F e r n a n d a R o m a g n o l i
Fernanda Romagnoli, La folle tentazione dell'eterno,
a cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella.
Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat, InternoPoesia, 2022.
Fernanda Romagnoli, La folle tentazione dell’eterno, a cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella. Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat, Interno Poesia Editore, Latiano (BR) 2022, pp. 231.
UNA DONNA ALLA FINESTRA
di Isabella Vincentini
«Il mio poco darei / per un unico verso che resti / testimonio di me» scriveva Fernanda Romagnoli in una poesia intitolata Carnevale appartenente alla raccolta del 1980 Il tredicesimo invitato. Dopo più di quaranta anni da allora, grazie alla cura di Paolo Lagazzi e della figlia, Caterina Raganella, una grande autrice dimenticata (anche se in vita ha avuto i riconoscimenti, l’amicizia e il sostegno di autori che si adoperarono a promuoverne l’opera come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni e Diego Valeri) torna ad avere una nuova visibilità. La stessa eccellente prefazione di Lagazzi, un appassionato e certosino saggio critico di sessantasette pagine, ne illumina la parabola umana e poetica conferendole un’identità, una direzione e un senso, un telos riassunto nel titolo dell’antologia: La folle tentazione dell’eterno, un verso della Romagnoli tratto da una poesia della raccolta Berretto rosso del 1965, Quando: «Quando il mio Dio mi assedia / da un’aurora qualunque, / al mio povero corpo imponendo / il suo innesto divino / la folle tentazione dell’eterno». Cinque versi emblematici in cui si raggruppano i temi portanti dell’Assoluto e dell’eterno, dell’aurora e della fragilità umana, del corpo e della sua sofferenza. Lagazzi nel presentarci la sua grande opera afferma che, come altre che hanno tardato a lungo ad essere riconosciute, non è un caso letterario ma un classico imprescindibile non solo a livello italiano. «Questa tragica e struggente, ferita e sublime poetessa», afferma, è da ricondurre lungo il percorso di altre figure cruciali di mistici per i richiami, le assonanze e le suggestioni che «dal Vangelo di Luca all’Apocalisse, da Ildegarda a Tommaso D’Aquino» appartengono «ad una lunga tradizione scritturale e sapienziale»: la Romagnoli «sa riplasmare fonti di tale altezza in una tessitura d’immagini tanto spasmodiche, palpitanti e convulse quanto originali, icastiche e sfolgoranti».
Sottolineandone l’originalità e l’unicità del dettato, il prefatore ne coglie alcune risonanze con le folgorazioni di Giovanni della Croce, le desolazioni del Qohélet ed i metafisici inglesi. Il fulcro dell’introduzione, In sangue e in fuoco: le vertigini dell’anima, si accentra sulla irrisolta ricerca di un Assoluto, una Verità, un Altrove che è allo stesso tempo «miraggio di Dio» e sogno di Libertà: un Dio senza nome, un Lui che si cela e ci tiene a distanza, irraggiungibile, che «alterna il buio fitto dell’assenza all’eccesso di una luce che ci stordisce e annienta»: un Assoluto «che è l’esatto rovescio del sentimento delle strettoie della vita».
Con affondo tematico e allo stesso tempo maestria stilistica, Lagazzi insegue immagini e ricostruisce fonti dei testi, ne contestualizza il percorso biografico addentrandosi nei riferimenti personali, ne commenta e chiarisce i caratteri fonici e compositi, evidenzia la ricchezza musicale della poesia, il “tocco” da pianista della Romagnoli diplomatasi all’Accademia di Santa Cecilia, ed annota le cadenze, il ritmo, i registri e i cromatismi dei versi. «Gli esempi possibili di rime pregnanti e rivelatrici sarebbero moltissimi. Ma è soprattutto in quelle collocate alla fine dei testi, giocate riprendendo una parola più o meno lontana, che la Romagnoli sa creare mirabili rintocchi gnomici, bruschi e illuminanti cortocircuiti di senso»; «solo attraverso un inesausto lavoro di lima o di filtri la sua lingua ha potuto liberare negli anni le proprie potenzialità di bellezza senza mai, peraltro, cancellarne il sostrato di tormento, preservandone sempre l’ardore ‘sottotraccia’».
Infatti fin dalla prima raccolta del 1943, Capriccio, i versi della Romagnoli sono pervasi da inquietudine ed attesa: «Si ricorda, si attende… Che s’attende? / Già altissimo pino attinge il sole» è la chiusa del testo Campane e fontane. Qui, nell’armonia dei cieli mattinali di Roma, Fernanda si sofferma sulle cupole di Valle Giulia che le appaiono simili allo «slancio dei sogni liberati», chiede grazia per la sua «sete d’altre religioni» e la salvezza le appare nell’acqua delle due fontane «ove mi ribattezzo», in un’attesa di rinascita che si protende verso la luce e il sole. Fiumi canori corrono nel cielo mentre le campane muovono nell’aria lunghi canti simili a «visioni d’antichissimi santi». Nella poesia che segue, L’oliveto, ritroviamo l’alba, l’aurora, il sorgere del sole con il brillio sul mare, i colli e gli olivi e ancora il vento, un’immagine chiave che percorre tutto il cammino poetico di Fernanda. In Campane e fontane l’ansito di vento fa rabbrividire i pensieri nudi situati nel cuore, mentre nell’altro componimento col paesaggio di fronde, foglie, rami, alberi, campi e maggesi dell’oliveto il vento marino attraversa in armoniosa movenza le chiome degli alberi portando refrigerio ai tronchi sofferenti, placa la sua violenza, ma cade un’oliva verde, la più gracile, «e su lei dolora il ramo» del padre olivo.
Come oscillando tra paganesimo e francescanesimo la natura si anima, ha un che di creaturale, nasce, soffre e muore, cerca salvezza, attende la luce del mattino che penetra nelle fibre aperte dei tronchi come nell’anima assetata di linfa e di luce della Romagnoli. Il fogliame assume il colore di un antico argento ed «ogni più scarno olivo / sembra un dio sofferente». Ci fa riflettere questa potente immagine del dio sofferente: forse solo la sofferenza, forse solo le tribolazioni quotidiane della vita ci accomunano a questo dio: che sia un dio evangelico, biblico o pagano egli ci rammenta la nostra debolezza, la sua fedelta alla terra da lui amata, la nostra partecipazione alla sua sofferenza, la nostra richiesta di aiuto, la nostra speranza di una terra promessa.
In Eresia, un testo della raccolta Confiteor, compare un uccello dal canto vermiglio che è allo stesso tempo piaga segreta, tarlo, amore come spada in fiore, giglio e cardo: il canto che preme nel petto «a furia di rintuzzarlo» si trasforma in saio che la Romagnoli tesse a sé stessa: «allo Spirito un tremendo / cilicio – un eretico saio – / in cui ardo con tutto il corpo mio, / sulla via del patibolo – già fiamma – / ridendo del rogo di Dio».
A quale Dio è rivolta la poesia eretica «mio Tutto, / mio Nulla, mio Chi – illegalmente / nominato in me Dio»? Ad un Lui con cui non abbiamo contatti: come leggiamo in una poesia intitolata Lui, «Stipuliamo impossibili contratti, / ordini riceviamo, scritti in codice, / di cui fingiamo attenti la lettura» e dal suo silenzio riconosciamo che è Lui. Un dio che è Padre, Re, Ospite alla porta, un dio che è Signore, Grazia e Iddio: «Ma Iddio manda fra loro / un’ape che ne serbi la memoria / quando il morto rosaio non sarà / che una corona di spine», leggiamo in Rosario. Un dio cacciatore: «Mio Dio mio cacciatore»; un dio assente: «Il vermiglio singhiozzo che sboccia / su dal mio cuore verso la Tua assenza!»; un dio dal volto sconosciuto: «se in un lampo potessi intravedere la Tua Faccia / nel fulgore assoluto che Tu sei; / per assurdo – abolito il tuo mistero – / se nell’ombra di Te, che a Te m’abbraccia / e Ti fa mio, più non trovassi scampo: / Signore, anche potessi – non vorrei». Un dio che è Grazia tremenda: «A me verrà la Grazia / con l’erpice di luglio, la vampata / del sole a piombo».
Tra luci ed ombre la poesia e la stessa anima della poetessa bruciano in queste vampate, si fanno slancio e fiamma ma anche fumo, cenere e braci come nel testo Sobillazione: «Nei ghetti del mio corpo, certe notti, / i cinque sensi circolano cupi / sobillando lo Spirito: “A che vale / il tuo slancio di fiamma sempre eluso”». Oppure nella poesia Non risponde: «Folle incalzai le spalle del mattino/ – ero gremita d’impeti, d’azzardi –: / ma quando, al colmo, consegnò la fiaccola, / m’accorsi che già il meglio della luce / s’era perduto». Tra i ghetti del corpo che sobillano lo Spirito, Fernanda si sente bruciare come fiamma, geme e nel suo «grumo di braci» invoca «la pietà della cenere». In Tra fuoco e cenere rivolgendosi alla figlia, immagina sé stessa quando sarà solo memoria nei ricordi di lei e si descrive come «una figura che abbandona la finestra, / già sfilato ogni anello».
Ma chi era Fernanda Romagnoli autrice di quattro raccolte pubblicate in vita, Capriccio (1943), Berretto rosso (1965), Confiteor (1973) e Il tredicesimo invitato (1980), ed inoltre del postumo Mar Rosso (1997)? Nata a Roma nel 1916, il padre ferroviere e la madre casalinga, sposata con Vittorio Raganella, un ufficiale di Cavalleria che seguì negli spostamenti tra Firenze e Pinerolo, Caserta e Merano, deceduta a Roma nel 1986 all’età di settant’anni, dopo una lunga malattia contratta per un’epatite che la colpì durante la guerra, potremmo dire che era una donna alla finestra, con lo sguardo rivolto sia al dentro che al fuori: la ringhiera, la rosa, i gigli d’ombra, i cieli mattinali, i prati di sterpi e di fossi, il mare e le ginestre, gli orti e i cortili, le case basse con il tetto di bandana, tegoli e cimasa, l’edera, le magnolie e la verbena, i colli e i fiumi, le porte e i cancelli.
C’è sempre una porta nei suoi versi come ci sono numerosissime finestre: «Per i viali i giardini e i davanzali / d’ogni finestra coltivai una gemma». La finestra è un affaccio sul mondo e sulla vita, sui sogni e la scrittura, sull’infinito e il cielo che si trovano oltre i vetri, su quel sole e quella luce che la chiamano come una calamita e di cui scrive con immagini icastiche e penetranti: «Balza dal vetro un cucciolo di sole».
Lo sguardo lascia gli specchi, altra immagine ricorrente in tutte le raccolte con cui Fernanda ci parla di sé per inoltrarsi «in una fuga libera, a perdifiato» dell’anima che segue il volo degli uccelli. «Da un profondo ritaglio di finestra / a stupirmi mi perdo che il sereno / non mostri turbamento / né segni che la terra abbia soffiato / una spora di sé nel firmamento». Allo stesso modo delle spore che germinando producono un nuovo seme (Il cardo), anche l’anima e la vita trascorsa “all’ombra della stanza”, nella “cella”, nel “nido minuscolo”, con la “lampada dimenticata accesa”, si proiettano oltre porte e cancelli e sopravvivono nel firmamento. Nella poesia In agguato la stessa Verità, che filtra dai vetri ed è “immagine” e “non sostanza”, è un riverbero che però «col rapido lampo ci ha svelato / ciò che fuori brilla, / e non libera il cuore dal tormento / di vivere sempre in agguato».
…L’interno e l’esterno, il finito e l’infinito si incontrano tra le fessure di un canto alla finestra e dialogano tra loro. «Cessato è l’alleluia” dice la poetessa alla propria anima in una poesia intitolata Incendio: «più nulla in cui bruciare», solo cenere, «Anima, e poi?»: «Anima, questo vuoi?». L’anima risponde «Accetto», ed il colloquio simmetricamente prosegue nel testo Le voci in cui Fernanda ci parla dei suoi affanni, di un «balbettio divino» che l’assedia di segreti tutto il giorno mentre l’anima risponde: «Comprendo».
Ed ancora: «come una vecchia casa alla finestra: / adesso l’anima mia cova in sordina / questo fermento, questo feroce canto». Il canto si fa spora di tutto ciò che morendo rinasce in altre forme e «nulla aggiunge all’ombra della stanza, / con il rapido lampo ci ha svelato / ciò che di fuori brilla, / e non libera il cuore dal tormento / di vivere sempre in agguato». La luce, le albe, il sole, il mattino, le stelle, il firmamento e la luna appartengono come l’universo ai sogni verticali di questa donna, al suo smisurato desiderio di libertà ed evasione come «quando il sudario del cielo / l’oriente getta una rosa / riconsumando il supplizio della resurrezione della carne».
La Romagnoli prega il suo Dio e, come leggiamo in Preghiera, non con l’anima tiranna ma col corpo portatore di pena che invoca barlumi. «Crocefissa alla vita» nella sua folle tentazione dell’eterno, nella sua sete di assoluto la Romagnoli si consuma senza letizia all’interno di un “quadro quotidiano” aspirando alla Libertà, alla Grazia, alla Bellezza e all’infinito. «L’ansia d’avvenire», «sempre in cerca di un ben che la distrugge», è attesa di un’altra attesa: «parvenza è la mia vita», «Io son come la nube sempre nuova / che dell’umore del cielo si colora»: lei è una creatura che si arrende all’immenso, che patisce una bellezza non sua. «Mi portai col mio corpo alla finestra» scrive in Commiato, ricordando un amore giovanile, e già da allora parla di sé come di una donna sola, sconfitta, che si lascia esistere.
Fernanda è lei stessa il tredicesimo invitato, colui al quale viene aggiunto un panchetto e che mangia nel piatto scompagnato. Nella poesia omonima ci confida la sua estraneità all’ambiente familiare e sociale in cui le è stato dato di vivere, si sente un’ospite della sua stessa esistenza, inetta nel ruolo a cui è stata relegata, ma sente anche una gratitudine smarrita che le suscita lacrime, un’attesa senza significato: «ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato», «E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere». All’improvviso capisce che solo un’ombra siede al suo posto: lui, il tredicesimo invitato, è rimasto chiuso fuori. Nel ruolo di moglie, di casalinga e di madre, nonostante la dedizione e gli affetti, la Romagnoli non si ritrova: «Prima o dopo qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva» leggiamo in Falsa identità; sì, il sogno, il desiderio di libertà e di infinito, il canto della poesia è simile «al minuscolo scoppio della foglia / che sbuccia il ramo a livello di finestra, / e neppure ti accorgi di vederla».
T’aspetterò, tutt’una con la casa,
insieme impallidendo a poco a poco;
non vorrò a lungo accendere la luce:
preparerò la tavola a tentoni
scegliendo la tovaglia preferita
né scorderò gli anemoni.
Poi ghiaccia siederò, l’anima in fiamme,
un libro in mano chiuso.
[Tu dici]
«L’anima in fiamme, un libro in mano chiuso», ammalata di cielo, la Romagnoli con i suoi tanti sogni a ragionare, scrive poesie di fuoco tra le due facce del suo stesso stigma: la psiche, le ragioni del cuore, il deserto della vita e il fuori, l’hillmaniana Anima mundi. Le finestre come i vetri e gli specchi ma anche gli uccelli, il volo e soprattutto il vento sono leitmotiv frequentissimi e ricchi di significato: «Le finestre non guardano che pietre, / da che segarono l’albero e il fringuello portò altrove il suo canto». Come il fringuello e come la rondine della sua prima raccolta, allo stesso modo Fernanda si sente un uccello in gabbia e allo stesso modo dei tanti volatili che ritroviamo nella sua opera aleggia e si libra con l’anima che sia pavone o colomba, avvoltoio, libellula, pettirosso, merlo, rondine o aquila. Dalle finestre fantastica ed insegue sogni e desideri, viaggia verso orizzonti sconosciuti, altri cieli, che siano un altrove oppure terre lontane. Mentre gli altri dormono lei cammina lontana da loro come un’Arianna con la sua «inappagata sete beduina / nei cui miraggi dilagava Iddio». Le rondini condotte da nuove primavere attraversano il mare e il libero infinito dirette verso altre terre e chi staccatasi dallo stormo non tornerà è di certo la più felice: «nulla si sa di chi non torna ma il suo dolor chi resta qui lo dice». Ed è di questo dolore che ci parla la sua incandescente e repentina poesia.
Ma il mio piacere è osare
di sorridere a cose sconosciute
la cui forma impalpabile mi tenta,
il mio piacere è amare
le fantasie nel sogno possedute.
[La rondine]
Il volo, che sia quello del merlo o del pettirosso spaventato (Notizia) come il cuore della Romagnoli che non sa dove trovare scampo, oppure dell’avvoltoio o della libellula come nella poesia Declino, della rondine, dell’aquila o del tordo, è l’antitesi tra il chiuso della casa e l’Oltre, tra la Libertà e il dito bruciacchiato di Eva che fra i robot smaltati della cucina distrattamente accende la fiamma dei fornelli mentre fantastica una «fuga / libera, a perdifiato, sotto i piedi / levando uccelli» (Eva). È lo stesso desiderio di evasione dalle ristrettezze del quotidiano presente in un’altra poesia, Massaia: «E s’affanna, massaia poco accorta / che ha dissipato l’ore del mattino, / che il mezzodì / – ragno divino – ha colto / nella rete del fare e del non fatto».
Nel tordo morto per stenti che il cacciatore trova stecchito a causa del gelo di gennaio mentre lodava il suo signore (Il tordo), c’è il paragone con l’anima priva dello splendore e della luce del divino rappresentata dall’uccello privo di vita, caduto «senza l’urto rovente, senza l’eco / del cielo sulla stella del fucile». Tra la rondine e l’aquila, la superiorità dell’aquila sulla rondine, ci dice l’autrice in Superiorità, «non sta / nel fatto che sia la rondine impotente / a levarsi più in alto: / ma che l’aquila possa / indifferentemente / portare il proprio volo ad ogni altezza». Ed ecco che il volo ed il vento diventano rivoli dell’anima come nella poesia Bilancia e tra bisbigli di nidi e fogliami portano fantasmi d’amore e un gaudio insostenibile all’uccello in gabbia, come dentro la propria casa fatta di solitudine e delle ristrettezze della vita.
La metafora centrale del vento in tutta l’opera della Romagnoli è simbolo di Libertà e di forza ma anche dell’ispirazione poetica: «Mia parola, rintànati, lucertola / che ha perduto il suo verde / a furia di esplorare la pietraia. // Avvoltoio o libellula tu sia: / piegare l’ali, posarsi, che gioia».
Nella preziosa Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat a conclusione del volume apprendiamo che nella copertina dell’edizione del 1943 di Capriccio vi era un’illustrazione di A. Achilli in cui era raffigurata una donna trasportata dal vento che sorvolava un paesaggio campestre popolato di olivi. Questa donna alla finestra trasportata dal vento non è solo mulier ma domina, signora, padrona che osservando il mondo esterno ascolta le proprie voci interiori «Con la vela dei venti sempre tesa / d’una all’altra finestra». Sì, con una vela sempre tesa, che sia un foulard legato al collo o forse un laccio, trasportata dal vento Fernanda emerge dalla lettura dell’antologia come una donna alla finestra trasportata non dal vento delle circostanze ma dal volo alto della propria poesia. Ci appare viva e presente come se l’avessimo conosciuta, come se fossimo entrati nella sua casa, come se ci fossimo affacciati anche noi dalle sue tante finestre, come se avessimo visto i suoi oggetti quotidiani e il volto dei suoi familiari. Il suo è un dettato speculare e misterioso, una visione rovesciata che ha il potere di riflettere nitidamente i dettagli della vita come l’uccello che trilla nel testo In agguato in cui un vetro si spalanca e richiude lasciando intravedere una verità che è immagine riflessa, non sostanza: «col rapido lampo ci ha svelato» «ciò che di fuori brilla», il riflesso poetico del reale.
Una donna trasportata dal vento, che si lascia condurre dal soffio della natura seguendone i cambiamenti vitali da uno stato ad un altro e, allo stesso tempo, inseguendo il vento delle proprie trasformazioni interiori. Amarezza, sofferenza e privazione emergono dallo specchio della scrittura come schegge concrete di un vissuto ancorando la poesia ad una datità di vita che vola verso il fuori e l’infinito, ma non si tratta di una poesia confessionale né di diarismo come in altre scritture femminili, bensì di dialoghi con l’anima. La critica ha sottolineato fra l’altro le affinità della Romagnoli con la Guidacci, la Dickinson o Christina Rossetti, l’influenza nella sua prima produzione della poesia pascoliana, carducciana e dannunziana nonché alcune reminiscenze caproniane.
Al cuore raggelato dalla sofferenza fa da contraltare l’azzurro del cielo, il manto dell’infinito: la finestra è il suo stesso sguardo diretto verso il fuori, verso un senso superiore che la libera dagli affanni. Fernanda dialoga allo specchio con sé stessa e alla finestra con il cielo, e questo dialogo la libera dalla prigionia e limitatezza della propria esistenza come un’ape operosa alla ricerca dell’invisibile. Nei suoi testi ritroviamo il tessuto della sua vita in dettagli di piccolo conto che si trasformano in visioni rovesciate. Fernanda ascolta sé stessa e chiede al vento di portare via ciò che le causa sofferenza, le delusioni, i colpi inferti dalla vita – si affida all’energia del vento che la guida.
Il vento non ha confini, è impossibile da imprigionare, genera forza restando invisibile allo sguardo umano, scorre sul mare della vita e porta lontano. È movimento, volubilità e mutevolezza, stimola e incoraggia, è fiato e anima, è una forza elementare come l’onda della vita. È il soffio vitale della natura, l’energia che porta cambiamenti da uno stato ad un altro, che conduce ad un nuovo equilibrio, può portare via ciò che è inutile e stagnante e capovolgere la sorte.
Il vento è trasformazione e allo stesso tempo fuoco primordiale, Spirito di Dio: collega la terra al cielo, fa variare gli elementi della natura. Dalla prima poesia dell’antologia La rondine fino al testo dell’ultima pagina, Ad ignoto, il simbolo del Vento scorre tra i fogli, si affolla tra le righe, compare quasi in ogni pagina, scompiglia le carte e si trasforma in ansito di vento o in molte altre forme, figure, volute, immagini, onde (vento salino; il vento delle stelle; il vento con la lama da beccaio; il bacio di vento che sfiora, secca tosse di vento; vento gelido di roccia; figurina di cera restò al vento; vento che suscita intorno roteanti prati; il vento più forte dei miei dolci furori; in fila dietro il piffero del vento; la rosa dei venti; in mezzo metro di vento; come statue da un vento; vento di sottobosco; vento d’infanzia; il vento delle scale; vento d’aprile; controvento; il grecale; vascello di lamine d’argento / che sbanda al vento; il Vento a Venezia – come indica il titolo di una poesia – terso e ricciuto che è come un sogno, non si sa da dove parte; i centrifughi venti; la siepe di spine che si oppone al vento come in Giardiniere dove il vento gonfia la camicia e se non si sperpera, s’annoia!; un diario di bordo pieno di isole e di venti come la Romagnoli scrive nella poesia Ad occhi chiusi). Sì, questa poesia è un Diario di bordo tra la solitudine dell’isola e i capricci del vento dell’attesa.
Ha scritto Neruda: «il vento è un cavallo: senti come corre / per il mare per il cielo / vuol portarmi via: senti / come percorre il mondo / per portarmi lontano» e Fernanda trasportata dal vento ha percorso il mondo con la sua poesia che continuerà ad andare lontano grazie a questa nuova antologia che le restituisce visibilità e dà nuovo impulso ad una riscoperta di cui in molti hanno evidenziata la necessità, da Donatella Bisutti che nel 1999 ne ha sottolineato l’importanza in un numero della rivista “Poesia” e ne ha curato un’antologia nel 2003 per le edizioni Scheiwiller (Il tredicesimo invitato e altre poesie) fino al numero monografico a lei dedicato della rivista "Nuova Corrente" del 2018, con scritti inediti. La Bisutti scrive che «ci sono poeti che hanno un destino di silenzio, anche se a tratti sembra che la gloria, o la fama almeno, li abbia per un attimo baciati. Il silenzio, in vita e in morte, tranne che per qualche breve istante, pare essere il destino di Fernanda Romagnoli», ma sembra invece finalmente giunto il suo tempo perché la poesia da sempre resiste al tempo. Come ha dichiarato Bertolucci in un’intervista del 1991, «Preferisco non fare nomi. O forse potrei limitarmi a due donne di sicuro valore: Alda Merini e Amelia Rosselli, cui vorrei aggiungere Fernanda Romagnoli che è una poetessa che è morta e non ha ancora avuto quello che merita».
La magistrale Nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat ci aiuta a ripercorrerne la fortuna e allo stesso tempo ci svela il laboratorio della poetessa avvalendosi dei carteggi, dei manoscritti, degli archivi e degli epistolari messi a disposizione dalla famiglia. Ci fa ripercorrere cronologicamente alcune tra le diverse varianti e stesure dei testi, esamina i tratti salienti e tipici della scrittura, le riformulazioni e i passaggi, l’attenzione della poetessa per le sonorità, le sinestesie, le forme verbali, la punteggiatura fino all’alternanza delle tematiche religiosa e quotidiana, spirituale e terrestre e ai dissidi tra la corporeità e il sacro. Di grande interesse sono le annotazioni sulle relazioni biografiche e amicali delle poesie dedicate a Betocchi e Bertolucci ed in morte di P. P. Pasolini, nonché le lettere alla sorella Marisa che ci mettono in diretto contatto con la personalità, l’indole e il carattere della Romagnoli.
Se gli uccelli con i loro canti gioiosi esprimono il desiderio di luce, di altezza e di profondità, il canto a ritmi aumentati e diminuiti, tra cielo e terra della Romagnoli sulle vette del sentimento umano e religioso, è dolore e rinascita, gioia e salvezza, viaggio dell’anima purificatasi nel fuoco, un’autoesegesi in cui la poesia vola come colomba in cielo e striscia come serpente tra gli eventi dell’esistenza: «La poesia / – stanne lontana! – nasce dal connubio / fra colomba e serpente. Non c’è patto / con lei, non c’è riscatto» leggiamo in Re Lear, un testo dedicato a Betocchi.
Una vita in bianco e in nero quella di Fernanda, come le fotografie presenti nel volume che la ritraggono con la figlia, il marito, la sorella e la madre Eugenia, con le amiche a Ladispoli nel 1929 o a Tellaro con Mario Soldati, e che rendono l’antologia ancora più pregevole.
Fernanda Romagnoli
e Il tredicesimo invitato:
un incontro attraverso gli anni
Con le poesie di alcuni poeti si ha un rapporto particolare, magico. Appaiono sulla nostra strada ripetutamente, invitandoci alla lettura, ad accoglierle nelle nostre case, nelle nostre vite. I versi di Fernanda Romagnoli hanno avuto su di me questo effetto.
Il primo contatto con le sue poesie risale a parecchi anni fa. Nel gennaio 1980, con un’ampia nota critica di Vittorio Sereni, venne pubblicato nella prestigiosa collana di Garzanti, dall’elegante copertina cartonata, Il tredicesimo invitato. Alcuni anni dopo, non ricordo esattamente quando, ne trovai alcune copie, a prezzo ridotto, sugli scaffali di una libreria. Ne aprii una, la sfogliai, me ne innamorai, come se avessi trovato il libro che cercavo e desideravo da tempo. Le acquistai tutte, alcune successivamente le regalai ad amici poeti.
A favore de Il tredicesimo invitato si espressero critici e poeti importanti (fra i quali Carlo Betocchi e Attilio Bertolucci), ma quando la Romagnoli, dopo una lunga e dolorosa malattia, nel 1986 si spense il suo nome era quasi dimenticato, in pochi la ricordavano.
Incontrai di nuovo i versi della Romagnoli nell’antologia, pubblicata nel 1994 dall’editore Campanotto, intitolata Una strana polvere. Altre voci per i nostri anni, curata da Paolo Lagazzi e Stefano Lecchini, entrambi nati a Parma. Il libro conteneva i testi di 14 poeti, fra cui quelli del parmigiano Pier Luigi Bacchini che l’anno precedente, con la raccolta Visi e foglie, aveva vinto il Premio Viareggio. In questa antologia (che meriterebbe di essere aggiornata, ampliata e ristampata), la poetessa è presente con dieci componimenti tratti da Il tredicesimo invitato.
Cinque anni dopo, nel numero 126 (marzo 1999) della rivista “Poesia”, lessi il breve saggio, intitolato L’anima in disparte, che Donatella Bisutti dedicava alla Romagnoli. L’intervento critico era accompagnato da poesie inedite e quasi per caso ritrovate che confluirono in seguito nel volume Il tredicesimo invitato e altre poesie (Scheiwiller, 2003). Così iniziava il saggio della Bisutti: «Ci sono poeti che hanno un destino di silenzio, anche se a tratti sembra che la gloria, o la fama almeno, li abbia per un attimo baciati. Il silenzio, in vita o in morte, tranne che per qualche breve istante, pare essere il destino di Fernanda Romagnoli, poetessa romana morta nell’86 all’età di settant’anni. Di lei poeti come Bertolucci e Sereni hanno parlato come una delle voci più alte del nostro Novecento». La Bisutti rivela inoltre che ad avvicinarla e a farle scoprire le poesie della Romagnoli è stato lo scrittore Paolo Lagazzi «il quale una sera che mi trovavo ospite nella sua casa di Parma affacciata sul fiume, mi mise in mano Il tredicesimo invitato».
Nel 2022, dopo quasi vent’anni, la casa editrice Interno Poesia pubblica la corposa antologia della Romagnoli intitolata La folle tentazione dell’eterno. Il libro, curato da Paolo Lagazzi e Caterina Raganella (figlia della poetessa) si avvale di una accurata “Nota filologica” di Laura Toppan e Ambra Zorat autrici anche della “Bibliografia”. Caterina Raganella con discrezione fornisce brevi cenni sulla vita della madre e mette in risalto l’importanza di Attilio Bertolucci «che diverrà un fondamentale punto di riferimento nel suo percorso poetico e amico insostituibile».
Autore del saggio di oltre sessanta pagine che apre il libro e ci guida alla sua lettura, dal titolo In sangue e in fuoco: le vertigini dell’anima, è Paolo Lagazzi, che a sua volta confida quasi chiudendo il cerchio «Quando, in un anno lontano, durante un’estate appenninica a Casarola Attilio Bertolucci mi prestò Il tredicesimo invitato di Fernanda Romagnoli, non sapevo ancora nulla di questa tragica e struggente, ferita e sublime poetessa». L’indagine critica è sapiente, documentata, appassionata, di vasto respiro, scritta con la mente e con il cuore, come succede quando parliamo di un poeta che conosciamo, ammiriamo e amiamo. «Per parte mia sono pronto a sbilanciarmi:», afferma Lagazzi, «Fernanda Romagnoli è la più grande poetessa italiana del Novecento».
Certi versi, proprio come quelli della Romagnoli, appaiono, scompaiono, riaffiorano improvvisamente alla luce, continuano a incontrarci.
Giancarlo Baroni
Da Berretto rosso
Massaia
E s’affanna, massaia poco accorta
che ha dissipato l’ore del mattino,
che il mezzodì – ragno divino – ha colto
nella rete del fare e del non fatto.
E già il passo dell’Ospite è alla porta.
Io
Quella donna dal viso indifeso
– un poco sfiorita –
che passa nello specchio
in una scolorita veste rossa,
senza fruscio, di fretta,
rialzando sul capo i capelli
con mano distratta:
quella donna dall’anima dimessa
dicono che son io.
Da Il tredicesimo invitato
(1980)
Il tredicesimo invitato
Grazie – ma qui che aspetto?
Io qui non mi trovo. Io fra voi
sto come il tredicesimo invitato,
per cui viene aggiunto un panchetto
e mangia nel piatto scompagnato.
E fra tutti che parlano – lui ascolta.
Fra tante risa – cerca di sorridere.
Inetto, benché arda,
a sostenere quel peso di splendori,
si sente grato se alcuno casualmente
lo guarda. Quando in cuore
si smarrisce atterrito «Sto per piangere!»
E all’improvviso capisce
che siede un’ombra al suo posto:
che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Tu
Tu, che chiamiamo anima.
Colore negro, odore ebreo. Tu profuga,
tu reietta, intoccabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione, né coperta,
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere
non esisti.
Ma in sere come queste, di cangianti
vaticini fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
«Fronda smossa,
pietra caduta…» trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.
Da Fernanda Romagnoli, La folle tentazione dell'eterno, InternoPoesia, 2022.