LUCIA CUPERTINO
POESIE
Da “Il sentimento di Caino”
(inedito, 2008)
VII
È vero. Sono stata io.
Lo confesso qui in versi,
ma solo nel mio diario
memoria ne lascio,
ché obliata sia.
La fiamma della vendetta
in me scoccò quand’ella
aveva non più di quattr’anni.
Ero solita incontrare
di nascosto il mio amato
perché mai avrei osata
scontrare l’ira paterna;
pure quella notte si consumò
il nostro furtivo incontro
ma egli, alfine, spregiudicato
sino al cancello si spinse
a salutarmi con baci.
Stretti come serpe nelle spire,
ella insonne ci vide
(nel petto le era spuntato
un terribile mostro disse
poi raccontando l’incubo);
cercammo vanamente
di chiuderle la boccuccia
ma gridò «Babbo, corri!
L’orco ha preso Leillà».
Giunse in un battito d’ali,
l’occhio già al mirino
al grilletto già il dito…
Trafisse l’aria gelida
scaricando l’arma
per scaricare la collera
e un ululato grosso
si propagò e rauco.
Per punizione fui segregata
tre giorni a pane e acqua,
nello stanzone-macello.
Tre giorni tra le bestie
squarciate, grondanti sangue;
tra gli insetti impazziti
per il richiamo del sangue.
Per altrettanti mesi
mi fu negato uscire
e anche dopo mi sembrò
di vivere sotto scorta
ogni brano di vita.
Persi, persi per sempre
le radici spesse e profonde,
l’arboscello e i pomi tondi
e pure l’aprico terreno
che solo amore mi donava:
divenni zitella di professione.
Concrezione divenne
l’odio nel cuore di roccia
e occupai la mia solitudine
escogitando mirabile vendetta:
quella pura, cristallina
in cui alberga il raziocinio.
Mentre petalo a petalo
si sfogliava la mia età,
ella spendeva un aroma
selvatico ad ogni passaggio
tanto che a venticinque anni
s’indisse la sua sontuosa
festa di fidanzamento.
Sferrai l’assalto nei giorni
di indefessi preparativi.
Durante l’assenza dei nostri
(in città, credo per comprare
qualche altro inutile addobbo)
le proposi di levare
le tende, lavare le vetrate.
Sicché preparai un secchio
di bollentissima acqua
e quando ella più fu in bilico
diedi uno scossone alla scala
e di capo cadde nel secchio.
Per essere del risultato
certa la pigiai ben bene
e sentito il polso di battiti
assente, la sdraiai supina.
La tragedia del caso
scompigliò molti cuori
e la paterna tempra.
Vent’anni sono ormai
passati e pur deponendo
al suo sasso un giglio bianco
ogni giorno, non mi doglio.
Solo e soltanto di me
mi rallegro, perfetta
sì pure nel narrarlo.
…Prosit!...
Da “Sussulti oculari”
(inedito, 2012)
Riporti tronchi d’albero
dalle tue viscere
e frammenti, alghe,
camere d'aria...
Selvatica e scomposta
non potrà fino all’estate
non dovrà la cala restare.
Verrà il tempo degli spiaggianti,
di chi torna da Milano per i bagni,
dei forestieri e monopolitani
per cui imbandire la favola marina,
riempire di altri relitti
- ombrelloni, sedie a sdraio,
pedalò - la cala turistica.
Tra le larghe tue cosce,
o mare d’inverno,
non ci istupidisci
con simili bugie,
tu così viscerale,
tisico e maestoso
e di questo segreto
ci fai complici.
***
Rifluisci nelle vene, Storia:
il Sessantotto, Pedro de Alvarado,
il volto di servi della gleba,
le indipendenze africane,
le guerre del Peloponneso.
Sentire sottopelle
di quest'ampia Storia
le tante voci bisbigliare
e prendere poi corpo,
scalpitare e premere
lungo polsi ed arterie,
far ingrossare la carotide
di zampillanti storie.
Ma come ridire tutto questo?
Come agire in ogni chiaro
giorno per cui io corro?
Come, miei cari amici,
mie care piante, pietre
ed entità invisibili
di tutto il cosmo,
io bene non so.
Eppure spuntano
crochi negli asili,
ad ogni isolato,
in scialbe palazzine,
su panchine ansanti
di porti brumosi.
Per ogni donna, ogni uomo
un croco nuovo tra i palmi
e se domani un altro ne nascesse,
più umano sarebbe il mondo
ai piedi di se stesso.
Da “Antipodiche rive”
(inedito, 2013)
Se senti cantare tra le canne
è la mia voce il tormento
a far stormire la sera
è la mia voce l’intreccio
di sussurri e fruscii,
il fitto odore del ricordo
la tenue nebbia a calare
sulle sponde del giorno
a obliare orme e sentieri
a, radente, ridare passo
a cammini inesplorati.
Se senti cantare tra le canne
e qualcosa in te trasale
sappi che sono lì
dove l’onda non ha sosta
alla riva d’aperte acque,
sappi che sono lì
come àncora senza nave.
***
Nel clamore del silenzio
ho camminato e arso
una ad una le assi
divelto i cardini e i telai,
quante porte avevo innalzato
e quante altre assieme
abbiamo fabbricato.
Salvavano tanti chiavistelli
in un giro di luce
a doppia mandata già precluso?
Abbandono terre
abitate da una sicurezza
che solo mi asfissia di paura,
l'etologia del gesto che non cambia,
consegno tutto al movimento
al remo, ad ulteriori approdi.
Il vento innalzerà statue d'arena,
che sia,
la gazza litanie, gli occhi
la fluorescenza degli incontri.
Da “Mar di Tasman”
(Isola, Bologna, 2014)
Disfarsi di tutto
anche del sacco tiepido
ancora di abbracci
e solo come l'erba stare,
protendersi verso il sole
il dolce castigo d'acque.
In un mattino d'agosto
ci svegliarono aghi
negli occhi i raggi,
avevamo dormito sugli scogli
come il muschio lì abbarbicato
come tanti secoli in alcova.
A bracciate punta Ristola
a piedi la cima raggiunsi,
al colmo della gioia
per una conquista che non si saprà.
Nei tuoi occhi brillavo sirena
ma quel che contava era altro,
disfarsi anche di questa sembianza,
entrare nel palpito d'attorno.
***
Quant'è beffarda questa pioggia
a bagnare un incendio placato,
era a tanto dalla città, dici,
mentre sorseggi altro vino.
Affrancherebbe non sapere
ma qualche molla dentro
si muove e vuole sapere,
idiozia dell'uomo in divisa,
infili gli occhi nei miei,
qualche stupidità militare.
Insiste la fiamma sulle felci
che bordano le tue palpebre,
parli ancora ma la voce dissolve,
già caldo di altri pensieri.
In una Pompei che non fu
ancora s'infervorano le cicale.
Da “Non ha tetto la mia casa / No tiene techo mi casa”
(Casa de poesía, San José, 2016)
Cammino lungo strade acciottolate
avvolta in divagazioni ordinarie,
mi appari lì sul cornicione del cielo
arrampicato come stella sul punto di cadere,
il volto evanescente trema e urla
oscilli come gli alberi alti
al primo vento d'inverno.
Per molti sei solo un povero pazzo
una parentesi d'urlo tra gli acquisti
l'aperitivo lo sguardo allo smartphone,
qualche curioso attende sapere
se scriverai un punto sul selciato.
A me invece appari emergere
da un tempo mitico rimosso
a te stesso del tutto ignoto:
come quei voladores[1] messicani
svettano a venti metri dal suolo
su un palo di legno chiedendo pioggia,
questa sera predisponi il tuo rituale
elevando la tua petizione di dignità.
***
Dall’altra parte di questo nostro mare
ti hanno dato un death jacket,
la tua vita mica conta
povero illuso ormai disilluso,
va a fondo è scadente
non testato né omologato
senza amore senza cura confezionato
in fabbriche-bunker da altri sfruttati.
Quando fa lievitare la tasca
del compratore di anime
quando accresce di qualche corpo
questo cimitero di smorfie
eternate da gelide onde,
allora la tua vita conta.
***
La sua casa è calda accogliente
piena di modesti tappeti
il portone dipinto di mare
la scala a chiocciola ocra
dal balcone s'intravede
la deserta libreria di quartiere
e in cucina c'è del makdous.
Tutto è sobrio e sa di pace.
Sulla lavagna qualche parola araba
della lezione appena conclusa
spiegazioni con caotici segni
parti appena cancellate
il foglio stropicciato e rotto,
così è la Siria, mi dice
incrociando grave il mio sguardo,
un cumulo rosso nero e grigio
qualche insegna in arabo
ad indicare strade che non esistono più
tende stropicciate tra mobili a pezzi
e tazze di tè con zolle di calcinacci
mani mozzate a non sostenerle.
***
a Silvino Talavera
Un ronzio metallico d’aereo
vola basso sui campi al tramonto
fino ad atterrare sul cuore,
questa notte non dormo
mi giro e mi rigiro,
senza sosta ormai.
Il vento agita le palme
e sospinge di qualche metro
una lattina sul cammino,
c'è anche uno zufolio sordo
che non so interpretare.
Il vento agita le palme
e porta un canto di glifosato
a depositarsi sul petto
a cancellarmi il respiro.
***
a un guardiano del bosco
Quattrocento querce mi corteggiano
in una danza di selva venti e liane
questa notte solo mancano ali di colibrì
per librarmi in cima agli alberi.
Quattrocento gli echi nel cuore
quattrocento o molti di più i morti
su questi monti dormono,
maturano lentamente
coperti da un sonno di abusi
accumulati in forma di foglie,
sono stati quattrocento i colpi
di machete fucile coltelli
quattromila o quattro milioni,
chi ha tenuto i conti?
E abbattevano giovani afflati
abbattevano la rugiada del mattino,
anche il verso dell'uccello alla luna
ancora ripete il grido di donne abortito.
Ma tu un k'atun[2] fa hai lanciato semi,
hanno resistito a tutti gli assalti:
quattrocento querce mi corteggiano stanotte.
***
Non ha tetto la mia casa e neppure pareti
le finestre sono pendii il pavimento guadua
[3]
il tappeto è un velluto di felci.
Non ho chiavi né serrature
perché la mia porta sono alberi
e si aprirà con gli anni, restando
a decifrare i segreti del bosco.
Non ho neppure una sveglia,
all’alba lo svolazzo di un colibrì
muove le lancette del mio orologio interno
ma se ho voglia di trattenermi un po’ di più
non c’è ufficio che mi aspetti o incalzi.
Nella tasca non accumulo facce di carta,
ieri notte ci ho trovato semi di corbezzolo
notte di un sogno al bordo del sentiero.
Molte cose non ho e neppure voglio avere.
Come tornando ad essere partorita
oggi nelle acque della cascata seguo
il flusso delle foglie in mulinello.
***
Questa mattina il cielo irriga la terra
possiamo riposare coperti da un albero
far crescere un ramo di pazienza
lavare la tunica di pensieri
logora che c'ingombrava
smacchiare le distanze
bere anche qualche goccia
rigenerare il serbatoio dei sogni
poi abbandonare il riparo sicuro
indagare curiosi se la terza sorella
[4]
è germogliata sul dorso del declivio.
È tempo di sostare
osservare le nubi transitare
sorpassarci e correre ad altre vallate
smettere di ripetere i naufragi dell'inerzia
lievitare come il cielo nuovi parti.
[1] Riferimento alla danza rituale dei volatori che avviene su un palo alto una trentina di metri, tipica di alcuni popoli indigeni del Messico.
[2] Un ciclo del calendario maya, ovvero all’incirca venti anni.
[3] Genere di bambù neotropicale il cui diametro è molto ampio. È presente ad esempio in Colombia, terra in cui è ambientata questa poesia.
[4] Antica tecnica agricola del Nord e Centro America, prevede la coltivazione congiunta di mais, fagioli e zucche. Le tre piante si sviluppano collaborando in modo positivo tra di loro e sono la base di una dieta sufficientemente completa.
LUCIA CUPERTINO
Antropologa culturale, poetessa e traduttrice. Ama anche mettere le mani nella terra e sta cercando di apprendere agricoltura naturale e strumenti della transizione culturale. Scrive in italiano e spagnolo e suoi lavori sono apparsi in riviste italiane quali Nuovi Argomenti, Fili d'aquilone, Irisnews, Versante ripido, Sagarana, Carmillaonline, Le Voci della Luna e internazionali come La otra, Círculo de poesía, Bitácora pública, Vallejo and company, La Jornada, Monolito. Ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014), Non ha tetto la mia casa (Casa de poesía, San José, 2016), sua antologia poetica in versione bilingue, italiano-spagnolo. Ha tradotto e curato 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016) che ha ricevuto una menzione critica nel premio di traduzione letteraria Lilec dell’Unibo. Co-curatrice di Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terra d'Ulivi, Lecce, 2016). Cofondatrice della rivista La macchina sognante, con la quale prende parte a eventi culturali in Italia e all’estero. Ha curato l'edizione italiana del documentario brasiliano Fiore brillante e le cicatrici della pietra sugli indigeni Guarani-Kaiowà. Ha svolto ricerche universitarie e antropologiche incentrate su mondo indigeno, educazione e transizione sociale in vari Paesi.
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua