GIUSEPPE GRATTACASO
POESIE
da Confidenze da un luogo familiare (Campanotto, 2010)
La maggiorana e il timo sul terrazzo
fanno piccolo orto, non distante
il gelsomino è solo tra le piante
a spargere profumi, estenuante
il pomeriggio estivo il merlo spinge
a calarsi nell’ombra. Sto in affanno,
cerco miracolo, ma se i giorni vanno
dietro altri giorni, anno dopo anno,
mi riconosco pianta senza foglia,
quello che parte e sempre è sulla soglia,
pesce all’abbocco, bocca aperta, sbaglio
o sbadiglio, mentre i giorni sanno
di muffa e naftalina. La gardenia
vorrebbe rincuorarmi, a due a due
vanno i piccioni, sempre solo il merlo
nell’ombra salta, la gatta sta a guardarlo,
ostenta indifferenza, è la sua scienza,
sceglie lo stallo, mentre gli altri vanno,
uomini e merli, in preda a un loro affanno.
Rassicurante mutevole certezza
delle perturbazioni provenienti
dal gelo delle steppe, da pianure
tra Baltico e gli Urali, umidi fiati
diventati, tra terra e cielo, nebbia
a banchi, estesa lattescenza,
foschia sulle zone pianeggianti.
Cara presenza dell’anticiclone,
che esiste per antitesi ed assenza
e anticipa stagioni, sgombra nubi
di formazione atlantica, allontana
l’aria depressionaria coi suoi venti
di scirocco e libeccio, sud sud ovest,
tendenti nella notte a trasformare
la direzione e il corso degli eventi
sopra un mare arrendevole, composto
in un eterno movimento: mosso
agitato molto mosso calmo.
Il ritmico disporsi delle nuvole
sulla carta d’Europa come fumo,
piccoli sbuffi da un camino acceso
proteso tra Sardegna e Baleari.
Mi affido arreso alle condotte astrali,
a previsioni, ai simboli sapienti,
pressioni millibariche, oggi in calo
le massime ad Oriente, da domani
precipitazioni al Centro, temporali
sull’arco alpino, neve in bassa quota.
Calda carezza di formule note:
venti scarsi, piovaschi, nubi sparse,
temperature massime in aumento,
la placida emozione dei rovesci
addensamenti stratificazioni.
Quasi convinto dimentico i miei mali
se mi giunge l’annuncio di schiarite
locali, nelle ore serali
a partire dai settori occidentali.
Ma non era l’inverno? E’ primavera
con un caldo che già ti inumidisce
le ascelle, il glicine fiorisce,
le tartarughe a Bracchio vanno a spasso
nel giardino e Franco dell’incedere
lento loro inorgoglisce. Ma come
l’impermeabile è già fuori stagione?
il destino del maglione è in naftalina?
Non stiamo attenti e giù per questa china
finiamo presto in pasto dell’estate.
Andate andate, io resto col cappotto
pronto per l’uso, certo non ci lotto
con le stagioni, il ripetuto assedio
strugge e consuma, troppa frenesia
quel leva e metti, indossa un’altra pelle
ogni tre mesi. Mantenete il ritmo
voi se credete, io invece resto fermo:
tanto ritorna prima o poi l’inverno.
da La vita dei bicchieri e delle stelle (Campanotto, 2013)
Cha 110913 – 773444
Per quanto ne sappiamo è la stella
più piccola, una sub-nana bruna,
possiamo crederla materia irrealizzata
o pianeta, fermata inopportuna
tra astro e astro, massa planetaria
senza ragione né fortuna alcuna.
Dista da noi centosessantatrè
anni di luce e di vaghezze. Se
brilla è perché non sa cosa altro fare,
di luce rossa, cupa. E’ varie volte
più grande della Terra, sub-sub-nana,
forse uno sbaglio noi, solo una tana,
vista da lì pertugio, filamento,
un indugio di dio, bava di vento.
Tanta bellezza e tanta disperata
materia si confonde e si consuma,
smarrita si protende su voragini,
precipizi di nebbia in cui vagare.
Se siamo stati stelle, polverosi
residui d'energia universale,
appiglio interstellare, carboncini
dispersi nello spazio in espansione,
chiediamo un buco dentro cui franare,
un imbuto nel cielo, un fondo nero
che ci ridoni la nostra parte eterna,
ci faccia ritornare vagabondi
proiettili sfiniti e senza scopo,
atomi di carbonio sfarfallanti,
di idrogeno d'azoto, finalmente
visioni di materia svaporata,
vita passata e dimenticata.
L'incauto navigare degli occhiali,
di penne e di telefoni, perduti
per qualche tempo, lasciati alla corrente,
all'onda che li copre e li trascina,
e poi quel loro ritornare a galla
proprio vicino, sulla scrivania,
sul piano scandagliato attentamente,
ci rende incerti sull'adeguatezza
degli oggetti ad essere se stessi,
a rimanere oggetti eternamente.
Quel loro perdersi, mutare posizione
è segno adulto di riservatezza
o invece solamente confusione,
vuoto mentale, senile insensatezza?
La vita dei bicchieri e delle stelle,
tutta gentile e tutta risplendente
brillante di gas elio o detergente,
è quello che noi siamo e non sappiamo,
bagliore nello spazio quotidiano,
l'immediato presente e il più lontano,
è l'esistenza senza alcun confine
nell'universo, il gesto luminoso
della mano, il raggio che ci sfiora
e che si apparta, il cielo che rivela
la nostra carne terrena e siderale,
lo scompiglio del fiato universale.
La spirituale trascuratezza delle cose
un po' dimenticate, non per sempre
ma qualche tempo a se stesse abbandonate,
un poco infreddolite e impolverate,
la loro permalosa non presenza
intenerisce. Cariche d'affetto
non chiedono carezze, non lusinghe
le fa felici, ma appena strattonate
e riportate alla nostra intimità,
alla fierezza di dirsi ancora usate,
le vedi ardite, già ringiovanite.
Le sedie, per esempio, quelle sedie
delle quali più non ci accorgiamo,
mute presenze, lasciate in qualche parte
remota della casa e che ad un tratto
per festa o cena son recuperate
all'uso primigenio di sedute,
senza preavviso e senza allenamento,
come eleganti si pongono al servizio
dell'ospite imprevisto, come sono
cedevoli e gentili, vagamente
di sé perplesse, ma subito impegnate
a farci accomodare, un poco lente
nel ricordare, eppure già preziose
nella timida grazia personale.
I n e d i t i
La vita certe volte sfila accanto,
per proprio conto prende strade incerte,
spesso in salita, chiedo dove vai,
dove vai vita, nell'inseguimento
ho il fiato corto, forse non mi sente,
mentre io arranco lei viaggia spedita
ed incosciente, io non me la sento
di starle dietro, quella non si pente
e corre all'impazzata, più c'è gente
più provoca sfacciata e impenitente.
Ma poi penso mi fermo, quelle volte
che mi tormenta, tanto che ci faccio
con tutta questa vita, mi addormento
se lei corre di lato, o faccio finta
che sono assente e non è mia la vita.
Come sei entrata? Avevi ali e un vento
ti spingeva a volare e sei atterrata
lieve e stordita sopra la mia spalla
o sei venuta passo dopo passo
e senza peso hai detto alla mia mano
di toccarti? Se ora io mi affanno
per ritrovarti quando ti ho perduta
o sei svanita come una cometa
che ritorna ma dopo mille anni,
tu all'improvviso appari e mi sorridi,
scivoli sulla gamba e lasci un segno
che mi consola se mi fa del male,
che io coltivo come fosse un pegno
della tua bocca. Come sei arrivata?
Eri forse pulviscolo o zanzara
o luce che è filtrata da fessura?
La piazza è in sé perfetta e consolante,
piazza silente, piena piazza a sera,
un tempo assai di gente battagliera
ora vacante, solo un soffio ancora
di testarde parole, che rincuora.
E' quasi perfezione anche la noia,
che dalla piazza parte e si diffonde
e mi assopisce mentre torno a casa,
così mi annoio di una noia morale,
cioè priva di male, un po' saggezza
e un tanto smarrimento esistenziale,
senza proponimenti, rimanere
in stato biologico e animale.
Tra poco più di un secolo nessuno
degli odierni viventi sarà tale,
ma, a seconda del caso, carboncino
o briciola nel vuoto siderale
o ancora mummia in cerca d'ulteriore
più esplicito trapasso. Ciò dimostra
che la fine del mondo è ricorrente,
un programma seriale replicato
con ciclica frequenza nei millenni,
senza zelo il battage promozionale
ma di sicuro effetto, un deja vu
postato d'abitudine con cieca
sollecitudine forse da nessuno
che ne abbia contezza. Tanto vale
adattarsi alla recita virale,
non chiedere perché il programmatore
non cambi mai l'immagine finale.
La poesia di Giuseppe Grattacaso, Confidenze da un luogo familiare, dichiara esplicitamente, in apertura, tutti i suoi debiti: Gozzano, Noventa, Sinisgalli. Ma poi prende una strada propria, che affonda nelle proprie mancanze, malinconie, inciampi. E li restituisce al lettore attraverso immagini nitide e condivise, comprensibili da tutti. Grattacaso fa sue le leggi "classiche" della poesia, innervandole in una realtà che gli risulta estranea. Perché ormai «vince chi urla, vince chi ti assale, /non c´è mistero, se tu resti afflitto /sottovoce cortese derelitto». Il tentativo di chiamarsi fuori è forte. Ma l´impersonale vitalità del mondo irrompe, quando meno te l´aspetti. E allora bisogna stare all´erta, essere pronti a cogliere quella rivelazione inattesa e magari dolorosa.
Franco Marcoaldi, La Repubblica. 13 febbraio 2010
Giuseppe Grattacaso è deciso e tagliente come una folata di bora, sincero come i versi di Saba al quale rende omaggio riuscendo a far poesia di trattorie triestine.
(...) l' uso sapiente della parola e un pensiero acuto che va dritto al cuore del senso e delle cose comuni e le rivela sollevando la veste dell' abitudine, mostrando non la verità - appannaggio altrui - ma un punto di vista da un luogo diverso, la pausa («Ma chi lo dice che saremo salvi/ solo bruciando tra mille attività?/ In ozio la barbarie è debellata/ e la pigrizia da sempre è santità»). È un incantato disincanto dove i corridoi non sono offesa per architetti razionalisti ma «pista per lunghe scivolate, un alberato viale, terra di passaggio, tenebroso antro» e le attese dell' infanzia, spensierata curiosità. E le donne e l' amore sono un miraggio a cui piace restare tale, perché il mondo corre ma il poeta resta fermo, il suo dovere è guardare.
Alessandra Santangelo, Corriere della Sera, 14 marzo 2010
La vita dei bicchieri e delle stelle di Giuseppe Grattacaso è un libro da
leggere, un libro felice. Difficile definire una poesia che pare di gusto e intonazione oraziana, ma contemporaneamente metafisica come i quadri di Morandi, dei quali però non condivide
l'ossessività monotematica. Anzi, se comuni bicchieri animano questo libro, la sua ispirazione pare provenire da una coppa di champagne inebriate con le sue bollicine, come la musica di Mozart di
cui parlava Kierkegaard appunto accostandola all'euforizzante panacea francese. Perché con leggerezza mercuriale Grattacaso con i suoi bicchieri mette in scena il dramma del vuoto e del pieno del
mondo. Bisogna risalire alle celebri fiabe animate di Walt Disney, massime La Bella addormentata nel bosco e La Bella e la Bestia, per trovare il prototipo di una simile animazione delle cose:
bicchieri, stoviglie, e qui lampadine, hi-fi, lavatrice: con un movimento rossiniano, improvviso e insieme incantato, gli oggetti della casa manifestano il dilemma e lo stupore della vita del suo
abitante (...) Sono i dilemmi metafisici di John Donne.
Ma Grattacaso sembra raccontarli a un gruppetto di amici per divertirli, al mare, sotto la luna. E ciò accade. A volte la poesia può
farti sorridere con i suoi meravigliosi, eterni, insostituibili cosmici dilemmi.
Roberto Mussapi, Avvenire, 26 ottobre 2013
Anche in Grattacaso l'immagine che si pone dietro le sue parole è quella
tradizionale del viaggio della vita come viaggio dell'ingegno, della navicella di dantesca memoria che solca gli abissi dell'esperienza e della coscienza: la disposizione è quella di essere,
dentro e fuor di metafora, “per sempre naviganti e non c'è mare”. L'interlocuzione è chiara e diretta con la matrice leopardiana, con un infinito che può darsi per via di poesia, attraverso il
pensiero che finge raccontando, ovvero attraverso l'immaginazione; ma sull'altro versante, quello della scienza, l'inarrestabile espandersi dell'universo, per il poeta, “dilata il buio, nero” e
riaccende ancora una volta il “pensiero”. Grattacaso dialoga direttamente con il Montale di Ossi di seppia
(...) Grattacaso può far agire una singolare attitudine metamorfica, trasformando le palme decapitate del lungomare, nella sua Salerno, in sagome femminili abbondanti e matronali, tronchi che divengono “abiti da sposa”, in un esorcismo, finanche tenero, della nostalgia. Ma tenerezza e nostalgia (declinabile forse meglio come malinconia) sono due ingredienti ricorrenti nei suoi versi come in quelli di Sandro Penna, suo fertilissimo referente.
Roberto Deidier, Poeti e Poesia, n. 31, aprile 2014
Circospetto si aggira quasi fosse capitato da solo in una sala giochi immaginaria, in un frigo alle soglie
dell'abisso, in un centro commerciale sardapanalesco o in una scatola magica priva di confini. E' l'osservatore smarrito che tenta di giudicare il senso dell'esistenza tra ammassi di luce,
galassie, eternità presunte, schiocchi di fringuelli, fastidiosi mosconi, lucertole in fessure da letargo, fumanti grigliate da salsicce, lenzuola, cucchiai e altri oggetti del quotidiano.
L'io
narrante scettico, che viaggia sempre portando con sé quel sorrisetto pungente ed agro volto a umiliare l'essenza umana, a provare pietà pur schernendola nel vederla giorno dopo giorno svaporare,
è il protagonista della silloge La vita dei bicchieri e delle stelle di Giuseppe Grattacaso (...).
Grattacaso analizza con sarcasmo le impalcature della vita: una sequela di immagini in costante mutazione e straniamento. Anche Montale lampeggia qua e là, ruminato forse inconsciamente. Il terribile male della nostra civiltà consumistica, l'alienazione, prelude a temi distopici, legati al futuro prossimo. Non resta che abbandonarsi in forma di preghiera al dono di Bacco: “Lasciate il vino dentro il mio bicchiere, / così parlo di stelle e di comete, / scrivo d'amore, insomma le parole / sembrano scintillanti universali, / si trovano da sole, sanno loro / la strada da percorrere / … / Se scelgo l'acqua fresca o la spremuta, / sto certo meglio, ma faccio scena muta”. E il tutto procede in chiave ironica, in particolare l'antitesi tra anima e corpo. Grattacaso sottolinea quanto sia importante avere una materia in cui persistere, anche se ormai si tratta di carne consumata, mentre l'anima è pura evanescenza, energia sottovuoto fatta passare per eterna.
Franco Manzoni, Corriere della Sera, 2 agosto 2013
L’urgenza di una poetica dello sconfinamento che tuttavia resti sempre immanente, nell’al di qua delle cose, si fa in Giuseppe Grattacaso espressione piana e mai banale della bellezza di tutto ciòin cui è rintracciabile un inizio, una vita e, talvolta, una perdita irrimediabile: se nulla si crea, ma tutto non rimane, l’esplosione di una supernova ha quindi in scala su di noi la stessa incidenza, lo stesso effetto, di una tazza improvvisamente perduta, scheggiata dopo anni di quotidiano servizio tra le nostre mani, sulle nostre labbra.
Daniela Gentile
(leggi tutta la recensione in Recensioni uno su Pioggia Obliqua)
Giuseppe Grattacaso.
La prima raccolta di poesie, Devozioni, con una nota introduttiva di Renzo Paris, risale al 1982. Nel '91 ha pubblicato per le edizioni del Catalogo di Salerno la
plaquette Se fosse pronto un cielo (introduzione di Alessandro Parronchi). Dopo un lungo periodo senza dare alle stampe nuovi volumi, nel 2010 è edito il libro Confidenze da un luogo
familiare (Campanotto) e, tre anni dopo, per la stessa casa editrice, la raccolta La vita dei bicchieri e delle stelle, con cui ha vinto il premio Pontedilegno Poesia.
E' presente nell'Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 1, a cura di Gianfranco Lauretano e Francesco Napoli (Raffaelli, 2013).
Diverse sono state le pubblicazioni in edizioni d'arte a tiratura limitata, tra le quali la cartella edita nel 1985 da L'Upupa di Piero Santi, con quattro
serigrafie di Andrea Papi, e i più recenti libretti Minimi luoghi felici realizzato insieme all'artista Elisabetta Scarpini e pubblicato da Pulcinoelefante, Due note con un'acquaforte di Gaetano
Bevilacqua (Edizioni dell'Ombra) e In volo con una xilografia di Margherita Cassani (Fogli Volanti).
Scelte di poesie sono state tradotte in Francia e Slovenia. Ha pubblicato su varie riviste, tra cui Nuovi Argomenti, Lengua, Poeti e Poesia. E' stato redattore
delle riviste Percorsi, Oceano Atlantico, Pioggia obliqua.
E' autore del blog di poesia Mosche in bottiglia, ora contenuto nel sito www.giuseppegrattacaso.it.
Collabora alla rivista online SuccedeOggi.
Fotografie, Parigi, Courtesy G.G., 2015
La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua