Viaggiando in Italia
a cura di Giancarlo Baroni
Orvieto, un piccolo paradiso sopra il tufo
Quale destino alla fine ci attende? Salvati oppure dannati, beati oppure castigati? Le pitture che raffigurano il Giudizio Universale ci ammoniscono, istruiscono, avvertono: attenzione alla strada che da vivi avete imboccato e che state percorrendo; una vi porterà alla gioia e l’altra alla sofferenza eterna. Cupo monito per i peccatori (guardate cosa vi accadrà se perseverate nel male, quali punizioni e castighi subirete) e felice promessa per i virtuosi (gioite per le beatitudini e per i premi che otterrete), il Giudizio Universale anticipa il futuro di ogni singolo uomo e dell’intera umanità. Nessuna mezza misura: o di qua o di là, sprofondati nell’Inferno oppure elevati in Paradiso. La fine del mondo, la fine dei tempi.
Sopra a una rupe tufacea che poggia sull’argilla si estende la piccola e incantevole città di Orvieto, dalla fisionomia medioevale. Sui campanili e sulle torri (come quelle dell’Orologio e del Moro), svetta la Cattedrale con la sua facciata ornata e rifinita come un raffinato ricamo, decorata di statue, mosaici, guglie, cuspidi, pilastri, portali; in alto il rosone assomiglia a un merletto, nella parte bassa della facciata vengono scolpite nel Trecento scene del Vecchio e Nuovo Testamento.
Il Duomo fu iniziato nel 1290 per custodire la preziosa reliquia di un miracolo avvenuto circa trent’anni prima a Bolsena (che dista venti chilometri da Orvieto): si tratta del lino, o corporale, insanguinato al momento della consacrazione dell’ostia. Sull’altare della Cappella del Corporale un prezioso reliquiario conserva il sacro lino. Chi visita il Duomo di Orvieto può inoltre ammirare uno dei più affascinanti Giudizi Universali esistenti. Si trova nella Cappella Nova detta anche di San Brizio. Nel 1447 Beato Angelico iniziò a dipingerla e circa cinquant’anni dopo Luca Signorelli portò a termine la maggior parte degli affreschi. Il pittore si ritrae con una berretta e una lunga veste nere, al suo fianco il frate domenicano Beato Angelico indossa il saio. Colpisce la scena della resurrezione della carne, con i corpi nudi o quasi nudi usciti dai sepolcri che ne contenevano gli scheletri; corpi giovanili plastici e vigorosi, atletici ma non imponenti e possenti come quelli che Michelangelo dipingerà, quasi quarant’anni dopo, nella Cappella Sistina. Gli eletti esultanti di Signorelli ascendono gloriosamente al cielo, i dannati precipitano verso il basso, all’Inferno, ammassati, puniti, percossi, terrorizzati.
Orvieto si innalza verso l’alto e si inabissa dentro la terra. Sotto le case e le vie percorribili in superficie esiste ed è visitabile una suggestiva città sotterranea fatta di grotte, cavità, gallerie, cunicoli, scale, sepolture, cisterne, cantine e pozzi scavati nel tufo per decine di metri. Servivano per attingere e approvvigionarsi di acqua in caso di bisogno e di assedio. Il pozzo più noto è quello chiamato di San Patrizio iniziato nel 1529 da Antonio Sangallo il Giovane: un cilindro profondo più di cinquanta metri con due rampe di scale elicoidali formate ciascuna di 248 gradini, una che sale e l’altra che scende così da non intralciare persone e animali da soma, asini e muli, che si recavano alla sorgente trasportando otri da riempire. Grandi finestre monofore impediscono al buio di imporsi. Il suo nome deriva dal Santo evangelizzatore e patrono d’Irlanda, san Patrizio che, si racconta, si ritirava in preghiera in una grotta ipogea che metteva in contatto il mondo dei vivi con quello dei morti. Nella Legenda aurea, voluminosa raccolta di racconti agiografici che ispirò parecchi pittori, Jacopo da Varazze scrive: “Dio gli ordinò di tracciare col bastone un gran cerchio sulla terra. Ed ecco che la terra si aprì seguendo quel tracciato ed apparve un grande e profondissimo pozzo: seppe poi Patrizio per rivelazione divina che quel pozzo era una specie di Purgatorio e chi voleva discendervi non avrebbe avuto a soffrire altra penitenza dopo la morte”.
Orvieto collega l’alto e il basso, il sopra e il sotto, la luce e l’oscurità, le viscere terrestri e il cielo adamantino; su una rupe insidiata dall’instabilità e dalla precarietà sorge un piccolo Paradiso in terra.
C’è una linea verticale
a Orvieto
che unisce il Paradiso al male
alto e basso
oscurità e luce
puoi scendere e salire, l’anima
del mondo qui
non ha segreti.
Giancarlo Baroni
Guardando Genova dal mare
Genova non è solo la città delle potenti famiglie oligarchiche (ritratte mirabilmente da van Dyck) e degli avventurosi esploratori del mare (ora sventurati come i fratelli Vivaldi ora favoriti dalla sorte e dal coraggio come Cristoforo Colombo), ma è anche la città di san Giorgio che, assieme a Giovanni Battista, le fa da patrono. Le ceneri del Battista sono custodite nella Cattedrale, iniziata nel 1099 e dedicata a San Lorenzo; nel Museo del Duomo sono conservati il piatto su cui si dice fu posata la testa decapitata del Battista e la maestosa e raffinata Arca processionale delle ceneri. San Giorgio, raffigurato nel gesto culminante dello scontro mentre sul cavallo bianco sta per trafiggere il drago, campeggia sulla facciata dell’omonimo Palazzo: un’ampia superficie affrescata che fa da sfondo ideale al porto vecchio. Guardando Genova dal mare, quella del santo combattente è la prima immagine che si impone. Si racconta che proprio qui, in questa sede storica delle finanze e degli affari Marco Polo, prigioniero dei genovesi dopo la battaglia nel 1298 di Curzola, abbia raccontato a Rustichello da Pisa, suo compagno di cella, le meraviglie dell’avventuroso viaggio in Oriente.
La città, stretta fra la distesa d’acqua che si estende davanti e i monti che premono alle spalle, si srotola lungo la costa come una lunga striscia sottile; la barriera montuosa che incombe dietro la spinge verso il mare (“Chi guarda Genova sappia che Genova / si vede solo dal mare”, canta Ivano Fossati). Le case, addossate, cercano luce e spazio innalzandosi verso l’alto (“Genova verticale, / vertigine, aria, scale” recitano i versi di Giorgio Caproni). Avara di spazi, li riempie e li congestiona, è spinta necessariamente verso orizzonti lontani. Come Venezia, Genova deve tutto al mare e come la grande rivale non nasce con Roma antica; libero comune dalla fine del Mille comincia la propria ascesa con la prima Crociata. Nel 1284 sconfigge i rivali pisani nello scontro navale attorno all’isolotto della Meloria. Mentre Venezia fagocita il vicino Oriente bizantino spodestando, spogliando e sostituendo Costantinopoli, Genova insidia il primato mediterraneo alla Serenissima e poi, mentre quest’ultima si attarda in un levante sempre più controllato dai Turchi, si rivolge verso Occidente mettendo al servizio della Spagna la propria perizia nella navigazione. Al contrario di Venezia Genova non può investire i proventi dei traffici marittimi in un entroterra fertile e pianeggiante come quello veneto; la città è il suo porto, le sue navi, il suo mare. Il Museo marittimo “Galata”, dedicato alla storia della navigazione, riserva una delle sue numerose sale al genovese più famoso, Cristoforo Colombo. L’incanto delle profondità marine si rende visibile nel visitatissimo Acquario: pesci mediterranei e tropicali, squali, delfini, meduse, foche, pinguini…
Via Garibaldi (chiamata così da fine Ottocento e prima Strada Nuova, per buona parte edificata nella seconda metà del Cinquecento) e via Balbi (iniziata nel Seicento e terminata circa sessant’anni dopo), sono, assieme ad altre Strade, emblemi della ricchezza, del prestigio e della potenza delle famiglie aristocratiche genovesi. Vi sorgono numerose dimore signorili dalle facciate a volte colorate e decorate; all’interno quadri, statue, affreschi, stucchi, saloni, gallerie, marmi, logge, scaloni, fontane, statue. Alcuni edifici sono stati trasformati in sedi museali come Palazzo Bianco, Palazzo Rosso e Palazzo Spinola; i primi due lasciati in eredità verso fine Ottocento al Comune di Genova da Maria Brignole–Sale, l’ultimo donato nel 1958 allo Stato italiano dagli Spinola. Scrigni di opere d’arte: l’”Ecce Homo” di Antonello da Messina, il “San Sebastiano” di Guido Reni, il “Ritratto di Gio. Carlo Doria” di Rubens e il “Ritratto di Anton Giulio Brignole-Sale” di van Dyck raffigurati entrambi a cavallo…Pieter Paul Rubens pubblicò ad Anversa nel 1622 Palazzi di Genova, illustrando e celebrando le facciate delle dimore aristocratiche. La fierezza e l’alterigia a volte presenti sui visi, nelle espressioni e nelle pose dei nobili genovesi ritratti da van Dyck sono riassunte in modo esemplare da un fatto storico. Il Doge della “Superba” è costretto nel 1685 a presentarsi al cospetto del re Sole in atto di sottomissione dopo che la città era stata bombardata dalla flotta francese. La costituzione genovese prevedeva che il Doge non potesse abbandonare in nessun caso la città. Si racconta che Luigi XIV domandò al Doge che cosa lo avesse colpito di Versailles e Francesco Maria Imperiale-Lercari rispose, con un orgoglio non inferiore a quello del re Sole: “Mi chi” (“Io qui”).
Il cosiddetto secolo d’oro dei genovesi inizia nel 1528 quando l’ammiraglio Andrea Doria passa con le sue navi da guerra agli ordini dell’imperatore Carlo V legandosi alla Spagna e all’Impero. I Genovesi non sono più soltanto dei navigatori e degli uomini di mare ma diventano dei banchieri che finanziano gli Asburgo e i galeoni spagnoli che solcano l’Atlantico ritornando dal Nuovo Mondo con le stive colme di argento. Tra fine ‘500 e inizi ‘600 si fanno più intensi i rapporti con le Fiandre, dove l’Impero era impegnato in una lunga e dispendiosa guerra. Entrambi nati ad Anversa, arrivano a Genova Rubens, nel 1600, e il suo allievo van Dyck, nel 1621. Il secolo d’oro dura circa un secolo; nel 1637 la Madonna viene addirittura incoronata Regina di Genova. Nel 1684 la città è bombardata dalle navi del Re Sole, da allora comincia un lungo periodo di egemonia francese. Nel 1797 cade la Repubblica aristocratica, il governo dei Dogi. Dopo il Congresso di Vienna Genova è assegnata ai Savoia che trovano finalmente un importante sbocco al mare.
Nel decentrato Palazzo del Principe (che nel 1533 ospitò l’imperatore Carlo V), Andrea Doria, ritratto (1526) da Sebastiano del Piombo, affida all’allievo di Raffaello Perin del Vaga il compito di decorare gli appartamenti. Nel ritratto Andrea Doria, che Doge non fu mai, ha barba e baffi bianchi, un volto non più giovane ma carico di energia e astuzia. Assieme ad altri membri della famiglia, fra cui Lamba vincitore a Curzola e Oberto che vinse alla Meloria, Andrea è sepolto nella piccola chiesa di San Matteo consacrata nel 1132. Altri sono seppelliti nella splendida Abbazia di San Fruttuoso, fra Portofino e Camogli. Sui fondali della sua baia, a quasi venti metri di profondità, fu posata nel 1954 la statua in bronzo del Cristo degli abissi che solleva le braccia verso l’alto in segno di pace, speranza e rinascita. Dopo il disastroso e tragico crollo nel 2018 del ponte Morandi il nuovo viadotto, battezzato San Giorgio e inaugurato nemmeno due anni dopo, dimostra la forza di reazione di questa città fiera e tenace.
Giancarlo Baroni
Gli orizzonti di Genova
L’oro resta impigliato nelle vesti
delle nostre signore broccati
come arazzi ma i soldi
preferiamo prestarli. Gli argenti americani
splendono nelle stanze dei palazzi
rossi bianchi da fuori
i tesori non li vedi. Io qui
risponde il doge a chi domanda
che cosa lo stupisce
di Versailles. Superbia o ritrosia?
Genova devota a Maria
a Giorgio e al Battista.
Giano è il nostro fondatore, i monti
ci coprono le spalle
e il porto spalanca gli orizzonti.
Un condottiero, un eremita e un coccodrillo
nelle terre dei Gonzaga
Dalla mente di un colto condottiero nasce nella seconda metà del Cinquecento, vicino al Po, una città ideale in miniatura: Sabbioneta. Protetta da mura bastionate a forma di stella tuttora quasi completamente integre. Ci vollero poco più di trent’anni per costruirla e, subito dopo la morte del suo fondatore Vespasiano Gonzaga, la città cominciò a decadere. Nel frattempo si era arricchita della chiesa della Santissima Incoronata che accoglierà il monumento funebre e la statua bronzea di Vespasiano; della chiesa di Santa Maria Assunta; del Palazzo Ducale con le statue equestri in legno di Vespasiano e di tre suoi antenati; del Palazzo del Giardino con il Corridor Grande (o Galleria degli Antichi) lungo quasi cento metri; del Teatro di Vincenzo Scamozzi, allievo del Palladio e autore delle scene fisse del Teatro Olimpico di Vicenza, sulla cui facciata sta scritto con un misto di orgoglio e diconsapevolezza: “Roma quanta fuit ipsa ruina docet” (“Le stesse rovine insegnano
quanto grande fu Roma”); di Porta Vittoria e di Porta Imperiale. Stretta dentro le mura, Sabbioneta (dichiarata nel 2008 dall’UNESCO patrimonio dell’Umanità) ha conservato intatto un fascino autentico e antico, un’atmosfera sospesa, un’aura quasi metafisica.
Vespasiano, valente guerriero e diplomatico, membro di un ramo cadetto dei Gonzaga, figlio di Luigi detto Rodomonte e di Isabella Colonna, nasce nel 1531 e muore sessant’anni dopo. Frequenta la corte spagnola di Carlo V come paggio d’onore dell’infante Filippo. Nel 1577 riceve il titolo di Duca, successivamente viene insignito della prestigiosa onorificenza del Toson d’Oro. Gravano su di lui sospetti inquietanti e ombre tempestose: accusata di averlo tradito spinse forse la prima moglie al suicidio; si dice che in un impeto di rabbia colpì all’inguine il figlio adolescente, l’unico figlio maschio, uccidendolo.
Il paese di San Benedetto Po è la sua imponente Basilica; una chiesa enorme per una cittadina minuscola. Dopo avere visitato come viandante e pellegrino Gerusalemme, Tours, Santiago di Compostela, e in Italia Roma, Pisa, Lucca, Luni, monte Bardone, Parma, Colorno, Piacenza, Pavia, Vercelli, Torino, il monaco ed eremita armeno Simeone si fermò qui, a San Benedetto Po, forse nel 1012. Da qualche anno era stato fondato il monastero benedettino di Polirone. Simeone guariva gli infermi e restituiva la salute agli ammalati, liberava con la preghiera le persone indemoniate, ammansiva animali feroci, placava le tempeste. Dopo avere abitato in un’umile celletta nelle vicinanze del monastero morì il 26 luglio 1016. Subito Bonifacio di Canossa ottenne dal papa l’autorizzazione per una nuova chiesa che doveva contenere le reliquie del Santo, custodite ora sotto l’altare della cappella dedicata a Simeone.
Matilde di Canossa, protagonista della lotta delle investiture, quando morì nel 1115 volle essere sepolta nel monastero; le sue spoglie, nel Seicento, furono trasferite in San Pietro a Roma e accolte nel monumento funebre creato dal Bernini. Qui rimane però il suo sepolcro vuoto. Verso metà Cinquecento la chiesa venne decisamente rinnovata da Giulio Romano, allievo di Raffaello e artista prediletto dai Gonzaga.
Nacque per volontà di Francesco Gonzaga come ringraziamento a Dio per la cessazione di una grave epidemia di peste scoppiata nel 1399, il Santuario delle Grazie che si trova vicino a Curtatone e che dista pochi chilometri da Mantova, sulle rive del lago Superiore dove a luglio e ad agosto risplende la fioritura del loto. Dedicato alla Madonna, il Santuario fu consacrato il 15 agosto 1406 e, nel corso dei secoli, visitato da re, imperatori e papi. La facciata, con un lungo loggiato, si affaccia su una vasta piazza dove ogni ferragosto si svolge un festival internazionale dei madonnari, i pittori di strada, evento che trasforma il selciato della piazza in una spaziosa lavagna colorata, in un tappeto di immagini sacre disegnate coi gessetti. All’interno della chiesa un profluvio di ex voto anatomici di cera che riproducono le parti del corpo per la cui guarigione si implorava la grazia (occhi, mani, teste, cuori, seni…) e di tavolette votive. Sulle pareti ottanta nicchie accolgono più di cinquanta statue polimateriche (composte principalmente di legno, stoffa e cartapesta), parecchie accompagnate da iscrizioni e didascalie. Le statue raffigurano personaggi illustri (per esempio
l’imperatore Carlo V e suo figlio Filippo di Spagna che visitarono il Santuario rispettivamente nel 1530 e nel 1549) e gente comune, come un giovane soldato ferito che ringrazia la Madonna per averlo salvato (“L’alma volea fuggir per doppia uscita / che due colpi spietati in me già fero; / ma Tu accorresti a trattenermi in vita”) e come un condannato sopravvissuto alla forca (“Io veggo e temo in cor lo stretto laccio, / ma quando penso che Tu l’hai disciolto, /ribenedico il Tuo pietoso braccio”). Alcune nicchie vuote accoglievano un tempo statue rivestite di armature, adesso conservate al Museo diocesano di Mantova. Il Santuario racconta storie di guarigioni, di prodigi avvenuti per intercessione della Vergine la cui immagine, teneramente abbracciata a Gesù bambino, sta sull’altare maggiore. L’aspetto teatrale e scenografico rende la chiesa originale e suggestiva.
Nella prima cappella a destra un monumento funebre progettato da Giulio Romano accoglie le spoglie di uno dei più influenti letterati della sua epoca, Baldassare Castiglione, morto nel 1529 e autore de “Il cortegiano”.
Dal soffitto della chiesa pende, probabilmente da inizi Cinquecento, un coccodrillo impagliato simbolo del demonio, del peccato e del male. Nella raccolta di racconti intitolata “Il coccodrillo sull’altare”, lo scrittore Guido Conti fa dire a due personaggi: “Un coccodrillo?! Questa poi non l’avevo mai sentita!...Come no? Ce n’è uno appeso nel santuario di Santa Maria delle Grazie. Dicono che l’han trovato in Po nel Medioevo. È incatenato al soffitto”.
Il Duca il monaco il coccodrillo
(una storia di pura invenzione)
“Non ho fatto altro
che il mio mestiere
altro che il mio dovere
di uomo d’armi
e di guerra”, il duca
condottiero chiese all’eremita
di essere perdonato
assolto dai peccati. Si recarono
umilmente vestiti al lago
digiunando pregando. S’immersero
nelle acque lacustri… pianse
a lungo il coccodrillo
lacrime d’ipocrisia
oppure era vero pentimento?
Giancarlo Baroni
F i r e n z e, l a p o r t a d e l P a r a d i s o
Firenze è uno scrigno di arte e di bellezza che contiene stupendi edifici (pubblici e privati, civili e religiosi) i quali a loro volta custodiscono innumerevoli capolavori. La densità artistica ed estetica è tale che l’estasiato visitatore può essere colto, come accadde a Stendhal, da sentimenti di stupore, sbigottimento, vertigine; questi stati d’animo rappresentano il prezzo emotivo da pagare, la prova psicologica da sostenere, l’anticamera purgatoriale che ci attende prima di entrare pienamente nel “Paradiso” fiorentino. Simbolicamente la Porta del Battistero scolpita dal Ghiberti e chiamata, per il suo splendore, Porta del Paradiso costituisce la soglia d’ingresso da varcare. La stordente eccitazione provata da Stendhal nella chiesa di Santa Croce, causata dalla prolungata contemplazione di una esorbitante bellezza, è il sentimento che ogni turista rischia di provare visitando per la prima volta Firenze. Che va invece vista senza fretta, con calma, un poco alla volta, a tappe, evitando che il suo fascino ci sovrasti.
Il nostro stringato e inevitabilmente parziale tour fiorentino comincia dalle chiese e, fra loro, dalla Cattedrale. Di fronte all’ottagonale Battistero medioevale di San Giovanni, rivestito all’esterno di marmi bianchi e verdi e all’interno di mosaici, sta l’imponente duomo di Santa Maria del Fiore la cui facciata venne iniziata a fine Duecento, smantellata quasi trecento anni dopo e completata a fine Ottocento. La sua prodigiosa cupola, progettata da Brunelleschi, attrae come un magnete gli sguardi: “Leggera l’alba / solleva la Cupola / divina foschia”, recita come una preghiera questo haiku del poeta fiorentino Luigi Oldani.
E’ una gara di eleganza e di perfezione, senza vinti né vincitori, quella che si gioca fra il trecentesco campanile di Giotto, che si innalza di fianco alla Cattedrale, e la quattrocentesca cupola del Brunelleschi: “erta sopra e’ cieli, ampla da coprire chon sua ombra”, dice Leon Battista Alberti, “tutti e popoli toscani”. Prima di lasciare Piazza del Duomo, ci attende il Museo dell’Opera: fondato nel 1891 ospita lavori e capolavori provenienti dal Battistero, dal Campanile e dalla Cattedrale. Reliquiari e tessuti liturgici; modelli lignei; la cantoria di Luca della Robbia e quella di Donatello; tavole dipinte, polittici e pale d’altare; sculture di Arnolfo di Cambio, Donatello e Michelangelo; l‘originale della Porta del Paradiso del Ghiberti con storie dell’antico Testamento; rilievi di Andrea Pisano; l’altare argenteo dedicato al patrono di Firenze Giovanni Battista. L’effigie del Santo protettore era incisa anche sul rovescio del fiorino d’oro, moneta delle transazioni commerciali internazionali coniata a Firenze da metà Duecento; sull’altra faccia il giglio.
Arnolfo di Cambio progetta la Cattedrale, il Palazzo dei Priori, la basilica di Santa Croce. La chiesa francescana custodisce i resti di uomini illustri, fra loro ad esempio Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo. Sul sagrato, rivolta verso la Piazza, una grande statua di Dante rende omaggio all’esule fiorentino sepolto a Ravenna. Affreschi trecenteschi di Giotto, Taddeo e Agnolo Gaddi, rivestono le pareti di alcune cappelle e, in quella Maggiore, illustrano storie e leggende della vera Croce. Il Cristo crocifisso del Cimabue, deturpato nel 1966 dall’apocalittica alluvione dell’Arno, mostra la sua sofferenza, le sue ferite e contemporaneamente la capacità di sopravvivere agli oltraggi e agli sfregi, di reagire e rinascere. In fondo al primo chiostro la Cappella Pazzi, disegnata da Filippo Brunelleschi, ci introduce nelle sobrie armonie del primo Rinascimento.
La prima pietra della chiesa domenicana di Santa Maria Novella fu posata nel 1279, la facciata completata nella seconda metà del ‘400 da Leon Battista Alberti. Giotto, Filippino Lippi, Domenico Ghirlandaio…, impreziosiscono la chiesa con le loro opere, fra le quali risplende la Trinità affrescata da Masaccio dove, miracolosamente e misteriosamente, l’infinito trova accoglienza all’interno di uno spazio delimitato e finito.
Sopra una collina da cui si ammira un impareggiabile panorama, si trova la chiesa di San Miniato al Monte fondata agli inizi del Mille. Una leggenda racconta che Miniato, dopo essere stato decapitato, raccolse la propria testa e, prima di accasciarsi definitivamente, raggiunse il luogo dove sarebbe sorta la Basilica in cui è sepolto.
Fra’ Giovanni da Fiesole, conosciuto come Beato Angelico, con suprema grazia affrescò ambienti comuni e celle del convento di San Marco dove Girolamo Savonarola abitò sino alla morte; nella chiesa di Ognisanti il San Gerolamo in preghiera del Ghirlandaio si specchia nel Sant’Agostino nello studio di Botticelli che qua è sepolto; tempio e mausoleo della famiglia Medici, la chiesa di San Lorenzo fa dialogare, nella Sacrestia Vecchia e in quella Nuova, equilibrio e rigore brunelleschiani con vigore e tensione michelangioleschi.
Tre cappelle di altrettante chiese costituiscono capitoli rilevanti dell’arte italiana fra inizi Quattrocento e inizi Cinquecento: Masaccio nella cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine; Ghirlandaio nella cappella Sassetti in Santa Trinita; Pontormo nella cappella Capponi in Santa Felicita.
Una sfilata preziosa di statue di bronzo e di marmo collocate in edicole e nicchie percorre le facciate di Orsanmichele; sono copie, la maggior parte degli originali si trova nel Museo. Sculture create da artisti del valore di Donatello, Brunelleschi, Verrocchio, Ghiberti, Giambologna…, raffigurano i Santi patroni delle Arti fiorentine, fra cui quella di Calimala, che commerciava la lana grezza; dei Giudici e Notai; dei Beccai; dei Maestri di Pietre e Legname; del Cambio; dei Medici e Speziali; della Seta. Nella chiesa un fastoso tabernacolo gotico dell’Orcagna accoglie la Madonna delle Grazie, dipinta da Bernardo Gaddi un anno prima che la micidiale peste del 1348 uccidesse il pittore e dimezzasse la popolazione fiorentina. In Orsanmichele aspetti religiosi e civili, devozionali e mercantili, si intrecciano.
A Palazzo Medici – Riccardi, iniziato a metà ‘400, Benozzo Gozzoli affrescò la Cavalcata dei Magi, corteo sontuoso dove sono raffigurati anche membri della famiglia medicea. Qui i Medici risiedettero fino al 1540 quando il granduca Cosimo I e la moglie Eleonora di Toledo si trasferirono a Palazzo della Signoria; fra le numerose sculture che adornano la Piazza, cuore politico cittadino, svetta il David di Michelangelo, l’originale si trova dal 1873 nella visitatissima Galleria dell’Accademia. Poco distante da quest’ultima, sull’ampia e armoniosa piazza della Santissima Annunziata si affacciano la chiesa omonima, lo Spedale degli Innocenti di Brunelleschi, il Museo archeologico nazionale con le sue considerevoli collezioni di arte etrusca ed egizia.
Capolavori dei più celebri pittori italiani (Cimabue, Giotto, Gentile da Fabriano, Paolo Uccello, Andrea Mantegna, Filippo Lippi, Piero della Francesca, Verrocchio, Antonio e Piero del Pollaiolo, Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Domenico Ghirlandaio, Filippino Lippi, Raffaello, Michelangelo, Parmigianino, Tiziano, Bronzino, Caravaggio…) affollano magnificamente le pareti della Galleria degli Uffizi, opera del Vasari, dal 1560 cuore amministrativo dello stato mediceo e infine museo. Il Corridoio Vasariano attraversa l’Arno appoggiato sulle botteghe di Ponte Vecchio e collega Palazzo Vecchio, gli Uffizi e Palazzo Pitti. Assai potenti i Pitti dovettero vendere ai Medici, a metà Cinquecento, il loro palazzo, che divenne una reggia e uno sfarzoso contenitore di tesori, di opere d’arte e di artigianato di ogni genere e tipo, alle cui spalle si estende il Giardino di Bòboli.
Quello che gli Uffizi sono per la pittura, il Bargello lo è almeno in parte per la scultura; in passato sede del Podestà e poi carcere, diventa museo nel 1865. Qui possiamo ammirare per esempio il San Giorgio in marmo di Donatello, il David dello stesso autore e quello del Verrocchio entrambi in bronzo, le ceramiche invetriate dei Della Robbia.
Si deve alla lungimiranza di Anna Maria Luisa de’ Medici, sorella dell’ultimo granduca Gian Gastone, se le collezioni medicee non subirono le spoliazioni e le dispersioni che afflissero invece quelle degli Este e dei Gonzaga. Nel 1737 Maria Luisa cedette ai nuovi signori, i Lorena, il patrimonio artistico dei Medici a patto che non potesse essere trasportato fuori dalla Capitale e dal Granducato, e a condizione che quadri, statue, biblioteche, gioie e altre cose preziose, restassero “per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri”.
Firenze crocifissa
(4 novembre 1966, l’Arno straripa)
Crollano le porte del paradiso, le aureole
dei santi galleggiano nel fiume
come un salvagente. Persino il Battista
travolto ci si aggrappa.
Gli angeli di Firenze volano bassi
le piume impregnate di pioggia. L’Arno,
con furia da iconoclasta, cancella nelle chiese
le tracce dell’aldilà. Dal Crocifisso
di Cimabue gocciolano melma e fanghiglia.
Giancarlo Baroni
L’ u b i q u i t à d i M i l a n o
Per completare il Duomo di Milano, dedicato a Maria nascente, ci sono voluti quasi cinquecento anni, un tempo lunghissimo, un’opera interminabile: “lungo come il duomo di Milano” dice efficacemente un detto. Iniziato nel 1386 per volontà di Gian Galeazzo Visconti, nel 1805 vi fu incoronato re d’Italia Napoleone.
La pietra è un marmo di colore bianco e rosa con striature grigie. Estratto dalle cave di Candoglia, in Val d’Ossola, arrivava a destinazione dopo un complicato percorso via acqua. I blocchi, caricati su barconi, navigavano il fiume Toce, il Lago Maggiore, il Ticino e i Navigli. Su quelle imbarcazioni era impressa la sigla “a.u.f.” cioè “ad usum fabricae”, per significare che il carico non era gravato da imposte e gabelle: da qui il modo di dire, ormai in disuso, “a ufo” cioè gratuitamente.
Gigantesca e ornata di statue, archi, guglie, pinnacoli, nicchie, decorazioni, l’esterno sovrabbondante e l’interno maestoso, guardiamo la Cattedrale di fronte, le giriamo intorno, entriamo dentro percorrendola nella sua vastità, poi finalmente saliamo sul tetto. Ecco il punto di vista forse più spettacolare di Milano, da qui la città sembra a portata di mano. Quasi cavalcassimo un drago ammansito, il Duomo, meraviglioso mostro di pietra, sta sotto i nostri piedi e ci sorregge. In cima splende dal 1774 la “Madonnina” simbolo di Milano; “O mia bela Madunina che te brillet de lontan / tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan”, dice la popolare canzone composta nel 1935 da Giuseppe Danzi.
Non meno importante e affascinante è la Basilica di Sant’Ambrogio, costruita non in marmo ma in mattoni fra il 379 e il 386. Un ampio cortile affiancato da loggiati ci accoglie e ci guida verso l’interno; la cripta custodisce i resti del santo patrono di Milano assieme a quelli dei martiri Gervasio e Protasio. Il mosaico dell’abside e i rilievi del cosiddetto Altare d’oro illustrano un prodigio di Sant’Ambrogio: si racconta che il vescovo, mentre diceva messa a Milano, prendevasimultaneamente parte, a Tours, ai funerali di San Martino.Possiamo forse considerare l’ubiquità temporale come la principale dote e caratteristica di Milano: Mediolanum, antica e modernissima, è probabilmente l’unica città italiana che appartiene contemporaneamente al passato, al presente e al futuro.
Sant’Ambrogio è figura centrale della storia milanese. Nasceverso il 339 e muore quasi sessant’anni dopo. Giovanissimo si trasferisce a Roma e poi, da adulto, a Milano; qui viene consacrato vescovo il 7 dicembre 374 e qui battezzerà, nel 387,Sant’Agostino. Si incontrano dunque a Milano due figure fondamentali del Cristianesimo: Ambrogio nato a Treviri, in Germania, e Agostino originario di Tagaste, nell’attuale Algeria.A quei tempi sede imperiale, Mediolanum era un magnete e unpolo attrattivo.
Capitale dell’Impero romano d’Occidente dal 286 al 402; Comune che tiene testa all’imperatore Barbarossa; con i Visconti e gli Sforza uno degli Stati più potenti d’Italia; capitale della Repubblica Cisalpina e poi del Regno Italico (Napoleone si incoronò re d’Italia in Duomo); dal dopoguerra, nonostante i devastanti bombardamenti aerei, cuore finanziario e industriale del Paese; città della lirica, dell’editoria, della moda, del design, della pubblicità, della scienza, della tecnica e di altro ancora.
Milano può apparire a chi la visita per la prima volta severa, fredda, ostica, arcigna e poco a misura d’uomo “Pure,” scrive Guido Piovene, “Milano è bella. Chi la percorre con amore, vede come persistono…i suoi motivi antichi. Sono…San Ambrogio, San Eustorgio; sono le impronte del Bramante, Santa Maria delle Grazie, San Satiro; …Brera e gli altri musei, il Castello Sforzesco, l’Ambrosiana, il Poldi-Pezzoli. E’il neoclassico milanese…più amabile del francese, più colorito, di una grazia settecentesca…”.
Le eleganti colonne di fronte a San Lorenzo Maggiore risalgono al II-III secolo d.C.; la basilica di Sant’Eustorgio accolse le reliquie dei Magi, patroni dei viandanti, arrivate nella prima metà del IV secolo da Costantinopoli e nella seconda metà del XII trasferite a Colonia dal Barbarossa. Fanno da contrappasso i grattacieli degli anni Cinquanta-Sessanta e soprattutto quelli del nuovo millenniodella Milano verticale, di questa “città che sale” (per usare il titolo di un quadro del futurista Boccioni) che si eleva verso l’alto e si proietta con il suo passato e il suo presente verso il futuro.
Nei suoi musei e nelle sue chiese sono custoditi capolavoridell’arte: al Poldi Pezzoli, la grazia delicata, l’eleganza limpida e naturale del Ritratto di dama attribuito a Piero del Pollaiolo; a Brera la Pala Montefeltro di Piero della Francesca, il Cristo morto di Mantegna, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello; nella Pinacoteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo,il luminoso Canestro di frutta di Caravaggio e nella Biblioteca i fogli del Codice Atlantico di Leonardo che a Milano trascorse più di vent’anni della sua vita. Sopra una parete del refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie ci incanta la magia prospettica dell’Ultima Cena leonardesca. I Musei Civici del Castello sforzesco espongono strumenti musicali, armi e armature, statue in legno e in marmo, mobili, ceramiche, oreficerie, avori, disegni e dipinti, e principalmente ospitano la Pietà Rondanini, acquistata dal Comune di Milano nel 1952, alla quale Michelangelo lavorò, lasciandola incompiuta, fino alla fine dei suoi giorni. Madre e Figlio formano quasi un corpo unico, fusiin un abbraccio doloroso e amoroso, drammatico e appassionato: scultura arcaica e avveniristica al contempo.
La Milano di Ambrogio
La città sta in mezzo. Altre
lo pretendono e qui
succede. Io che vengo dal Nord
sono ora il suo vescovo, Agostino
dall’Africa mi chiede
d’essere battezzato
in questa capitale minacciata. Ho così tanto
da fare che mi sdoppio. In preghiera
a Milano e nello stesso
istante al funerale
di Martino di Tours. Ubiquità
mio autentico miracolo.
Giancarlo Baroni
Mantova, regina del Rinascimento
Mantova e i Gonzaga. La loro signoria inizia nel 1328 con una congiura e un violento colpo di
mano a scapito dei precedenti signori, i Bonacolsi, e dura quasi quattro secoli terminando nel 1707.
Proprietari terrieri, condottieri, prestigiosi mecenati e collezionisti d’arte, abili diplomatici capaci di
intessere una rete di alleanze matrimoniali con le più importanti famiglie italiane ed europee (dagli Este ai Visconti, dagli Hohenzollern agli Asburgo…). All’inizio capitani del popolo e vicari imperiali, dal 1433 marchesi per volontà dell’imperatore Sigismondo e, grazie a Carlo V, dal 1530 duchi. Sotto la loro signoria Mantova diventa una delle capitali del Rinascimento, anche per merito della colta e raffinata Isabella d’Este, moglie di Francesco II Gonzaga, amante della pittura, delle lettere e della musica, abile nel governare, il cui motto “Nec spe nec metu” (“Né con speranza né con timore”) ne sottolinea la saggezza.
Il Palazzo Ducale è una città nella città, un vasto insieme di edifici, un succedersi interminabile di appartamenti, sale, gallerie, cortili, giardini…Comprende anche la chiesa di Santa Barbara e il castello di San Giorgio, probabilmente cominciato nel 1395 da Bartolino da Novara che alcuni anni prima aveva progettato il castello di Ferrara. Qui Andrea Mantegna dipinge magistralmente, fra il 1465 e il 1474, la “Camera Picta” o “Camera degli Sposi” dove il marchese Ludovico II viene raffigurato, celebrato e immortalato assieme alla moglie Eleonora di Brandeburgo, ad alcuni figli e a esponenti della corte. Sul soffitto ligneo della Stanza del labirinto il motto ripetuto “forse che sì forse che no” finisce per ricordarci che il destino e la sorte sono incerti e labili. Il cuore cittadino è la scenografica Piazza Sordello, sulla quale si affaccia la parte più antica del Palazzo Ducale, ma il punto di vista più suggestivo è da ponte San Giorgio e dai laghi, formati dal fiume Mincio, che bagnano e abbracciano la città.
Di palazzi signorili Mantova è ricca, ad esempio Palazzo D’Arco la cui sala più famosa ha le pareti decorate con segni zodiacali, miti e grottesche. Su tutti primeggia Palazzo Te, altro luogo simbolo dei Gonzaga e della città, villa destinata a svaghi, ozi e feste ducali. Ideatore del progetto e degli affreschi interni è Giulio Romano che a Mantova si trasferisce nel 1524 abitandovi fino alla morte.
Nella Camera di Psiche i dipinti sono di argomento amoroso e sensuale; la visionaria Camera dei Giganti ci ammonisce a non sfidare gli dei e i potenti; sei purosangue a grandezza naturale, selezionati campioni vanto dei Gonzaga, ci guardano dalle pareti della Sala dei Cavalli.
Quasi trentenne arriva a Mantova il patavino Andrea Mantegna; sua moglie Nicolasia è figlia di Jacopo e sorella di Giovanni Bellini. Mantegna diventa pittore di corte del marchese Ludovico e muore a Mantova nel 1506. Quasi di fronte al Tempio di San Sebastiano (progettato da Leon Battista Alberti verso il 1460 e terminato a inizi Cinquecento) Andrea Mantegna costruisce all’incirca negli stessi anni la sua Casa; di fianco a questa, poco dopo la morte del pittore, viene iniziato il Palazzo di san Sebastiano che un tempo conteneva i Trionfi di Cesare e che adesso ospita il Museo della Città.
Le bellezze artistiche che ancora ci affascinano sono però quanto sopravvive delle meraviglie di un tempo. La sfarzosa collezione dei Gonzaga, la “Celeste Galeria”, comprendeva infatti migliaia di quadri, sculture, arazzi, ori, argenti, gioielli, gemme, cammei, monete, cristalli, porcellane, armi, mobili, oggetti preziosi. Con l’ultimo dei Gonzaga di Mantova, Vincenzo II, e con il successore Carlo di Nevers, comincia la svendita dei capolavori e l’agonia del Ducato. A Carlo I di Inghilterra vengono venduti, nel 1627-28, quasi cento dei migliori dipinti della collezione, fra cui i Trionfi (ora ad Hampton Court), e oltre duecento sculture. Due anni dopo l’Imperatore, che ha pretese sul Ducato, manda i lanzichenecchi che rubano, razziano, saccheggiano, svuotano la città di buona
parte dei suoi tesori: finiranno distrutti, dispersi o ad arricchire altre collezioni.
La grandezza di Mantova precede tuttavia i Gonzaga. Nei dintorni nasce nel 70 a.C. il suo
antenato più illustre: Virgilio. Il centurione romano Longino, che aveva trafitto il costato di Gesù sul Golgota e si era poi convertito, secondo una leggenda portò a Mantova la reliquia della terra intrisa del sangue di Cristo crocifisso. Nella cripta della basilica di Sant’Andrea, progettata nel 1470 da Leon Battista Alberti, sono custoditi i Sacri Vasi che contengono il preziosissimo Sangue; nella prima cappella a sinistra è sepolto Mantegna.
La basilica di sant’Andrea
(a Mantova e quella parigina di Notre–Dame custodiscono preziose reliquie di Cristo)
Confrontiamo la vostra immensa
capitale di un impero
con questo ducato stretto
fra Venezia e Milano. Paragoni impossibili? Forse
no, la nostra reggia compete
con quella di Versailles. Avete
del martirio la corona di spine
i chiodi della croce noi
il sangue che ha versato.
(da Le anime di Marco Polo, Book Editore, 2015)
Di Monte Sant’Angelo,
delle apparizioni dell’Arcangelo Michele
e di altre meraviglie.
Gli angeli sono messaggeri e ambasciatori divini, intermediari fra Dio e gli uomini, sono vicinissimi al Creatore, lo circondano, lo adorano, lo servono, lo proteggono, lo difendono, lo glorificano.
Assieme ai serafini, raffigurati con sei ali, e ai cherubini, che di ali ne avrebbero quattro, gli arcangeli (capi degli angeli) occupano le sfere più elevate delle gerarchie celesti. Gabriele è il messaggero divino per eccellenza: annuncia a Maria la sua maternità; Raffaele è il soccorritore; Michele è il principe degli angeli, lo stratega al servizio dell’Onnipotente, il “valoroso guerriero dell’Altissimo”. E’ lui il nemico principale del diavolo e del maligno; è lui il capo supremo dell’esercito e delle milizie celesti che sconfigge e caccia dal Cielo Satana assieme agli angeli ribelli, che lo trafigge con una lancia o con una spada; è lui che pesa con una bilancia le anime dei defunti valutando se le opere buone superano quelle malvagie.
Costantinopoli era particolarmente devota a Michele per le sue virtù taumaturgiche e di guaritore e perché proteggeva gli imperatori; i Longobardi, dopo la conversione dall’arianesimo al cristianesimo, lo scelsero come patrono; la sua fama si diffuse in tutta Europa.
Sul Gargano, a ottocento metri d’altezza, nell’odierna Monte Sant’Angelo, l’Arcangelo si manifestò per tre volte dal 490 al 493 d.C. Si racconta che un personaggio leggendario, Gargano, proprietario di mandrie e greggi, andò alla ricerca di un toro che era scappato, lo ritrovò all’imbocco di una grotta, adirato scagliò contro l’animale una freccia che deviò la sua traiettoria e tornò indietro ferendolo. Considerata la stranezza della cosa, il vescovo ordinò tre giorni di digiuno e penitenza, trascorsi i quali Michele apparve al vescovo davanti alla caverna dicendo: “Io sono l’Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra…io stesso ne sono il vigile custode”. Durante una di queste apparizioni, rimase su una roccia l’impronta di un suo piede.
La chiesa di Monte Sant’Angelo, che sorse probabilmente già alla fine del V secolo e crebbe attorno alla caverna, divenne il più celebre santuario occidentale dedicato all’Arcangelo, centro di irradiazione del suo culto verso Occidente, luogo di preghiera e meta di pellegrinaggi da parte di fedeli, viandanti, monaci, papi, santi e re. All’esterno l’ottagonale campanile-torre innalzato dagli Angioini nella seconda metà del Duecento. Percorsa una scalinata, si arriva al portale antistante la grotta dove si leggono le parole pronunciate da Michele: “In tutto lo spazio che racchiude questa Caverna i peccati degli uomini sono perdonati. Questa è una dimora speciale nella quale qualsiasi colpa viene lavata”. Sulla porta bronzea che chiude il portale episodi biblici con gli angeli come protagonisti e scene delle epifanie dell’Arcangelo. All’interno della Grotta, una statua di alabastro, scolpita a inizi Cinquecento dal Sansovino, lo rappresenta come un guerriero che con il braccio destro sollevato impugna la spada e col piede sinistro schiaccia il demonio sconfitto, una creatura mostruosa dal muso di scimmia, cosce di capro, artigli da leone e coda di serpente. Custodita dentro un’urna, nello spazio recintato dell’area presbiteriale dove i fedeli non possono liberamente entrare, la statua poggia sul masso dove la leggenda narra sia impressa l’orma del piede di san Michele.
Tre santuari dedicati all’Arcangelo stanno idealmente e geograficamente su una stessa linea retta. Monte Sant’Angelo nel Gargano (“casa di Dio” e “porta del cielo”); la Sacra di San Michele in Val di Susa, sorta sulla cima del Monte Pirchiriano nel luogo indicato, dice una leggenda, da Michele a un eremita; Mont Saint-Michel in Normandia: nel 708 l’Arcangelo apparve tre volte in sogno al vescovo e gli chiese di costruire una chiesa su questo isolotto roccioso circondato dall’oceano che, per l’alternarsi portentoso di alte e basse maree, appare e scompare, si ritira per chilometri e poi ritorna veemente.
La Puglia è terra di basiliche, di santuari e anche di castelli meravigliosi. Su una isolata collina dell’altopiano delle Murge sorge Castel del Monte, iniziato verso il 1240 per volontà dall’imperatore Federico II. E’il castello per antonomasia, il modello di cui tutti gli altri sono copie imperfette. A forma di ottagono incorpora otto torri a loro volta ottagonali; tipico dei battisteri e delle fonti battesimali, l’ottagono è simbolo di resurrezione.
G.B.
Impronte
Impresso sulla pietra
un salto portentoso
prima fino alla roccia
in cima a un altro monte
dopo su un’isoletta
che scompare e riappare
come per incantesimo.
G.B.
Bari, Trani e i due san Nicola
Nel 1087 tre navi partite da Bari approdarono a Myra, nell’odierna Turchia. A bordo una sessantina di marinai, in prevalenza ma non esclusivamente baresi; un gruppo numeroso scese a terra e si diresse verso la basilica dove erano venerati i resti di San Nicola, famoso per i suoi miracoli. Agli inizi del IV secolo era stato vescovo della città. Con le buone e con le cattive convinsero i pochi monaci presenti a indicare dove si trovasse la tomba. Un marinaio particolarmente irruento scoperchiò il sepolcro di marmo e, per recuperare i resti di Nicola, immerse le mani nel liquido profumato e soave che trasudava dalle ossa e colmava il sarcofago. Il 9 maggio le navi, con le sacre reliquie, ritornarono a Bari, fino a pochi anni prima territorio bizantino e ora normanno; la città era in festa. Due anni dopo fu ultimata la cripta che accolse le spoglie di Nicola; nell’area in precedenza occupata dal palazzo del Catapano (governatore bizantino dell’Italia meridionale) fu costruita la Basilica dedicata al Santo, definitivamente consacrata nel 1197. Da allora la città diventò (assieme a Santiago di Compostela, Roma, Monte sant’Angelo, Gerusalemme) una delle tappe principali del pellegrinaggio e venne visitata da papi e re, nobili e plebei, cavalieri e fanti.
Solitamente raffigurato nei panni di un vescovo, sulle spalle una stola liturgica ornata di croci, la mano sinistra che regge i Vangeli e la destra benedicente, barba e capelli bianchi, la fronte alta e spaziosa, Nicola è celebre per i suoi prodigi. Salva dalla pena di morte innocenti ingiustamente condannati, i suoi affamati concittadini dalla carestia, naviganti da tempeste, burrasche e naufragi, resuscita dei bambini… E’ pietoso e generoso, un caritatevole benefattore: dona a tre ragazze molto povere altrettanti sacchetti di monete d’oro, basta dire “San Nicola aiutami” ed eccolo arrivare in soccorso.
La sua popolarità cresce e si espande. A Bari prima affianca San Sabino come patrono e poi ne oscura la fama, sebbene la splendida Cattedrale porti il nome di quest’ultimo. Edicole votive e immagini del Santo sono sparse , in segno di devozione e di vicinanza, nella città vecchia; Nicola e Bari quasi si identificano. Il suo culto è diffuso in ogni parte del mondo, particolarmente nei paesi di religione ortodossa e principalmente in Russia. San Nicola, arrivato per mare da Oriente, ha fatto di Bari e del suo porto un ponte teso fra l’Europa occidentale ed orientale, fra Levante e Ponente.
Sono talmente numerose le splendide chiese in Puglia che occorre troppo spazio per nominarle. Ricordiamo solamente quella di Troia col suo rosone finemente traforato come un merletto; quella di Ruvo dall’originale facciata; il Duomo vecchio di Molfetta che si specchia nell’Adriatico; la basilica di Santa Croce, capolavoro del barocco leccese; la Cattedrale di Otranto, la città più orientale d’Italia, col suo mosaico pavimentale dall’enorme albero della vita.
Per ammirare la Venere delle basiliche pugliesi bisogna visitare la cattedrale di Trani, iniziata nel 1099. Confinante col mare da cui sembra affiorare, si mostra ai nostri occhi elegante, armoniosa e slanciata. Le fa da conchiglia una piazza dalle atmosfere metafisiche, uniforme nel chiaro colore grigio-rosa della pietra calcarea. La facciata, affiancata dall’alto campanile, è impreziosita dalla porta bronzea del 1180 opera di Barisano da Trani il quale in una formella si firma e si ritrae, piccolo e adorante, ai piedi di San Nicola Pellegrino. Nata per accogliere le spoglie del Santo, la cattedrale ne custodisce nella cripta le reliquie.
Di nuovo dunque ci imbattiamo in un San Nicola, che con il più celebre e venerato patrono di Bari condivide però soltanto il nome, non la celebrità, le virtù e i poteri. Nasce nel 1075 in Grecia da una famiglia di poveri agricoltori, si imbarca giovanissimo verso Otranto e a diciannove anni raggiunge Trani dove, due settimane dopo, muore stremato da stenti e privazioni. Non è un vescovo ma una specie di “pazzo di Dio” che grida insistentemente le stesse parole (“Kyrie eleison!”, “Signore abbi pietà”) invocando la misericordia divina. Per questo comportamento da invasato viene più volte perseguitato, maltrattato e picchiato. Da un santo isolato e minore ha avuto origine una basilica grandiosa.
G.B.
Eccomi grida compassionevole
ai marinai che lo invocano
durante le burrasche. Alla comparsa
di Nicola scappano
i diavoli che svolazzano
sopra le barche come avvoltoi.
G.B.
Sulle tracce di San Sebastiano
A chi vuole conoscere san Sebastiano – uno dei santi più amati dai pittori – conviene andare verso il lago Trasimeno e da lì salire al paese di Panicale. Nella chiesetta a lui dedicata è conservato un affresco eseguito nel 1505 dal Perugino che ne descrive il martirio e che copre un’intera parete. Al centro del dipinto, sopra un piedistallo marmoreo che lo innalza, c’è il santo legato a una colonna che collega la terra al cielo. In basso quattro arcieri, disposti in maniera simmetrica, con movenze aggraziate e quasi a passo di danza stanno cominciando a scagliare contro di lui le loro frecce. In alto Dio benedice la forza d’animo e il sacrificio di Sebastiano, il cui sguardo fissa quello divino che gli infonde conforto e fiducia. Il martirio sembra partecipare a un ordine cosmico che lo giustifica e lo spiega, a un progetto che lo trascende. I colori chiari e trasparenti, la morbidezza del paesaggio, la pacatezza di espressioni e gesti, il rigore prospettico e l’armonia compositiva, allontanano dalla scena esasperazione e dramma.
La serenità di Sebastiano costituisce un tema frequente nell’opera di Pietro Vannucci detto il Perugino, uomo dal temperamento sanguigno (l’autoritratto nel Collegio del Cambio a Perugia non esprime mansuetudine) ma artista di straordinaria delicatezza e grazia che in varie pose ha raffigurato il Santo. In un quadro custodito al Louvre, lo riprende da vicino come protagonista e unico attore, nella solitudine del suo sacrificio. L’avvenimento non è corale ma individuale, l’attenzione focalizzata sulla sua persona. Il corpo di quest’uomo giovane e bello, trafitto da poche frecce, mostra un’elegante compostezza e l’espressione del suo volto un’impassibile beatitudine; lo sguardo è rivolto verso il cielo. Anche nel “San Sebastiano” di Antonello da Messina, conservato a Dresda, il martire dipinto a figura intera campeggia al centro della scena, legato a un albero; le poche frecce conficcate non deturpano la sua giovanile avvenenza e non alterano la sua imperturbabilità. La solitudine del Santo è accentuata dall’indifferenza delle persone che sullo sfondo si comportano come se nulla fosse, come se il sacrificio appena avvenuto non li riguardasse, presi dalle loro faccende quotidiane. Ritorniamo però a seguire le sue orme italiane.
Serenità, armonia, misura, proporzione, equilibrio, garbo, dolcezza, sono le caratteristiche tipiche dei dipinti dedicati al Santo ma, senza sovvertire questo modello a volte un poco stucchevole, è possibile qualche variante e trasgressione. A Venezia, nella Ca’ d’Oro affacciata sul Canal Grande, il “San Sebastiano” dipinto da Mantegna è scosso da un brivido e da una tensione insoliti; sul volto del “Sebastiano” di Guido Reni, alla Pinacoteca nazionale di Bologna, turbamento e preoccupazione prendono il posto della consueta inossidabile beatitudine.
Per continuare questo breve percorso attraverso le immagini di Sebastiano, è necessario recarsi nella cittadina toscana di San Gimignano, tappa importante della via Francigena. Incantevole e suggestiva, ci catturano le bellezze artistiche, l’aspetto e le atmosfere medioevali, le tredici torri che tuttora si innalzano (nel Trecento erano più di settanta). Le due chiese più importanti di San Gimignano, quella basilicale della Collegiata e l’altra di Sant’Agostino, conservano due dipinti di Benozzo Gozzoli in cui il Santo viene rappresentato in modi assai diversi ma in entrambi i casi all’apice del proprio ruolo e della propria missione, nella pienezza delle sue qualità e virtù.
Nel Duomo o Collegiata, assieme a opere di grande qualità fra cui due affreschi di Domenico Ghirlandaio che raccontano vita e miracoli della patrona Santa Fina, si trova “Il Martirio di san Sebastiano”, eseguito nel 1465 da Benozzo. Il Santo è quasi nudo, coperto solo da un perizoma, con le mani legate dietro la schiena, crivellato da un fitto nugolo di dardi scoccati da un gruppo di arcieri che lo circonda da vicino (nella seconda metà del Duecento, il domenicano Jacopo da Varagine nella “Legenda Aurea” scriveva: “I soldati lo ricoprirono tutto di frecce così che il santo non sembrava più un uomo ma un riccio”). I piedi di Sebastiano appoggiano, come quelli di una statua, sopra a un piedistallo di marmo che lo separa da terra e lo eleva verso il cielo dove un gruppo di angeli lo attende per incoronarlo e dove Gesù benedicente e Maria in preghiera, circondati da cherubini, assistono al suo martirio. Il volto del Santo, che somiglia a quello del Cristo, rimane insensibile al dolore e al tormento, non tradisce né paura né odio, non si scompone, il suo sguardo non fissa i carnefici ma un orizzonte distante davanti a sé. Assieme alle frecce, Sebastiano attira su se stesso, come un bersaglio, i peccati degli uomini per espiare le loro colpe; la sua sofferenza salva l’umanità. Il Cristo che Sebastiano in parte richiama è quello legato alla colonna, fustigato percosso e deriso dai suoi aguzzini. Il sacrificio di Sebastiano ripete dunque, in tono minore, quello di Gesù ripristinando un contatto fra cielo e terra, fra uomini e Dio. La sua vittoria sul male e sulla violenza diventa alla fine la nostra. La serena sopportazione esibita dal Santo davanti al male e al dolore, che non va scambiata per arrendevolezza rassegnazione e debolezza, è un segno di resistenza e di forza; la fragilità si trasforma nel suo opposto.
Nella chiesa di Sant’Agostino, Benozzo affresca un ciclo che illustra la vita di Agostino e, nel 1464, il “San Sebastiano intercessore”. Sebastiano partecipa a un’azione ancora più universale, corale e collettiva della precedente. Qui non è seminudo ma vestito, non è trafitto da frecce che invece si infrangono e si spezzano contro i lembi del suo mantello tenuto aperto e disteso da angeli. Sotto il mantello trova riparo, rifugio e protezione una folla di fedeli in preghiera inginocchiata ai piedi del Santo. La sua figura occupa il centro della parte inferiore del dipinto, le mani unite in preghiera e i piedi appoggiati a un piedistallo. Se guardiamo in alto, notiamo che Dio stesso, per punire gli uomini dei loro peccati, lancia quelle frecce micidiali che Sebastiano intercetta. I dardi più letali per l’umanità sono guerra, epidemie, peste, carestia: tormenti spesso collegati fra loro. Negli anni Sessanta del Quattrocento San Gimignano venne colpita da una pestilenza. Una preghiera rivolta a San Sebastiano dice: “Pietoso e benigno / dal trono celeste / da fame e da peste / le genti salvò”.
Sebastiano era un ufficiale della guardia personale dell’imperatore, ma era anche un cristiano; la sua fede venne considerata un tradimento, una colpa così grave da meritare una punizione esemplare. Il supplizio delle frecce avviene agli inizi del IV secolo sul colle Palatino a Roma, però miracolosamente il Santo non muore. Nel “San Sebastiano curato da Irene” (Pinacoteca di Bologna), Guercino lo raffigura mentre viene assistito e soccorso dalla caritatevole Irene. Appena guarito non scappa, non si mette al sicuro, ma si presenta di nuovo all’imperatore per testimoniare con convinzione la propria fede. Viene arrestato e ucciso a bastonate nell’ippodromo del Palatino, il corpo buttato per spregio e disprezzo nella Cloaca Massima. La notte Sebastiano appare in sogno alla matrona romana Lucina indicandole dove rintracciare il suo cadavere; che viene portato nelle catacombe della via Appia. Qui sorgerà la chiesa di San Sebastiano fuori le mura che custodisce parte delle spoglie del Santo e, si crede, una delle frecce che lo trafissero. Dopo Pietro e Paolo, è il terzo patrono di Roma.
Seguendo le orme di Sebastiano arriviamo infine a Venezia, nella chiesa che porta il suo nome. Qui Paolo Veronese dipinse nella seconda metà del Cinquecento un ciclo pittorico che racconta e illustra scene ed episodi della vita del Santo, fra cui il supplizio mortale delle frustate e delle bastonate. Veronese è sepolto nella chiesa di San Sebastiano.
Il corpo di San Sebastiano
*
Mi legano i polsi al tronco
li affronto con la forza
della sopportazione.
*
Fisso il cielo cercando
un segnale tardivo
gli arcieri puntano
sono il loro bersaglio.
*
Tendono l’arco caricano la balestra
scagliano le frecce quasi a passo di danza.
*
Guerra peste carestia – tre frecce
velenose – il mio corpo come uno scudo.
G.B.
I volti di Lucca
Percorrere gli oltre quattro chilometri di viali alberati sulle intatte mura di Lucca, camminando oppure pedalando lentamente e intanto guardandosi attorno, è un’esperienza che bisogna provare. Se giriamo lo sguardo verso l’esterno vediamo scorci di mura e di bastioni, prati e file di alberi, vialoni; se invece dirigiamo lo sguardo verso l’interno ammiriamo distintamente e a distanza ravvicinata chiese, campanili, piazze, palazzi, giardini; il centro storico è lì, quasi a portata di mano, facilmente raggiungibile e visitabile, custodito come in uno scrigno. Le mura hanno svolto una funzione deterrente e dissuasiva, hanno contribuito a evitare che l’immagine di Lucca venisse violata.
Colonia latina (dell’Anfiteatro romano resta traccia nella forma ellittica dell’omonima Piazza), Comune, Signoria prima con Castruccio Castracani e poi con Paolo Guinigi, per lungo tempo Repubblica e, con Elisa Bonaparte, Principato. Periodo d’oro della città fu quello medioevale; parte delle ricchezze lucchesi proveniva dalla lussuosa lavorazione serica (in “Lucca una città di seta”, Maria Ludovica Rosati scrive: “Già dal Medioevo un’intera città aveva plasmato buona parte della sua fortuna sulla seta”) e dai commerci anche internazionali (uno dei suoi mercanti, che abitava e lavorava a Bruges, fu immortalato da Jan van Eyck nel capolavoro “I coniugi Arnolfini”).
Di residenze signorili a Lucca ce ne sono diverse (dal medioevale palazzo Guinigi, affiancato dalla caratteristica torre con la cima alberata, a Palazzo Mansi sede del Museo Nazionale, a quello Ducale affacciato su piazza Napoleone…) e maggiormente abbondano le ville (sia quelle urbane sia principalmente quelle del contado, disseminate nel verde delle colline, con boschetti, parchi, giardini, architetture arboree, fontane, grotte, statue). Sono però le chiese, gli edifici sacri, a primeggiare in numero e splendore.
La cattedrale di San Martino fu consacrata nel 1070, alla presenza di Matilde di Canossa; i lavori che maggiormente influirono sul suo aspetto furono quelli due-trecenteschi. La facciata, ornata e decorata con eleganza, benché asimmetrica risulta particolarmente armoniosa. Di fianco all’arcata più piccola, quella di destra, la copia del gruppo statuario dell’ “Elemosina di san Martino” (l’originale sta all’interno della chiesa) immortala il santo a cavallo mentre taglia con la spada il mantello per donarlo cristianamente al povero. Dentro altri tesori ci attendono e due visi in particolare si stampano nella nostra memoria: quello di Ilaria del Carretto e quello del Volto Santo. A inizi ‘400 Jacopo della Quercia scolpì il sarcofago dove Ilaria, moglie del Signore di Lucca Paolo Guinigi, deceduta ventiseienne nel 1405, oppone la sua serena bellezza alle aggressioni e alle ingiurie del tempo. Custodito in un tempietto ottagonale di fine Quattrocento, il grande crocifisso ligneo noto come il “Volto Santo” accoglie i pellegrini che da secoli vengono a visitarlo. Gli occhi spalancati, il corpo senza segni di martirio e di sofferenza: un Cristo che trionfa senza enfasi sulla morte. Una leggenda racconta che Nicodemo, presente alla Deposizione di Cristo, lo scolpì su ispirazione divina. Messo su una barca e affidato senza equipaggio al mare, il crocifisso arrivò finalmente a Luni e in seguito, trainato da una coppia di torelli, a Lucca. Prodigi e miracoli lo resero celebre e degno di preghiere, tanto che la sua fama si estese ben oltre i confini cittadini e contribuì a fare di Lucca una tappa fondamentale della via Francigena, luogo non di transito ma di sosta.
La basilica di San Frediano, ricostruita nel XII secolo, mostra nella parte superiore della facciata un esteso mosaico bizantineggiante del Duecento. Si crede sia stato il vescovo Frediano, vissuto nel VI secolo, a fondare la chiesa primitiva. In una cappella interna, affrescata a inizi Cinquecento da Amico Aspertini, una scena raffigura la traslazione da Luni a Lucca del Volto Santo e un’altra illustra il miracolo di san Frediano mentre, con un semplice rastrello, devia il corso del fiume Serchio per arginarlo e incanalarlo. Sulla sommità della chiesa di San Michele, che sorge nella zona dove anticamente si trovava il Foro romano, svetta protettiva e vittoriosa la statua dell’Arcangelo, con le voluminose e imponenti ali spalancate, la lancia conficcata nelle fauci del drago simbolo del male.
I volti di Lucca
Vesto di panni il mondo
di marmi queste cento chiese
come una Cina dell’occidente
i re si contendono la mia seta
ma contro le mura s’infrangono
le fiamme dei draghi e delle bombe.
Apro le porte soltanto ai pellegrini
- in cattedrale, davanti al Volto Santo,
si fermano a pregare.
G.B.
I m i r a c o l i d i P i s a
Si potrebbe credere che i Miracoli cui fa riferimento il nome della splendida e celebre Piazza pisana siano legati alla Torre pendente; sembra sempre sul punto di cadere e invece per fortuna non precipita. Il ritornello di un’orecchiabile e popolare canzone del 1939 diceva: “Evviva la Torre di Pisa che pende che pende, e mai non vien giù”. Oggi i turisti scherzosamente si fanno fotografare mentre, grazie a un’illusione ottica, sembrano reggere la Torre evitando che si inclini ulteriormente: una foto ricordo da condividere con parenti e amici. Con straordinaria fantasia Magritte dipinse a fine anni Cinquanta una enorme piuma che si appoggiava delicatamente al lato pendente sostenendolo e puntellandolo.
Piazza Duomo è nota anche come Piazza o Campo dei Miracoli, fu Gabriele D’Annunzio a chiamarla per primo “Prato dei Miracoli”. Cattedrale, Battistero, Campanile e Camposanto, spuntano come candide meraviglie marmoree dal verde di un vasto prato e formano un complesso architettonico maestoso e omogeneo dove ogni singolo elemento arricchisce e rafforza l’insieme. Primo edificio la Cattedrale romanica dedicata all’Assunta, iniziata nel 1064 subito dopo la vittoria contro i saraceni di Palermo; il consistente bottino di guerra fornì i soldi necessari per avviare i lavori. Sull’armoniosa facciata si dispongono elegantemente portali, arcate, loggette, lunette, colonne, tarsie, sculture. Il Battistero, rivolto verso la facciata del Duomo, nasce a metà del XII secolo e viene completato verso la fine del XIV. L’esterno ornato, decorato e ricamato come un tessuto prezioso; l’interno semplice e spazioso accoglie il Pulpito (1260) di Nicola Pisano che richiama, per affinità e differenze, quello scolpito a inizi Trecento dal figlio Giovanni in Cattedrale. I lavori della Torre campanaria iniziano nel 1173 ma presto si interrompono per il cedimento del terreno e si concludono quasi duecento anni dopo. La leggerezza architettonica del monumento (vuoti e pieni si alternano con equilibrio) contrasta con la pesantezza del materiale prevalentemente marmoreo e si scontra con l’altezza della torre e con il terreno in parte acquitrinoso su cui instabilmente si fonda. Un poco defilato, quasi parallelo a Battistero e Duomo, il monumentale Camposanto del 1277 custodisce sarcofagi, monumenti funebri, lapidi, sculture e affreschi. A forma di rettangolo allungato le sue spaziose gallerie circondano un prato dove una leggenda racconta fu versata terra santa e miracolosa che le navi pisane portarono da Gerusalemme al ritorno da una crociata. Nel luglio 1944 l’artiglieria statunitense colpì con una granata il Camposanto: le travi crollarono, il piombo che ricopriva il tetto colò sulle pareti interne rovinando i dipinti, compreso il “Trionfo della morte” che Bonamico Buffalmacco affrescò nella prima metà del Trecento. Staccati dalle pareti, i disegni preparatori degli affreschi del Camposanto sono esposti nel vicino Museo delle Sinopie.
Si affacciano sull’Arno due scrigni. Il primo è il Museo di san Matteo, che conserva capolavori medioevali fra cui numerose croci dipinte con il Cristo raffigurato ora trionfante sul dolore e sulla morte ora al contrario sofferente, con gli occhi chiusi e la testa reclinata; il secondo, dall’altra parte del fiume, è il raffinato oratorio in stile gotico di Santa Maria della Spina che ha custodito per lungo tempo una spina della corona di Gesù.
La grandezza di Pisa ebbe una durata relativamente breve: dai primi anni del Mille sino a fine Duecento quando, nel 1284, vicino all’isolotto della Meloria, i pisani subirono una disastrosa sconfitta navale da parte dei genovesi. Per l’intero ‘400 venne dominata da Firenze che presto la conquistò definitivamente. La città rifiorì verso metà Cinquecento per merito di Cosimo I de’ Medici. Il Granduca fondò l’ordine militare e religioso dei Cavalieri di Santo Stefano e assegnò al Vasari il compito di ridisegnare la scenografica Piazza dei Cavalieri con la Chiesa di Santo Stefano e il Palazzo dei Cavalieri oggi sede della Scuola Normale Superiore.
Una leggenda racconta che a pochi chilometri da Pisa, verso il 44 d.C., sbarcò l’apostolo Pietro proveniente da Antiochia e diretto a Roma: dove l’apostolo innalzò un altare di pietra sorse la basilica di San Piero a Grado.
Il pendolo della storia
Trionfo sui saraceni
m’incatenano i genovesi
e conquista Firenze.
Saccheggio i palermitani
mi depredano i Doria.
Oscilla il pendolo della storia
più rapida l’ascesa
maggiore il tonfo.
G.B.
Matera capitale europea della cultura 2019
Matera, la cripta del peccato originale
Dal 1993 Patrimonio mondiale dell’umanità e nel 2019 Capitale europea della cultura, Matera, la “Città dei Sassi”, si sta imponendo all’attenzione nazionale e internazionale per la sua originale, inconfondibile bellezza. Camminare nel Sasso Barisano e in quello Caveoso, definiti nel secondo Dopoguerra una vergogna nazionale e adesso ammirati per il loro fascino arcaico, si rivela un’esperienza emozionante e indimenticabile. Un dedalo di vicoli ora in discesa ora in salita, che si intersecano, si biforcano, svoltano all’improvviso; un labirinto di stradine strettamente affiancate e abbracciate da case-grotte e chiese rupestri scavate nella pietra. Nelle abitazioni il vuoto prevale sul pieno, si toglie anziché aggiungere, si penetra dentro, sotto, nel buio. Sulla parte alta della città, dove convergono i due Sassi, la Cattedrale duecentesca di stile romanico pugliese, dedicata alla protettrice Madonna della Bruna, orienta e guida i turisti come un faro. Giù, in basso, come una lunga ferita e una profonda spaccatura, si apre la Gravina: un burrone scosceso, un precipizio a strapiombo punteggiato di cavità, anfratti e grotte, un canyon su cui sta in bilico ed è sospesa Matera. Dall’altra parte, si estende il Parco delle Murgia materana noto anche come Parco delle Chiese rupestri, un altopiano aspro e petroso che si specchia nei Sassi e viceversa: ognuno riflette dell’altro gli scorci più spettacolari e suggestivi. In questi ambienti sono state girate scene di film fra cui, nel 1964, “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini e, quarant’anni dopo, “La Passione di Cristo” di Mel Gibson.
In “Cristo si è fermato ad Eboli”, Luisa Levi, visitando il fratello Carlo confinato nel ’35 e ’36 in un paesino lucano, con toni accorati e indignati parla dei Sassi di Matera: “Questi coni rovesciati, questi imbuti…hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante…La stradetta strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se così quelle si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone…Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l’interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta…Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone”. Il romanzo di Carlo Levi, pubblicato nel 1945, scosse e turbò la coscienza nazionale e contribuì al difficile e lento risanamento dei Sassi, adesso finalmente rinati a una nuova e feconda vita; solo le case-museo ci ricordano le disumane e malsane condizioni di coloro che, in prevalenza contadini, braccianti, pastori e piccoli artigiani, ci abitavano.
Chi se lo poteva permettere risiedeva nel Piano, ai bordi e in posizione più elevata rispetto ai Sassi. Passeggiare oggi lungo vie e piazze del raccolto centro cittadino è un piacere: ci accompagnano le balconate panoramiche sui Sassi; le duecentesche chiese romaniche di San Giovanni Battista e di San Domenico, quella tardo barocca del Purgatorio; edifici signorili come il seicentesco Palazzo Lanfranchi, che ospita sia il Museo d’Arte Medioevale e Moderna sia l’imponente tela di Carlo Levi “Lucania ‘61” dedicata a Rocco Scotellaro. Se visitiamo il Museo archeologico “Domenico Ridola” impariamo che la storia di Matera ha radici remote che affondano nella Preistoria: la presenza di grotte naturali dove ripararsi e rifugiarsi e di una roccia tenera e facile da scavare favorì gli insediamenti umani e la “cultura” del vivere in grotta.
Parecchie caverne divennero luoghi di preghiera: oltre centocinquanta le chiese rupestri disseminate e mimetizzate in questi luoghi. Aggredite dall’umidità e dal muschio, violate dall’incuria e dall’abbandono precedenti, sbiadite, sfregiate, corrose, smangiate, le immagini affrescate di santi e sante, vescovi, monaci, arcangeli, apostoli, evangelisti, di Madonne oranti oppure col Bambino, Cristi benedicenti oppure crocifissi, ci accolgono come spettri benevoli. Questi affreschi mettono a confronto e a contatto la tradizione artistica greca con quella latina. A pochi chilometri da Matera, sulle buie pareti di una grotta chiamata “La cripta del peccato originale”, dipinti del IX secolo illustrano la creazione di Adamo ed Eva e il primo peccato commesso dall’uomo; questa cripta potrebbe essere considerata un simbolo della storia e del destino di Matera: anche quando la condanna sembra inappellabile, esiste una possibilità di salvezza e di riscatto.
Risvegli
Macchie, umidità
le figure svaniscono
una mano un volto
le pieghe di una veste ci ricordano
il talento il silenzio dei loro autori.
G.B.
Padova non soltanto del Santo
Le bellezze di Padova non si limitano a quelle più famose: la Basilica del Santo e la Cappella degli Scrovegni, che da sole comunque basterebbero. E’ una città d’arte di prima grandezza, una meta ineludibile. Ci accoglie dentro caffè eleganti (come il Pedrocchi inaugurato nel 1831), in piazze ampie, sotto portici che richiamano alla mente quelli bolognesi. Proprio da Bologna arrivarono gli studenti e i docenti che nel 1222 fondarono l’Università patavina; i loro stemmi decorano cortili, aule, loggiati. Padova è un luogo magnetico capace di attrarre santi, eroi, artisti, intellettuali, scienziati, pellegrini, turisti; parecchie statue di personaggi illustri decorano l’enorme spiazzo ellittico del Prato della Valle. Da Troia giunge l’eroe Antenore, leggendario fondatore della città; da Lisbona il santo patrono Antonio; da Costantinopoli, si racconta, le spoglie dell’evangelista Luca. Giotto, a inizi Trecento, affrescò la Cappella degli Scrovegni; Francesco Petrarca soggiornò a Padova più volte e ad Arquà, sui Colli Euganei, morì nel 1374; Galileo Galilei insegnò per quasi vent’anni all’Università.
Il Battistero è una Bibbia illustrata. Giusto de’ Menabuoi vi dipinse, verso il 1375, scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, storie di Maria, di Cristo e del Battista, episodi dell’Apocalisse, schiere di angeli, santi, profeti, apostoli ed evangelisti. Gli affreschi possiedono una tale ricchezza compositiva e narrativa da catturare sguardi e attenzione di chi li ammira. Fra le persone che assistono ai miracoli di Gesù, il pittore ritrae Francesco Petrarca. Più o meno nel 1380, Altichiero da Zevio affrescò le pareti dell’Oratorio di San Giorgio che dista pochi passi dalla Basilica di Sant’Antonio. Anche lui omaggia Petrarca, ritraendolo fra la folla che partecipa ai funerali di Santa Lucia. Nell’Oratorio, cappella funeraria di Raimondino Lupi di Soragna condottiero al servizio dei da Carrara, sono descritti episodi delle vite di tre santi, Giorgio, Caterina d’Alessandria e Lucia, soprattutto sono illustrati supplizi e torture dei loro martirii: veleno, ruota e decollazione per San Giorgio, ruota e decapitazione per Caterina, fiamme, olio bollente e gola tagliata per Lucia. In una cappella della Basilica del Santo, il veronese Altichiero e il bolognese Jacopo Avanzi eseguono un ciclo di affreschi dedicati all’apostolo Giacomo Maggiore; fra le vicende narrate quelle della sua decapitazione e dell’arrivo del corpo in Galizia sopra una barca guidata da un angelo. Nella Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani anche un giovanissimo Mantegna, a metà Quattrocento, illustrò fatti e storie di San Giacomo: solo alcuni frammenti sopravvissero però ai bombardamenti del 1944. Affacciata sul Prato della Valle, la Basilica di Santa Giustina custodisce, insieme alle spoglie della copatrona che fu condannata a morte perché cristiana, parte dei resti che si crede appartengano all’evangelista Luca. Al culmine del suo talento, Giotto affrescò nella Cappella degli Scrovegni vicende e scene della vita della Vergine e di Cristo, allegorie dei vizi e delle virtù, un potente Giudizio Universale. Nel suo capolavoro dà spessore, pienezza e plasticità ai corpi e alle figure, individualità concretezza ed espressività ai volti, volume e profondità agli spazi, mutando il linguaggio dell’arte, scrisse Dante, “dal greco al latino”. Il committente, il banchiere padovano Enrico Scrovegni, è raffigurato mentre offre il modellino della Cappella alla Vergine.
La città si identifica con Sant’Antonio, a lui è dedicata la Basilica meta di continui pellegrinaggi, uno dei santuari più visitati al mondo. Il predicatore francescano, originario di Lisbona, venne sepolto a Padova nel 1231; subito dopo cominciò la costruzione della chiesa. Cupole che ricordano quelle di San Marco e campanili simili a minareti; in una cappella sono custoditi il mento e la lingua del Santo e in un’altra l’Arca con le sue spoglie. Tra i miracoli più significativi quello del cuore dell’avaro: Antonio lo fa trovare dentro il forziere dove il defunto avidamente conservava le sue monete. Un gruppo di pittori, fra i quali Tiziano, racconta dettagliatamente i miracoli in un ciclo di affreschi nella Scuola del Santo. Anche Donatello, a metà ‘400, ne raffigurò alcuni sulle formelle bronzee dell’Altare della Basilica; contemporaneamente realizzò il monumento equestre, in bronzo, di Erasmo da Narni detto il Gattamelata, condottiero della Repubblica veneziana. La Serenissima dal 1405 al 1797 governò Padova.
A Padova
(città di beati e prodigi, sant’Antonio fa ritrovare miracolosamente il cuore di un avaro in uno scrigno)
Non ancella di Venezia ma sua pari.
Come lei hai cupole orientali
e in più dei minareti. Là c’è san Marco
qui Mattia e Luca lei ha due coppie
tu un cavallo solo, un gigante
sembra quello di Troia. Vengono
da levante i padri fondatori, il tuo Santo
invece da Lisbona. Conversano
studenti e professori riparati dai portici, somigliano
a quelli di Bologna. Ti piace
dare delle cose il loro meglio. Giotto
dona virtù e gloria al tuo denaro
ti porta in paradiso. Antonio
non sopporta gli avari
i cuori seppelliti in cassaforte.
G. B.
Magica Ferrara
Il territorio ferrarese accompagna il Po lungo il tratto conclusivo verso l’Adriatico. Per rendere fertili queste terre piatte, basse, umide, acquitrinose, nebbiose e paludose, è stato necessario liberarle dalle acque malsane prosciugandole, sono occorsi sforzi continui e costantemente rimessi in discussione: argini, canali, opere idrauliche, bonifiche. Al liocorno, uno degli emblemi estensi, animale immaginario dal corpo di cavallo e con un corno sulla fronte, si attribuiva la virtù magica di rendere limpide le acque infette depurandole dai veleni. In un dipinto ora al Museo del Duomo, Cosmè Tura con il suo stile nervoso, irreale ed eccentrico, raffigura san Giorgio, patrono di Ferrara, in groppa al suo cavallo mentre, trasformato per incanto in una creatura spettrale e pietrificata, trafigge il drago che ammorba l’aria col suo fiato mefitico. Il pittore è sepolto nella chiesa di San Giorgio fuori le mura.
I ferraresi, abituati a vapori e a foschie che velano la realtà, affinano una fantasia e una immaginazione che a volte sfociano nel magico, nel misterioso, nell’insolito; anche il pane che mangiano ha una forma originale. Chi abita in questi ambienti impara inoltre le arti della perseveranza, dell’accortezza e della costanza, della diplomazia e delle alleanze; è una questione di sopravvivenza. Cerca accordi momentanei ed equilibri instabili con forze naturali e storiche in perenne trasformazione, governate da influssi ora benigni ora maligni.
Agli inizi del 1100, dopo la scomparsa di Matilde di Canossa, Ferrara diventa libero comune (la Cattedrale viene costruita a partire dal XII sec.); il passaggio da comune a signoria avviene in tempi relativamente brevi, nel 1264 la città si consegna agli Este, il Castello viene iniziato nel 1385. A fine Duecento sono acquisite Modena e Reggio Emilia: una politica espansionistica frenata e contrastata dalla Repubblica veneziana e dallo Stato Pontificio. Grazie a Niccolò III, Borso d’Este e Leonello (Pisanello ritrae di profilo quest’ultimo in una medaglia celebrativa e in un dipinto), il Quattrocento è il secolo d’oro della città. Borso è protagonista degli affreschi di Palazzo Schifanoia, nei quali si mescolano temi encomiastici astrologici e mitologici; è lui che ottiene il titolo di duca prima per Reggio e Modena, feudi imperiali, poi per Ferrara, feudo papale. Per conservare potere e territori, gli Estensi potenziano le artiglierie e stringono rapporti matrimoniali con le più importanti famiglie (per esempio Ercole I, suo il merito di accogliere ebrei cacciati dalla Spagna, sposa Eleonora d’Aragona; suo figlio Alfonso, Lucrezia Borgia; le figlie Beatrice e Isabella si uniscono in matrimonio con Ludovico il Moro e con Francesco Gonzaga). Capitale di un ducato che si dilata da un lato fino all’Adriatico e dall’altro fino alla via Emilia e verso l’Appennino, nel 1598, con la morte di Alfonso II senza figli, Ferrara torna allo Stato Pontificio e la capitale viene trasferita a Modena.
Ferrara e gli Este quasi si identificano. Gli urbanisti e gli architetti ducali circondano la città di mura, ancora quasi intatte, e ne delineano il volto; il ferrarese Biagio Rossetti, a fine Quattrocento, progetta Palazzo dei Diamanti (oggi sede della Pinacoteca nazionale) e completa, con la cosiddetta “Addizione erculea”, l’ampliamento e il rinnovamento urbano. Parecchi grandi pittori lavorarono per gli Este, ad esempio Cosmè Tura, Ercole De’ Roberti, Francesco del Cossa, Dosso Dossi. Ludovico Ariosto fu per anni al servizio del cardinale Ippolito a cui, nel 1516, dedicò la prima edizione dell’“Orlando Furioso”; la “Gerusalemme liberata” venne inizialmente pubblicata a Ferrara, dove Torquato Tasso prima frequentò la corte e poi fu segregato nell’ospedale di Sant’Anna.
La creatività artistica trova a Ferrara un terreno propizio e un ambiente favorevole e ospitale e non si spegne dopo gli Este, anzi continua ad esprimersi nel corso del tempo. Le atmosfere metafisiche ferraresi affascinano De Chirico, che visse qui durante gli anni della prima guerra mondiale. Ferrara è al centro della narrativa di Giorgio Bassani che vi trascorse infanzia e giovinezza ed è sepolto nel Cimitero ebraico. Il Giardino dei Finzi-Contini, sebbene sia soprattutto un’invenzione letteraria, è divenuto uno dei luoghi simbolo della città. Bassani riunì buona parte dei suoi scritti in “Il romanzo di Ferrara”, che comprende anche il racconto “Una notte del ‘43” (pubblicato precedentemente in “Cinque storie ferraresi”) dove si fa riferimento all’eccidio fascista in cui vennero ammazzate undici persone: “Erano undici, riversi, in tre mucchi separati, lungo la spalletta del Castello”. Il racconto ha ispirato il film diretto nel 1960 dal regista ferrarese Florestano Vancini.
Il sonno del patrono
San Giorgio che ci proteggi fuori e dentro le mura
a che drago immaginario pensavi
a nome di quale principessa
sognavi di combattere, la notte
scorsa mentre i fascisti fucilavano
undici di noi ferraresi?
G.B.
(pubblicata nella raccolta “Le anime di Marco Polo”, Book Editore, 2015)
Ravenna e la “dolce ansietà d’Oriente”
Anticamente Ravenna occupava un posto centrale non solo nella nostra penisola ma nell’intero Occidente. Dal 402 (quando la corte imperiale da Milano, troppo esposta alle invasioni barbariche, si trasferì a Ravenna) fino al 476 (quando Odoacre depose l’ultimo imperatore), fu capitale dell’impero Romano d’Occidente.
Dal 425 al 450, Galla Placidia, sorella dell’imperatore, governò in nome del figlio. Risalgono al V secolo il suo prezioso Mausoleo dove risplende il cielo stellato blu e oro del mosaico della cupola; il Battistero detto degli Ortodossi per distinguerlo da quello Ariano; la basilica di San Giovanni Evangelista voluta da Galla Placidia come ringraziamento per essersi salvata da un naufragio durante un viaggio fra Costantinopoli e Ravenna.
Dal 493 al 526 Ravenna fu capitale del regno di Teodorico. Educato alla corte bizantina, cristiano di fede ariana (i seguaci di Ario non riconoscevano pienamente la natura divina di Cristo), il re degli ostrogoti venne inviato in Italia dall’imperatore d’Oriente per sconfiggere Odoacre. Il possente mausoleo di Teodorico si differenzia decisamente da quello di Galla Placidia e dagli altri antichi monumenti ravennati per forma, colore e per il materiale adoperato: il grigio tenue della pietra d’Istria al posto del consueto marrone-arancio dei mattoni. Iniziata dal re ma in seguito decisamente ridecorata dai bizantini, la basilica di Sant’Apollinare Nuovo è famosa per i suoi mosaici: sulle pareti della navata centrale la Processione delle Vergini, il Corteo dei Santi Martiri, il porto di Classe e il Palazzo di Teodorico.
Dopo la lunga, devastante e feroce guerra greco-gotica, Ravenna tornò in possesso dei bizantini. Nel 547 circa, il vescovo Massimiano (la sua preziosa cattedra ricoperta d’avorio è conservata nel Museo Arcivescovile) consacrò la basilica di San Vitale: nella parete a sinistra dell’abside splende il mosaico dell’imperatore Giustiniano, sfarzosamente ritratto con il suo corteo di sacerdoti, funzionari e soldati; a destra brilla il mosaico della regina Teodora, vestita di corona, gioielli e stoffe raffinatissime, in compagnia del suo seguito di dame. Massimiano, negli stessi anni, consacrò la basilica di Sant’Apollinare in Classe, a pochi chilometri da Ravenna. I mosaici del catino absidale sono di straordinaria bellezza: un cielo azzurro con novantanove stelle d’oro, un prato verdeggiante e fiorito con alberelli, cespugli, uccelli, piccole rocce, al centro la figura di Sant’Apollinare che prega, le mani rivolte verso il cielo e, al suo fianco, dodici pecorelle bianche disposte simmetricamente.
Ospite dei Da Polenta, Dante trascorre a Ravenna gli ultimi anni della vita fino alla morte nel 1321. Nonostante i tentativi dei fiorentini di recuperare le sue spoglie, è sepolto in un tempietto vicino alla chiesa di San Francesco. Nella seconda metà del Quattrocento la città fu dominata dalla Serenissima; in piazza del Popolo, dagli influssi veneziani, svettano due colonne che sostengono le statue dei santi protettori ravennati: sant’Apollinare (primo vescovo della città) e san Vitale (soldato romano convertito al cristianesimo e per questo gettato in un pozzo).
Gli esterni monocromi dei monumenti ravennati, semplici, austeri, lineari, privi di ornamenti (i campanili cilindrici vennero aggiunti nei secoli X e XI), sono ideali per avvolgere sobriamente le decorazioni musive multicolori e sontuose degli interni. Complementari fra loro e non antitetici sono la luce, che dai mosaici scaturisce ed emana, e l’oscurità dei tanti sarcofagi e sepolcri e arche e tombe e mausolei che Ravenna gelosamente custodisce. Luce e tenebra qua convivono e si confrontano in un rapporto instabile, mutevole e sempre insidiato dal fenomeno della subsidenza: secolo dopo secolo lentamente il terreno si abbassa, il suolo sprofonda.
Sono comunque i mosaici a rappresentare lo smagliante filo conduttore, l’anima raggiante di Ravenna, questa specie di Bisanzio d’Occidente dove, scrive Montale in “Dora Markus”,
…un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente.
Il purgatorio ravennate
(della subsidenza)
Una colomba gli agnelli
pavoni immortali pesciolini simbolici e reali
apostoli in processione 4 evangelisti
cortei di santi e martiri
inondati di luce. Affondano i mosaici
- secolo dopo secolo - nel buio della terra.
I sogni regali di Monza
Il Duomo di Monza è nato da un sogno regale. Una leggenda racconta che Teodolinda, regina dei Longobardi, sognò che lo Spirito Santo, nelle sembianze di una colomba, le avrebbe indicato il luogo dove costruire una chiesa dedicata a san Giovanni Battista. Su quella antica chiesa, che risale alla fine del VI secolo, sorse a partire del 1300 l’attuale cattedrale; Matteo da Campione, morto nel 1396, ne completò la facciata gotica.
Sulle pareti di una cappella absidale un vasto ciclo pittorico, cinquecento metri quadrati suddivisi in quarantacinque quadri e in cinque registri sovrapposti, raffigura la vita della regina. Il racconto per immagini inizia con l’incontro fra il re longobardo Autari e la cattolica Teodolinda, figlia del duca dei Bavari; prosegue con le loro nozze nel 589, la morte dello sposo forse per avvelenamento, il nuovo matrimonio con Agilulfo, duca di Torino, che nel frattempo si era convertito al cattolicesimo, la scomparsa del secondo marito; e si conclude con la morte di Teodolinda nel 627 circa.
Nell’ultima scena del quarto registro e in quelle successive del quinto si narrano e vengono illustrati il sogno di Teodolinda, la partenza del corteo della regina, l’apparizione della colomba, la fondazione del duomo, le donazioni della regina, del figlio Adaloaldo e di Gregorio Magno. Queste donazioni, che si arricchirono ulteriormente nel tempo, formarono un inestimabile tesoro di arte e di oreficeria altomedioevale oggi custodito nel Museo del Duomo. Ne fanno parte capolavori come il Dittico di Stilicone, la Croce di Agilulfo e la Chioccia con sette pulcini.
Il ciclo pittorico di Teodolinda, che un restauro cominciato nel 2009 e terminato alcuni anni dopo ha riportato per quanto possibile all’antico splendore, fu dipinto verso la metà del Quattrocento dalla bottega lombarda degli Zavattari. In una scena, un’iscrizione in latino orgogliosamente dice: “Osserva, tu che passi, come i volti appaiano vivi / e quasi respirino, e come i gesti corrispondano in tutto alle parole. / Questa cappella è stata decorata dagli Zavattari…”. Le centinaia di personaggi hanno vistosi copricapi ed elaborate acconciature, vestono abiti sfarzosi, partecipano a feste, banchetti, battute di caccia, cavalcano destrieri dagli eleganti paramenti e bardature, sono immersi in ambienti aristocratici tipici di una corte quattrocentesca contemporanea sia agli Zavattari sia ai Visconti che si proclamavano continuatori ed eredi dei sovrani longobardi.
Nell’altare della cappella di Teodolinda viene custodita la Corona Ferrea, formata da sei placche rettangolari di oro, gemme e smalti vitrei, tenute unite, nella parte interna del diadema, da un cerchietto di metallo che si crede ricavato da un chiodo usato per la crocifissione di Cristo e che Elena, madre di Costantino, si dice donò al figlio. La Corona, allo stesso tempo reliquia cristiana e simbolo di regalità, attribuiva un enorme prestigio a chi la possedeva e servì nei secoli per incoronare gli imperatori Carlo Magno, Federico Barbarossa, Carlo V d’Asburgo e Napoleone.
L’altro sogno regale di Monza è la sua Reggia (composta dalla Villa Reale, dal Giardino e dal Parco) che si confronta senza sfigurare con quelle più rinomate di Versailles, Schonbrunn e Caserta. Il Giardino, creato dagli Asburgo, venne poi inglobato, per volontà francese, all’interno di uno dei Parchi più grandi d’Europa, capace addirittura di contenere, dal 1922, l’Autodromo.
La Villa fu costruita in soli tre anni (1777-1780) su progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini, lo stesso del Teatro alla Scala milanese. Volle realizzare questo sogno principesco l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, figlio dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria la quale finanziò i costosissimi lavori. Con Ferdinando fu residenza arciducale, con Eugenio di Beauharnais divenne vicereale e con i Savoia infine reale. Poco distante, dove l’anarchico Gaetano Bresci uccise nel 1900 re Umberto I, sorse nel 1910 la Cappella espiatoria. Dopo la morte del re, la Villa subì da parte dei Savoia una specie di condanna all’oblio e di damnatio memoriae: venne chiusa, svuotata degli arredi, abbandonata e dimenticata. Negli anni Venti si tennero comunque qui le Biennali delle arti decorative; i consistenti restauri del nuovo millennio ci stanno finalmente restituendo questa meraviglia a lungo trascurata.
Il sogno di Teodolinda
Sogno una colomba
posarsi su un prato, ecco
spunta la basilica
dove sono sepolta, da qui
rivedo la mia vita
scorrere su un affresco: le nozze
i mariti il figlio la corona regale. Sogno
non mi abbandonare.
Verona di acque e di ponti
Verona è così ricca di storie, leggende, arte, natura, che risulta difficile trovare un fatto, un avvenimento, un racconto, un monumento, un ambiente, capaci di primeggiare da soli sugli altri, risulta complicato individuare un luogo da cui iniziare la visita; c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Uno dei simboli e delle icone di Verona è indubbiamente l’Arena, l’ imponente anfiteatro (I sec. d.C) che ospitava gladiatori e fiere e oggi cantanti e orchestre. Le altre architetture di epoca romana disseminate e inglobate nella città (il teatro, Porta Iovia oggi Borsari, Porta dei Leoni e l’Arco dei Gavi) non si riducono a isolate e frammentarie rovine. Da sempre Verona collega fra loro pianura padana e zone alpine, il Nord e il Sud d’Europa. E’ ponte, porta e soglia.
Vi soggiornò a lungo il re goto Teodorico che morì verso il 526; una leggenda (accennata in un bassorilievo sulla facciata della basilica di San Zeno e raccontata da Carducci nella poesia “Teodorico di Verona”) narra che il re, mentre si bagnava nell’Adige, vide un cervo magnifico; per inseguirlo salì in groppa a un misterioso cavallo, un essere diabolico che al termine di una lunga corsa gettò Teodorico dentro il cratere di un vulcano infernale. Verona è stata la prima capitale del regno longobardo; qui, nel 572, re Alboino venne ammazzato dalla moglie. La macabra storia romanzata riferisce che Rosmunda, aiutata da alcuni complici, si vendicò del marito che l’aveva costretta a bere nel teschio del padre.
Anche a causa del devastante terremoto che nel 1117 colpì l’Italia del Nord e particolarmente Verona, è nel corso del periodo comunale e poi della signoria scaligera (1277 – 1387) che la città delinea il volto e l’aspetto che ammiriamo. La chiesa di San Zeno è un gioiello dell’arte romanica; le gotiche Arche scaligere esaltano la forza guerriera dei Della Scala e proiettano verso il cielo le statue equestri che sostengono. Nella chiesa di Sant’Anastasia iniziata nel 1290, un affresco di Pisanello raffigura un cavaliere che non teme confronti: il biondo ed elegante San Giorgio che sotto gli occhi trasognati della Principessa sale sul suo bianco destriero per sconfiggere il Drago, emblema del Male.
Dante lungamente godette dell’ospitalità dei signori veronesi; nel Purgatorio accenna vagamente ai “Montecchi e Cappelletti”. La tragedia di Shakespeare, che inizia con queste parole: “L’azione si svolge nella bella Verona”, renderà immortale l’impossibile ed eterno amore fra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti; il cortile della casa di Giulietta accoglie oggi folle di turisti e innamorati di ogni parte del mondo.
Verona è città di acque e di ponti. L’Adige, il secondo fiume italiano più lungo, l’attraversa. Il Ponte Scaligero (costruito a metà Trecento, fatto saltare nel ’45 dai tedeschi in ritirata e accuratamente ricostruito nel primo dopoguerra) mette in comunicazione la trecentesca fortezza di Castelvecchio (oggi sede del Museo Civico) con l’altra sponda del fiume. Da Castelvecchio, costeggiando l’Adige, si arriva a una piazza dove si trova, affiancata da una torre e da un campanile, una delle più belle chiese romaniche italiane, San Zeno. Sull’altare risplende la Pala di Andrea Mantegna, capolavoro rinascimentale; nella cripta sono custodite le spoglie del santo protettore, vescovo di Verona nella seconda metà del IV secolo e originario dell’Africa del Nord. La popolare scultura duecentesca, il “San Zen che ride”, lo raffigura di carnagione scura, sorridente, una mano che stringe il pastorale da cui pende un pesce. Alcuni suoi miracoli hanno come scenario l’Adige nel quale il santo volentieri pescava: arrestò un’inondazione, resuscitò un annegato, salvò un uomo e i suoi buoi trascinati dalla corrente.
Vicino a San Zeno e all’Adige c’è San Zenetto o San Zeno in Oratorio, qui è custodito il grosso sasso su cui, riferisce la leggenda, il santo si sedeva per pescare in riva al fiume. Proprio partendo da questa chiesetta appartata si potrebbe cominciare la visita a Verona; non conviene concluderla prima di avere visto il Museo di Storia Naturale (custodisce i fossili di Bolca: centinaia di specie vegetali e animali, prevalentemente pesci, che risalgono a cinquanta milioni di anni fa), un museo dove la scienza diventa anche arte.
San Zeno di Verona
(viene descritto sorridente mentre, seduto sopra un sasso, pesca nel fiume. Si narra abbia resuscitato un annegato)
“Guarda se come a Lazzaro
sai ridargli la vita”. Trascinano
il corpo dell’affogato
davanti ai miei piedi. “Dunque
ne sei capace?” Si beffano
del poco che ho pescato. “L’acqua
dell’Adige con noi è generosa” - rido
del loro ridere. “Ritorna fra di noi
dico svegliandolo. E voi siategli amici”.
(tratta dalla sezione “Le città dei santi” compresa nella raccolta “Le anime di Marco Polo”, Book Editore, 2015)
Modena:
casa di San Geminiano e capitale estense
Dopo la morte senza figli di Alfonso II, Ferrara torna allo Stato della Chiesa e la capitale degli Este viene trasferita nel 1598 a Modena. Il cuore del Ducato si allontana dal Po e si avvicina alla via Emilia. Cesare, il nuovo duca, riesce a portare a Modena almeno una parte degli incredibili tesori artistici ferraresi. Francesco I (che si fece ritrarre e immortalare in un busto marmoreo dal Bernini e in un dipinto da Velàzquez) avvia nel 1634 la costruzione sia del Palazzo Ducale di Sassuolo sia del Palazzo Ducale modenese (occupato oggi dall’Accademia Militare) e arricchisce di numerose opere la collezione estense. Con Francesco III si costruiscono due edifici di pubblica utilità: il Grande Ospedale Civile degli Infermi e il Grande Albergo dei Poveri. Purtroppo, nel 1746, la sua galleria, una delle più belle d’Italia, perdeva parecchi capolavori: cento fra i quadri più pregiati venivano venduti, per centomila zecchini d’oro, ad Augusto III Elettore di Sassonia e re di Polonia. Lasciarono definitivamente l’Italia per Dresda dipinti di Correggio, Veronese, Tiziano, Annibale Carracci, Guido Reni … Ciononostante, l’attuale Palazzo dei Musei (ed ex Albergo dei Poveri) resta un considerevole contenitore di bellezze storiche e artistiche. Il Museo Lapidario e quello Civico Archeologico ci ricordano, con i loro reperti, che Modena, l’antica Mutina, fu una importante colonia romana; la Biblioteca Estense conta fra i suoi tanti libri uno dei codici miniati rinascimentali più preziosi: la Bibbia di Borso d’Este; la Galleria Estense possiede disegni, monete, medaglie, maioliche, strumenti musicali, un consistente patrimonio di dipinti, sculture in marmo e in terracotta. Opere in terracotta dei modenesi Guido Mazzoni e Antonio Begarelli, alcune magistrali come il “Compianto” del primo e la “Deposizione” del secondo, sono presenti nelle chiese cittadine.
La bellezza di Modena non nasce con gli Este; la città vanta infatti un glorioso passato medioevale, tanto che viene considerata una delle capitali italiane del Romanico. Il Museo Lapidario del Duomo espone le otto metope della prima metà del 1100 con figure fantastiche, enigmatiche, ambigue e mostruose : gli Antipodi, l’Ermafrodito, l’Ittiofago, il Fanciullo col Drago, la Sirena bicaudata ecc. Nel 1099 viene iniziata la Cattedrale (dal 1997 Patrimonio dell’Umanità Unesco); Lanfranco e Wiligelmo ne furono gli artefici principali, uno come architetto e l’altro come scultore. Del primo una lastra sull’abside dice: “Lanfranco, famoso per ingegno, dotto e capace, di quest’opera è principe, rettore e maestro”; del secondo un’iscrizione sulla facciata a sua volta afferma: “Di quanto onore tu sia degno, o Wiligelmo, tra gli scultori, è reso manifesto ora per la tua scultura”. Suoi i rilievi che narrano alcune storie della Genesi, una specie di piccola Bibbia scolpita. Durante la costruzione della chiesa, Lanfranco pretese che vi fossero trasferite le spoglie di san Geminiano. La stessa iscrizione che loda Wiligelmo definisce la Cattedrale “Casa dell’insigne Geminiano”; nel 1106, alla presenza di Matilde di Canossa, vi furono traslate le sue spoglie. Lanfranco e Wiligelmo furono successivamente sostituiti dai Maestri Campionesi, a loro si devono all’esterno l’apertura del rosone e la realizzazione della Porta Regia, all’interno la creazione degli splendidi ambone e pontile.
Nella cripta della Cattedrale, dentro a un’urna marmorea, sono custoditi i resti di San Geminiano, vescovo della città nella seconda metà del IV secolo, in un’epoca di declino e decadenza. Il Duomo racconta diffusamente vita e miracoli del Santo protettore. Sull’architrave della Porta dei Principi sei bassorilievi illustrano il suo viaggio verso Costantinopoli per liberare la figlia dell’imperatore dal diavolo: l’esorcismo riesce, Geminiano riceve dei doni e riparte per Modena, dove muore il 31 gennaio 397. Sul fianco meridionale è murata una lastra scolpita da Agostino di Duccio a metà Quattrocento, in essa viene omesso il viaggio del Santo ma si descrive un nuovo miracolo, la liberazione di Modena dai barbari. Una leggenda narra che le preghiere del Vescovo fecero calare sulla città una nebbia talmente fitta da renderla invisibile agli Unni; in realtà Attila e Geminiano non si incontrarono mai. Di Agostino di Duccio è la scultura che raffigura il Santo mentre salva un bambino, che sta precipitando dalla torre della Ghirlandina, afferrandolo per i capelli. Prodigio che non si rinnova quando l’editore Formiggini , il 29 novembre 1938, si lancia dalla Torre campanaria, simbolo della città, per “testimoniare con il suicidio”, ricorda una lapide, “l’assurdità delle leggi razziali”.
Geminiano vescovo
(salva più volte la città da demoni e barbari, la nebbia è sua alleata)
Avanzate a cavallo. I fedeli
pregano nelle chiese. Mi sporgo
dalle mura. Non è la prima
volta diavoli
che vi scaccio da Modena. Alzo il bastone
pastorale recito qualche
esorcismo. Cala
sui vostri occhi una fumana fitta
siamo invisibili.
(dalla raccolta “Le anime di Marco Polo”, Book Editore, 2015)
La magnetica Urbino
La città di Urbino è il paesaggio di colline che la orna, le mura che la cingono, il centro storico che si stringe attorno al suo Palazzo e, principalmente, l’incantevole e immenso Palazzo Ducale. Tutti questi aspetti, che costituiscono un insieme inscindibile, si attraggono creando una specie di “campo magnetico” fondato sulla bellezza. C’è un intenso scambio di sguardi fra l’interno e l’esterno, il dentro e il fuori le mura, un flusso ininterrotto che agisce da legame e da collante.
In un appassionato ritratto della sua città natale, Paolo Volponi (Cantonate di Urbino,1985) scrive: “Si dovrebbe andare a Urbino di settembre, fra il 10 e il 20 del mese... In quel periodo con molta probabilità vi capiterà di trovarvi…delle giornate di singolare splendore, aperte tra marina e l’Appennino…Se poi asseconderete la fortuna locale alzandovi presto la mattina, troverete davanti a voi…il paesaggio appenninico indorato dal primo sole e soffuso in basso, tra le vallate e le forre, di bianche e soffici nebbie come di un mare irreale…”. In compagnia di mia moglie sono arrivato a Urbino il 10 ottobre di oltre trent’anni dopo, e grazie al fatto che il clima dell’attuale ottobre corrisponde forse a quello settembrino di una volta, la mattina seguente abbiamo avuto la fortuna di ammirare una nebbia lattiginosa che, come una gonfia nuvola bassa, copriva campi, alberi, casolari, lasciandone magicamente trasparire qua e là frammenti e spicchi.
A pochi chilometri dal centro cittadino sorge su un colle la chiesa di San Bernardino degli Zoccolanti. Da lì conviene forse partire, sia per il panorama sia perché nella chiesa è sepolto Federico da Montefeltro, il protagonista della storia urbinate. Fino a inizi Ottocento il mausoleo custodiva la celebre “Pala Montefeltro” di Piero della Francesca. Non era certo bello Federico con il naso in parte mozzato e un occhio cieco. Per evitare di mostrare l’occhio destro trafitto da una lancia durante un torneo lo si ritraeva di profilo. Così fanno sia Pedro Berruguete, che lo dipinge insieme al figlioletto Guidobaldo, sia Piero della Francesca che nella “Pala Montefeltro” (oggi alla Pinacoteca di Brera) lo raffigura vestito di una lucente corazza in ginocchio ai piedi della Madonna col Bambino e che nel “Dittico dei duchi di Urbino” (ora agli Uffizi) lo ritrae in compagnia della moglie Battista Sforza. Con Federico, educato da giovane in due capitali della cultura come Venezia e Mantova, condottiero e mecenate, insignito dagli inglesi dell’ordine della Giarrettiera e dagli aragonesi di quella dell’Ermellino, conte e dal 1474 duca, la magnificenza della città raggiunge il culmine. Dal 1444 al 1482 la governa trasformandola in uno dei centri più importanti del Rinascimento italiano.
Il cuore di Urbino è il possente ed elegante Palazzo Ducale: Baldassare Castiglione, nel “Cortegiano”, lo definì “una città in forma di palazzo”. Vi lavorarono l’architetto dalmata Luciano Laurana e poi il senese Francesco di Giorgio Martini. Al primo si deve la realizzazione dei due fiabeschi torricini e dell’armonioso Cortile d’Onore sulle cui facciate corrono frasi in latino che, come questa, esaltano Federico: “ La sua giustizia, la sua clemenza, la sua liberalità e la sua rettitudine uguagliarono e adornarono in tempo di pace le sue vittorie”. All’interno si susseguono interminabili sale, ma la stanza più preziosa è il piccolo studiolo ornato da tarsie lignee e da dipinti di uomini illustri; nei sotterranei trovavano spazio lavanderia, cucina, scuderia e magazzini. Il Palazzo, oggi sede della Galleria Nazionale delle Marche, ospita capolavori come la “Madonna di Senigallia” e la “Flagellazione” di Piero della Francesca; la misteriosa “Città ideale”; la cosiddetta “Muta” di Raffaello che a Urbino, nel 1483, è nato.
La facciata ovest del Palazzo, quella dei torricini, è la più scenografica; la si vede raggiungendo la Rocca Albornoz, lungo la salita va visitato l’Oratorio di San Giovanni, affrescato a inizi Quattrocento dai fratelli Salimbeni.
La nascita nel 1506 dell’Università, che oggi anima così vivacemente Urbino, è merito del figlio di Federico, Guidobaldo, che due anni dopo muore senza eredi: la dinastia dei Montefeltro si estingue.
Gli enigmi della “Città ideale”
Hanno lasciato tutto
così com’era. Case e strade vuote.
Dove saranno scomparsi
e per quali motivi?
Il cielo terso la città pulita.
Uniche tracce di vita due piccioni
appollaiati sopra a un cornicione:
avanguardie che annunciano il ritorno
o ultimi sopravvissuti?
I tempi di Pavia
Il Ticino, uno dei maggiori fiumi italiani per portata e per lunghezza, nasce in Svizzera e, poco prima di confluire nel Po, lambisce Pavia, anticamente chiamata Ticinum. Un caratteristico ponte coperto (costruito a metà Trecento, distrutto nel 1944 e poi ricostruito) collega le due sponde.
Volete vedere com’era Pavia agli inizi del Cinquecento? Recatevi nella chiesa romanica di San Teodoro e ammirate, sulla controfacciata, l’affresco che dall’alto e a volo d’uccello la ritrae. Ci colpiscono le mura che cingono e proteggono la città, il ponte coperto che si allunga sopra il fiume, il Castello visconteo sullo sfondo, le tante torri (cento, diceva un cronista; oggi ne restano poche e una, che sorgeva accanto al Duomo, è crollata nel 1989). Sopra una parete della chiesa, un affresco formato da diverse scene racconta vita e miracoli di san Teodoro, vescovo nella seconda metà dell’VIII secolo; nell’ultimo riquadro il Santo fa esondare (così narra una leggenda) il Ticino: gli accampamenti dei nemici che assediavano la città vengono allagati.
Non il tipico mattone rosso lombardo, ma l’arenaria, tanto incantevole nei suoi riflessi dorati quanto friabile, è la pietra usata per la chiesa di San Michele Maggiore. Qui nel Medioevo vennero incoronati alcuni re d’Italia, fra cui Federico I Barbarossa. Sulla porta principale, risalta un bassorilievo dove è scolpito l’arcangelo Michele mentre schiaccia il drago simbolo del male.
L’appartata chiesa di san Pietro in Ciel d’Oro custodisce le spoglie del senatore romano Severino Boezio, del re longobardo Liutprando e del Dottore e Padre della Chiesa sant’Agostino. Tesori inestimabili e prestigiose memorie. Boezio, accusato dal re dei goti Teodorico di tradimento, fu incarcerato e poi ucciso a Pavia nel 524. Durante la prigionia scrisse La consolazione della filosofia, che gli appare come una soccorrevole donna “dagli occhi sfolgoranti e penetranti”. Fu Liutprando, verso il 725, a trasferire dalla Sardegna a Pavia (che nel VII e VIII secolo fu capitale del Regno longobardo), i resti di sant’Agostino poi accolti nella splendida Arca marmorea trecentesca che svetta all’interno della basilica.
Già nell’antichità esistevano dunque i presupposti e le radici per una futura Pavia colta. L’Università (in cui insegnarono Monti e Foscolo, Volta e Spallanzani) fu avviata nel 1361 dai Visconti e poi ampliata nella seconda metà del Settecento dagli Asburgo.
Milano si impadronì di Pavia nel 1359. I Visconti e poi, da metà Quattrocento, gli Sforza, lasciarono in eredità monumenti straordinari. Il Castello, realizzato negli anni Sessanta del Trecento, e la Certosa, una delle meraviglie architettoniche italiane. La posa della prima pietra della Certosa, da parte di Gian Galeazzo Visconti, avvenne il 27 agosto 1396 ma la Chiesa fu consacrata nel 1497. Di tutto il complesso certosino, con i suoi chiostri e celle monastiche, bassorilievi e statue, colpisce soprattutto l’opulenza e la maestosità della facciata rinascimentale, per la quale si utilizzò il marmo di Candoglia, lo stesso del Duomo di Milano. All’interno della chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie, due monumenti funebri, il primo di Gian Galeazzo - nel suo testamento dispose che il suo corpo dovesse riposare nella Certosa - il secondo di Beatrice d’Este e Ludovico il Moro, il quale, a fine Quattrocento, si impegnò perché i lavori proseguissero con vigore.
Quando visitiamo da turisti le città, ci troviamo inevitabilmente immersi nella storia e nelle storie, nel flusso del tempo e nelle sue stratificazioni, in una compresenza di passato presente e futuro che a volte ci disorienta. Impossibile non fare nostre queste nitide e semplici parole scritte da sant’Agostino nelle Confessioni: “Che cos’è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente”.
La Visione di sant’Agostino
(e la morte di San Girolamo)
Libri ovunque nella mensola sopra il tavolo
impilati sul pavimento,
Agostino alza gli occhi
sorpreso da una luce che rischiara
la sua stanza al tramonto:
annuncia la morte di Girolamo.
Pistoia
Pistoia, un lembo di Galizia in Toscana.
Pistoia ha forme e colori tipicamente toscani, ma ne ammorbidisce le gradazioni. Ci troviamo in una Toscana “minore”, dove l’aggettivo non ha significati riduttivi e non intende sottovalutare la città, al contrario vuole rimarcarne la bellezza un poco schiva, dimessa nel senso di senza fronzoli, sussurrata più che gridata, che va scoperta e non si esibisce. Qui non siamo sovrastati da un eccesso di arte e di bellezza, non corriamo il rischio di ammalarci della sindrome di Stendhal. Pistoia ci invita a non accelerare, ad assecondare un ritmo che rallenta, a godere della sua eleganza fatta di autenticità. C’è un perfetto equilibrio, né troppo né poco, fra il suo raccolto centro storico e le opere d’arte che conserva e che ammiriamo.
Sostare in Piazza Duomo dall’aspetto prevalentemente medievale e indugiare con lo sguardo sulla Cattedrale, sul Campanile che s’innalza di fianco e sul Battistero in marmo bianco e verde, procura un piacere legato più alla rilassatezza che all’eccitazione. Dalla piazza si raggiunge comodamente l’Ospedale del Ceppo fondato negli anni Settanta del Duecento per accogliere, curare e dare conforto ai più deboli e bisognosi. Una leggenda racconta che l’edificio sorse nel punto in cui un tronco cavo di castagno fiorì in pieno inverno. Sopra il loggiato dell’antico ospedale cittadino, corre un fregio di ceramica invetriata: una lunga striscia dai colori brillanti eseguita, a partire dal 1525 circa, quasi completamente da Santi Buglioni. Oltre ai bianchi e agli azzurri tipici della scuola dei della Robbia, nel cui ambito l’artista si era formato, spiccano le tinte vivaci e squillanti dei verdi, gialli, neri, viola. Le Sette Opere di Misericordia che il fregio illustra (“Vestire gli ignudi”, “Albergare i pellegrini”, “Visitare gli infermi”, “Visitare i carcerati”, “Seppellire i morti”, “Dar da mangiare agli affamati” e “Dar da bere agli assettati”) si ispirano a questo brano del Vangelo di Matteo: “Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”.
Uno dei cinque viandanti raffigurati nella seconda scena del fregio ha cucite, sull’ampio cappello che protegge da sole e pioggia, le tipiche conchiglie divenute simbolo ed emblema del pellegrinaggio jacopeo; un altro, forse proprio San Giacomo il Maggiore, protettore dei pellegrini, ha il capo circondato da un’aureola.
In una cappella della Cattedrale si possono ammirare sia il reliquiario che conserva un ossicino del Santo, sia l’Altare di S. Jacopo, capolavoro di oreficeria creato tra fine Duecento e metà Quattrocento. Seduto in trono l’Apostolo occupa la parte centrale dell’Altare. Alcuni riquadri descrivono episodi della sua vita, fra cui il trasporto per mare del corpo a Compostela. Nella “Legenda Aurea”, il domenicano Jacopo da Varagine narra: “…dopo la morte di Iacopo, i suoi discepoli…deposero il corpo del santo su di una nave e…salirono anch’essi su quella nave senza nocchiero, l’angelo del Signore li fece approdare sani e salvi in Galizia”.
Come mai san Giacomo (a Pistoia, Jacopo o Iacopo) è da secoli il santo protettore della città? come si spiega questo stretto legame con Compostela? A metà del XII secolo, il vescovo locale Atto ottenne da quello di Compostela un piccolo frammento osseo della testa del Santo, una reliquia di grande valore e richiamo che gli fu consegnata da due pellegrini pistoiesi, Baldo e Mediovillano.
Prima di lasciare la città, conviene visitare l’appartata Pieve di Sant’Andrea: custodisce il pulpito marmoreo, dalla concitata energia espressiva, che Giovanni Pisano terminò a inizi Trecento. All’esterno della chiesa, i Re Magi scolpiti sull’architrave del portale maggiore sembrano invitarci a proseguire il viaggio; magari verso la Galizia.
Un miracolo lungo il Cammino
(verso Santiago di Compostela)
In fretta veniamo ricevuti
dal giudice mentre sta pranzando,
gli raccontiamo che nostro figlio
appeso alla forca da parecchi giorni
è vivo: le spalle del Santo
hanno impedito che soffocasse.
Se quello che dite è vero
il galletto dentro questo piatto
si alzerà cantando.
(fa parte della raccolta di versi “Le anime di Marco Polo”, Book editore 2015)
La Cintura di Prato
Qual è la cosa più preziosa e sacra di Prato?
E’ una sottile striscia di lana di colore verde e filo d’oro custodita in un reliquiario di cristallo. Sta chiusa, come in un forziere e in uno scrigno, dentro l’altare della prima cappella a sinistra del Duomo. Si crede sia il Sacro Cingolo o Cintola che la Madonna, nel momento della sua Ascensione, donò all’apostolo Tommaso.
Filippo Lippi, a metà Quattrocento, dipinse (tempera su tavola al Museo di Palazzo Pretorio) la Vergine mentre affidava la cintura a un giovane san Tommaso inginocchiato.
Ma come arrivò a Prato, da Gerusalemme, questa straordinaria reliquia? Gli affreschi di fine Trecento di Agnolo Gaddi, nella cappella del Sacro Cingolo, e la predella dipinta circa cinquant’anni prima dall’allievo di Giotto Bernardo Daddi (ora nel Museo di Palazzo Pretorio), lo illustrano. L’apostolo Tommaso consegnò la cintura ad un sacerdote di Gerusalemme; il sacerdote la lasciò ai suoi eredi finché la cintura arrivò nelle mani del pratese Michele, portata in dote dalla moglie Maria; nel 1141 i due sposi raggiunsero Prato su una imbarcazione e, trent’anni dopo, Michele, in punto di morte, consegnò la cintura alla Pieve di Santo Stefano che diventerà poi l’attuale Cattedrale.
La presenza di una reliquia così importante ha dato prestigio alla città, ne ha rafforzato l’identità, favorì l’arrivo di pellegrini anche illustri, abbellì di opere d’arte la chiesa che la ospitava. Negli anni Trenta del Quattrocento, Donatello e Michelozzo, su un angolo della facciata, crearono un pulpito marmoreo scolpito con gioiosi e festanti angioletti danzanti. Questo capolavoro serviva, e tuttora serve, per mostrare alla folla raccolta nella Piazza la venerata reliquia mariana; la forma semicircolare del pergamo favoriva e favorisce l’ostensione della reliquia. La cerimonia si ripete cinque volte l’anno (Natale, Pasqua, 1° maggio, 15 agosto e soprattutto l’8 settembre per la Natività della Vergine); l’ostensione è una festa contemporaneamente religiosa e laica che coinvolge tutta la città e l’intera collettività. Due delle tre chiavi dell’altare che custodisce la Sacra Cintola appartengono al Comune, la terza è nelle mani dei canonici della Cattedrale; il Sindaco segue il Vescovo sul pulpito.
Il patrono di Prato, a cui il Duomo è dedicato, è santo Stefano; la Sacra Cintola lo mette solo parzialmente in ombra. Nella cappella maggiore della Cattedrale risalta il ciclo pittorico di Filippo Lippi “Storie dei Santi Stefano e Giovanni Battista”. A proposito del monaco-pittore, si racconta che la giovane e incantevole suora Lucrezia Buti, nel 1456, proprio durante una delle ostensioni del Sacro Cingolo, uscì dal convento per andare a convivere con Filippo. Dalla loro relazione nascerà a Prato Filippino, a sua volta eccellente artista.
Fra la cintura di Maria e la millenaria tradizione tessile di Prato il legame è evidente e attraversa i secoli. L’elegante dimora costruita a fine Trecento dal mercante Francesco Datini (che aprì compagnie commerciali a Pisa, Genova e Barcellona e una banca a Firenze) ci ricorda che il suo proprietario fondò proprio a Prato la compagnie dell’Arte della lana e dell’Arte della tinta. L’ex Cimatoria Campolmi, fabbrica che da circa metà Ottocento si affermò nella lavorazione del tessile, ospita dal 2003 il Museo del Tessuto, prestigiosa collezione e testimonianza della storia pratese. Nel romanzo Storia della mia gente, pubblicato nel 2010, Edoardo Nesi scrive: “mentre il distretto pratese e tutta l’Italia del tessile manifatturiero sono entrati da tempo in una crisi forse irreversibile dovuta alla libera circolazione mondiale dei tessuti cinesi, proprio a Prato, nei capannoni lasciati vuoti dalle microaziende fallite dei pratesi…si è installata una delle comunità cinesi più grandi d’Europa”. Dagli inizi del Duemila globalizzazione e concorrenza cinese hanno fatto la loro tempestosa irruzione anche qui, provocando paure, tensioni, insofferenze, ostilità, conflitti; problemi che si spera possano gradualmente migliorare. Con queste parole si chiude il libro di Nesi: “Non so bene dove stiamo andando, ma di certo non siamo fermi”.
A chi crede
solo a quello che vede
e tocca con le mani
lascio la mia cintura
sottile corda tesa
fra la terra e il mistero.
G.B.
SIENA
Piazza del Campo gareggia in bellezza con quelle di San Pietro e del Campidoglio, con piazza San Marco a Venezia e dei Miracoli a Pisa. Se ci chiedessimo quale fra queste preferiamo, faremmo fatica a scegliere. La sua forma ci ricorda quella di una conchiglia, dai suoi mattoni sembra nascere Venere.
Tappa fondamentale della via Francigena, Siena possiede uno dei primi ospedali per pellegrini, quello di Santa Maria della Scala, dove i viandanti trovavano accoglienza e ristoro prima di rimettersi in cammino. Il nome si riferisce a quella che la madre del Beato Sorore, mitico ideatore dello Spedale, vide in sogno prima che il figlio nascesse, oppure alla scalinata della Cattedrale che sorge di fronte all’ospizio.
Il rapporto fra Siena e Roma è contemporaneamente di emulazione e competizione. Uno dei simboli senesi è la lupa che allatta due gemelli. Secondo una leggenda la città fu fondata da Senio e Aschio, figli di Remo, che per timore di essere ammazzati come il loro padre dallo zio Romolo, fuggirono portando con sé la statua della lupa capitolina. Nel Medioevo (principalmente tra fine Duecento e prima metà del Trecento), la città risplende e si ammanta di arte e bellezza: perfino i registri contabili dell’ufficio comunale delle finanze sono rivestiti con tavolette lignee pitturate chiamate biccherne. Caterina da Siena, patrona degli italiani, contribuisce a convincere Gregorio XI ad interrompere il lungo esilio avignonese e a riportare, nel 1377, la sede del pontefice a Roma.
Gli animali, fantastici e reali, occupano un ruolo di primo piano nell’immaginario e nella vita locali. Su ogni stemma delle diciassette contrade ne vediamo effigiato uno: lupa, aquila, bruco, chiocciola, civetta, drago, giraffa, istrice, leocorno, oca, pantera, rinoceronte, tartaruga, elefante, montone, delfino, conchiglia marina. I cavalli da corsa sono i protagonisti del Palio che si svolge in Piazza del Campo il 2 luglio e il 16 agosto.
Il culto mariano ha radici antiche. Prima della vittoriosa battaglia contro i fiorentini a Montaperti (1260) i senesi donano la città alla Vergine. Il 9 giugno 1311, una lunga e festosa processione accompagna fino dentro la cattedrale la “Maestà” di Duccio di Buoninsegna che viene collocata sull’altare maggiore. Circondata da un folto gruppo di angeli e santi, la Madonna in trono col Bambino risalta sulla faccia anteriore di questa enorme pala dipinta. Sulla pedana dove Maria appoggia piedi e vesti, in latino e con lettere dorate sta scritto: “Madre Santa di Dio, sii ragione di pace per Siena. Sii vita per Duccio, poiché ti dipinse così”. Pochi anni dopo Simone Martini (che raggiunge la corte papale di Avignone dove muore nel 1344) impreziosisce la Sala del Mappamondo con la sua “Maestà” parlante: “Diletti miei ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti / ma se i potenti a’ debili fien molesti / gravando loro o con vergogne o danni / le vostre oration non son per questi / ne per qualunque la mia terra inganni”.
I senesi aspiravano a innalzare la più imponente e monumentale cattedrale della cristianità; siccome non si accontentavano del Duomo esistente, dedicato all’Assunta, cominciarono a costruirne uno “nuovo” di cui il precedente avrebbe costituito una parte: il transetto. Ci pensò la terribile peste del 1348 a ridimensionare ambizioni e progetti; a causa dell’epidemia morì anche Ambrogio Lorenzetti che qualche anno prima, sulle pareti della Sala dei Nove, aveva affrescato e celebrato gli effetti benèfici del Buongoverno in città e in campagna. Alla giustizia, indispensabile per il bene comune, l’affresco dedica questi versi: “Guardate quanti ben’ vengan da lei / e come è dolce vita e riposata / quella della città du’ è servata”.
La Maestà di Duccio di Buoninsegna
(9 giugno 1311)
Mentre viene portata
splendida e luminosa
enorme e colorata verso la Cattedrale
si forma una lunga processione;
prelati e frati dietro la Maestà
donne e bambini in coda. Si mischiano
ai rintocchi delle campane
canti lodi preghiere.
Nella mia piazza a forma di conchiglia
Ripassano riposano comprano le mie cose
curo, sono beni preziosi,
pellegrini infermi e facoltosi;
affari devozione
e buongoverno vanno di pari passo
presto denaro al papa
stimo gli imperatori. Vivono
nella mia piazza a forma di conchiglia
Venere e la Vergine Assunta.
(La poesia “Nella mia piazza a forma di conchiglia” è tratta dalla sezione “La città dei santi” della raccolta “Le anime di Marco Polo”, Book editore).
Da Bologna a Gerusalemme
Bologna ti accoglie e ti fa accomodare; si mostra ospitale, affabile, aperta; ama la vita. E’ contenta di sé ma non si vanta, orgogliosa senza arroganza, operosa senza fretta, colta e gaudente. Scrive Guido Piovene nel suo indimenticabile Viaggio in Italia: “E’ bella per la carica, per l’abbondanza del colore; ed il colore che la satura è prevalentemente il rosso o il rossastro... i portici, gli archi, le cupole, tutto fa pensare a una rotondità carnosa. Lo stesso dialetto, l’accento, sono abbondanti e tondeggianti…La bellezza a Bologna non si pensa, ma si respira, si assorbe, si fa commestibile”. I due appellativi ricorrenti, la dotta e la grassa, costituiscono un connubio indissolubile: Bologna sa accogliere le differenze senza cancellarle. Convivono, una di fianco all’altra, la Bologna della vita quotidiana e quella dove la Storia si esprime ai massimi livelli, le due interagiscono e si integrano alla perfezione.
La facciata della basilica di San Petronio rappresenta il ritratto più fedele della città: la parte inferiore rivestita di marmi e statue, quella superiore formata di semplici mattoni. Ognuna valorizza l’altra, i contrasti si trasformano in armonia. Identica sintesi positiva riguarda gli elementi architettonici orizzontali e verticali, femminili e maschili, così caratteristici: costeggiano le strade chilometri e chilometri di portici – gallerie confortevoli di portoni e negozi – e s’innalzano verso il cielo - dritte o inclinate - torri una volta particolarmente fitte. Un filo sotterraneo lega gli affollati e concitati Funerali di Togliatti di Guttuso con le atmosfere ovattate e rarefatte delle nature morte di Morandi, il rosso delle bandiere con l’ocra delle bottiglie.
La bellezza evidente e palpabile di Bologna ci fa dimenticare a volte la sua grandezza, che travalica confini regionali e nazionali: “Bologna è tra le città più belle d’Italia e d’Europa”, dice Piovene.
Qui il mondo ha fatto irruzione più di una volta. Nel 1088 viene fondata la prima università europea: statue e busti di medici decorano le pareti del Teatro Anatomico e stemmi di studenti i muri dell’Archiginnasio; alcune arche sepolcrali di studiosi di diritto e glossatori di codici giuridici sono tuttora visibili fuori le chiese di San Francesco e San Domenico. Dentro quest’ultima troviamo l’arca marmorea scolpita, nel corso dei secoli, da artisti del valore di Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio, Niccolò dell’Arca, Michelangelo. Il sarcofago custodisce le reliquie del fondatore dell’ordine domenicano che, nato in Spagna, muore a Bologna nel 1221. Re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II, viene tenuto prigioniero nel palazzo che porta il suo nome fino alla sua scomparsa nel 1272. A Bologna, scelta nel 1327 come sede pontificia in Italia, arriva Giotto e sorge il fastoso palazzo-castello di Porta Galliera che verrà distrutto pochi anni dopo dagli stessi bolognesi stanchi di soprusi e vessazioni. Siamo nel 1530: nella basilica di San Petronio il papa incorona imperatore Carlo V.
Se fosse costruito il Museo dei musei, almeno tre capolavori della Pinacoteca Nazionale ne farebbero parte: San Giorgio e il drago di Vitale da Bologna, l’Estasi di santa Cecilia di Raffaello (un tempo nella chiesa di San Giovanni in Monte) e la Strage degli innocenti di Guido Reni. Altre perle emettono un candido bagliore dai loro piccoli scrigni: il Compianto su Cristo morto, capolavoro di Niccolò dell’Arca, di fianco all’altare nel santuario di Santa Maria della Vita; i dipinti di Lorenzo Costa e di Francesco Francia dentro la cappella della potente famiglia dei Bentivoglio, in fondo alla chiesa agostiniana di San Giacomo Maggiore.
I bolognesi (da Bononia, colonia latina) si chiamano anche felsinei (dall’insediamento etrusco di Felsina) e petroniani (da Petronio, vescovo dal 430 al 450 circa e santo protettore). La città si identifica col suo patrono che subentra in questo ruolo a san Pietro. A Pietro è dedicata la Cattedrale, sede dell’autorità vescovile, a Petronio la Basilica, simbolo dell’autonomia municipale: iniziata nel 1390, quasi contemporaneamente al Duomo milanese, rimane di proprietà comunale fino al 1929. Per merito di Petronio viene fondato il meraviglioso complesso di Santo Stefano o delle Sette Chiese, quando entriamo in quella del Santo Sepolcro abbiamo l’impressione di trovarci a Gerusalemme, una Gerusalemme bolognese.
Bologna Petronio e la loro Gerusalemme
(le chiese di Santo Stefano, che il vescovo Petronio
inizia a costruire, sono chiamate la Gerusalemme bolognese)
Seconda soltanto a Roma?
Non faccio gare. So che san Pietro
ha lasciato volentieri il posto
di patrono al vescovo Petronio.
Pietra su pietra edifica le mura
che mi hanno protetto,
a Petronio ho dedicato una basilica
degna di un papa. Roma certo ma anche
la Milano di Ambrogio
venuto fino qui a consacrare
le reliquie di Agricola e Vitale,
e inoltre Parigi
come me maestra negli studi.
Sopra la torre degli Asinelli
guardo così lontano
e però non mi vanto
se non della Gerusalemme che conservo
qui a pochi passi.
Testo tratto dalla sezione "Le città dei santi" della raccolta "Le anime di Marco Polo", dedicata alla città felsinea.
Le fotografie sono di Giancarlo Baroni
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua