d’uscita”. Quelle raccolte nelle immagini sono tutte testimonianze di lacrime mescolate a terra battuta, umori e sudari di un popolo dignitoso nella sua povertà estrema e nelle spaccature socio-politiche, segno e segnale di una realtà complessa al di là di ogni spiegazione. Eppure, anche in mezzo a cieli grigiastri si fa sempre strada una certa luce a rappresentare gli individui nella loro vastità umana, fatta di volti e di occhi. Quel trucco nero pesante vale il mantello dei corpi, le sciarpe come cornice. In ogni immagine traspare una forte e sentita intensità narrativa, che attraverso i testi posti come corollario si amplifica profondamente. Fotografare per Monika Bulaj è anche una sorta di cura del soggetto, di pietà e preghiera sottesa a ogni gesto fermato nel ritratto. Così alla fine della mostra l’atlante di sguardi e gli appunti afghani ci accompagnano fino all’uscita e oltre. Hanno richieste, porgono riflessioni, si offrono gentilmente, in definitiva domandano solo di non scomparire dal nostro orizzonte.
Elisabetta Beneforti
IPERACUSIA
Un video di Duccio Ricciardelli e Marco Bartolini
Durata: 2' 15''
genere: sperimentale, video arte, mash up, performance paesaggio sonoro
Formato: Full hd Anno di produzione: 2022
Produzione: Videoartevirale
Con il termine "iperacusia" ci si riferisce ad un orecchio sensibile ai rumori e che prova fastidio anche per i suoni di lievissima entità. La causa è da ricercare in un'alterazione del sistema di elaborazione dei suoni a livello celebrale centrale, infatti l'orecchio risulta perfettamente sano.
Chi soffre di iperacusia, non ha nessun “super udito”, né sente meglio rispetto alle persone che non soffrono di tale disturbo. L'udito della persona affetta può essere normale. Ciò che differisce dalla norma è l'intolleranza ai suoni. In questo video arte Ricciardelli e Bartolini hanno elaborato in studio un "paesaggio sonoro" e lavorato sulla stratificazione dei rumori con un atteggiamento di "surrealismo sonoro" mettendosi in scena anche come performers.
Videoartevirale
A seguire nel labirinto
Following
Regno Unito, 1998
70'
Christopher Nolan (soggetto, regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, produzione)
International Film Festival Rotterdam, Tiger Award, 1999
Tutto comincia con Bill, giovane disoccupato aspirante scrittore alla ricerca di buoni spunti per un romanzo. La musa ispiratrice sono i volti nella folla londinese, non fa differenza il genere o l’età o la classe sociale. È sufficiente seguire qualcuno, osservarlo, prendere nota dei suoi atteggiamenti e dei suoi accessori. In questo modo Bill ruba quello che lo incuriosisce e riporta tutto sul foglio nella sua macchina da scrivere. Siamo dentro a un film di suggestione esistenzialista fino a quando la situazione sfugge all’ingenuo protagonista e da inseguitore diventa inseguito, adesso vittima di un vero ladro in una storia più grande di lui. Ribaltamenti continui di ruoli e identità danno avvio a un noir senza sbavature, dove la vicenda ruota intorno a un quartetto di personaggi (Bill, Cobb, la bionda, l’ispettore di polizia) con un finale che ne conferma la sagace “musica del caso”.
Following, primo lungometraggio di Nolan da lui scritto e girato quasi artigianalmente, si presenta da subito come cinema di idee e di libertà espressiva. Prodotto nel 1998, questo inizio di carriera esce solo adesso nel circuito italiano in copia restaurata e marca straordinariamente una distanza dai cast mozzafiato, dalle mega produzioni, dagli effetti speciali a profusione a cui il regista ci ha abituato in questi anni. L’impatto viene qui dalle varie storie dentro la storia, con salti temporali che valgono da incastri per paranoie e complotti. È il voyeurismo a costituire il motivo di fondo per il dramma che si va a consumare in una Londra sospesa nel tempo. Il curatissimo bianco e nero, il formato 4:3, la narrazione in blocchi privi di dissolvenza sono elementi congeniali a rappresentare svolgimenti inaspettati. Tanto nella scrittura che nella vita comune dei personaggi l’inizio è sempre un rito, una sorta di sottoscrizione di sani propositi qui vanificati o rafforzati dagli intrighi. Il gioco consiste nello spiare, sottrarre, mostrare, scombinare. Non servirà la confessione-denuncia al distretto di polizia da parte di Bill, anzi si metterà in atto l’ultimo lancinante ribaltamento, mentre l’impunito Cobb ritorna uno dei volti nella folla.
Tutti possiedono una scatola contenente piccoli oggetti e ricordi, paccottiglia spesso dimenticata in un angolo ma esposta al vezzo dei ladri. Scena di pura poesia quella iniziale di Following, che ci accompagna nella discesa agli inferi di un’opera prima da non perdere assolutamente.
Elisabetta Beneforti