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FABRIZIO PARRINI

POESIE

PONTORMO

 

 I

 

Piove da un mese ormai e gran freddo 

 

e gran vento e acqua dappertutto.

 

I muri della Cappella Grande sono fradici.     

 

Da ieri notte non faccio altro che tingere il cielo

 

d’azzurro  come carne marcia e piove sui vetri in alto.        

 

Sono diventato sordo dal chiasso.  

 

I tuoni fanno tremare San Lorenzo

 

e le candele sono finite.

 

Bisogna che me ne procuri 

 

o dovrò dipingere ai lampi di questo infinito temporale.

 

Chissà se questo lavoro avrà mai fine.                     

 

Le figure nascono da sole,

 

crescono come creature vive.             

 

L’altra notte ho finito l’Ascensione delle Anime al cielo,

 

una fila di nudi che si aggrappano alle gambe degli altri,

 

si fanno scala per salire in Paradiso.

 

Non mangiavo da giorni, mi parve all’improvviso

 

che tutto scomparisse.

 

Ero stordito dal forte vento  che avevo creato io stesso,

 

come un bambino che finge di salire

 

i gradini che ha dipinto per terra,

 

per poco non fui risucchiato in quell’ascesa di sogno.

 

Mi sono aggrappato ai ponteggi per non scomparire

 

nell’universo. Ora non ho più forze per continuare il lavoro,

 

questa buia cappella è come un mare

 

senza cielo.      I miei passi rimbombano nel vuoto,

 

mi scalda solo il pensiero,

 

il centro vuoto del pensiero.                     

 

Non c’è niente, in questo abisso, ora lo so,

 

c’è solo questo vasto respiro del mondo sotto forma di vento.

 

Mi spiano di giorno e di notte, lo so,

 

a volte sulle impalcature sento il gelo

 

intorpidirmi le mani e allora devo accucciarmi 

 

come un cane per scaldarmi le dita

 

al calore delle candele.       

 

Scorgo delle facce che ridono all’altezza dell’ultimo tetto.

 

Ridono della mia barba sporca di colore,       

 

delle mie spalle curve che nascondono

 

poche once di pane raffermo che è la mia cena sopra l’altare.

 

Vengono a osservare il pasto dell’aquila, 

 

io che mando giù fiele con lo stomaco incrinato

 

dalla vertigine. Allora sputo contro i vetri del rosone 

 

per cancellare quei visi di cadaveri.

 

Mi ferisce la loro allegria, nei loro pensieri 

 

sono una scimmia ammaestrata, uno zimbello.

 

Un acquazzone improvviso mi salva, 

 

ora sui finestroni corre un torrente d’acqua sporca.

 

Ho alzato i ponteggi che non avevo ancora i capelli bianchi,

 

ora devo rinforzare da solo le scale di legno e gli snodi,

 

perché la chiave la porto al collo come una reliquia.

 

Da solo sono entrato nella cappella di Cosimo Vecchio,

 

da solo ne uscirò vivo o morto, come vorrà Nostro Signore.

 

Non ho più tempo, mi fermo ormai solo per bere

 

e pensare, il resto è notte. Io sono vivo solo lassù,

 

sotto la cupola. Qui sulla terra sono una bestia presa a calci.

 

 

 

Rivedo un febbraio lontano, acceso come un fuoco. 

 

Dipingevo sotto un padiglione

 

i carri del Carnevale per la Compagnia del Diamante. 

 

Ricordo angioletti dalle gote di rubino, 

 

Saturno, cani e montoni da sembrare veri

 

e un re di Roma con i Libri della Religione

 

e balzane e fregi d’oro ed elefanti.      

 

Ne parlano ancora in tutta Firenze.

 

Scoppiavano mortaretti, si accendevano

 

fuochi per i carri di Pontormo.

 

Fuochi che duravano lo spazio di un giorno

 

allegria d’ubriachi che con la bava alla bocca

 

strisciano sugli scalini di Santa Croce

 

e disgusto e nausea, musica d’occasione

 

e anch’io puttana tra le puttane

 

ma lontano, chiuso nella mia casa senza scale,

 

come un gufo, le mani sulle tempie

 

per non sentire quelle grida oscene, gli scherzi,

 

le promesse d’amore , i gemiti, ladri che si fanno

 

santi, usurai,  bambini che i padri travestono da nani,

 

come allora io resto

 

al di qua di ciò che sono o dico, diverso e dannato.

 

Andavo per le strade di Ognissanti

 

con i capelli e la barba tinti d’argento nell’ultima

 

notte di quel lontano Carnevale.

 

 

 

Volevo diventare re o stella,

 

andare per le vie trasformato in angelo

 

dei vasti cieli stellati, somigliare all’universo degli uomini,

 

ridere, attraversare finalmente 

 

la notte senza sentirmi pugnalare dalle chiacchiere 

 

“è Jacopo, non vedi, il pittore lunatico,

 

il compagno di tutti i dolori, dicono

 

che mangi minestre di lucertole, filtri di ramarri”.

 

Solo un bambino mi riconobbe.

 

Mi chiamò Angelo Scappato dall’altare,

 

non sorridevo da un’eternità.                    

 

Ora non ho più nulla da spartire con nessuno.

 

Non voglio più  un’esistenza diversa da questa 

 

che condivido con i pipistrelli della volta:

 

Ogni creatura mi spaventa e mi affligge.

 

Solo a volte, mentre mi affanno sopra un cielo,

 

un incarnato mi viene sulle labbra una canzone d’amore, 

 

di quelle che mia nonna Brigida

 

cantava sottovoce per addormentarmi 

 

in qualche inverno di tanti anni fa.

 

Mi viene sulla bocca un nome lieve, Alessandra.

 

 

 

Da allora è fioca la luce del sole,

 

non c’è più ragione in questo orribile alternarsi

 

di luce e di gelo. Alessandra dai capelli scuri

 

che mi guardava ammirata saltare

 

sui ponteggi, che mi lasciava la cena ai piedi della parete.

 

Nemmeno la peste mi ha voluto.                       

 

La vita si è dimenticata di me.

 

Ogni cosa ha le sue radici nel buio,

 

anche Alessandra. Lei mi guardava incantata 

 

nel grande Giardino dei Medici.

 

Io non riuscivo a trovare nemmeno una parola. 

 

Avevo la testa piena di musica

 

e me ne stavo lì, sbattuto dalla tramontana,

 

con il cuore murato, e poi un po’ d’amore

 

frettoloso sul ballatoio,

 

necessario come il dormire e il mangiare.

 

So che non tornerò quello di una volta.        

 

La mia anima si è disciolta come neve.

 

Sono ciò che sono sempre stato, vecchio.        

 

La vita mi sembra stordita e lenta,

 

una notizia che appartiene ad altri,

 

un lieve dolore che attraversa l’anima in silenzio.

 

 

 

Lassù non ci sono domande

 

e dai finestroni si vede tutta Firenze.

 

Quando scendo dai ponteggi, all’inizio della notte,

 

sono consumato, ho solo fantasmi, vaghe memorie,

 

luci tremanti come le barche che scivolano lente

 

sulla superficie dell’Arno.                        

 

Meglio fossi stato scultore

 

come Baccio o Michelangelo, avrei lavorato la pietra dolce,

 

scheggiata dai riflessi rosa

 

o verdi, non avrei avuto a che fare con le ombre.

 

La statua resiste alle stagioni come una quercia  salda.

 

Faccio un mestiere da femmine, mi pentirò amaramente 

 

di questo gioco di acchiappare angeli e pensieri.                               

 

Le nostre figure non le rovina il vento,

 

ma il nerofumo dei candelabri,la dimenticanza.

 

 

 

Cosimo è venuto già due volte 

 

per spiare il suo pittore selvatico,

 

ha lodato il mio Cristo in Santa Felicita,

 

dice che il Buonarroti

 

mi chiama il più grande talento dopo il suo.               

 

Sono chiacchiere buone per la veglia,

 

per le notti dove si gioca a gabbare la morte.             

 

Queste figure sono impastate nel fiele. Questa è la verità.      

 

Nascono alla luce della luna, quando la notte è di bronzo

 

e tutti questi colori trasparenti  se ne vanno in giro

 

per il tempo che mi rimane,

 

come foglie trascinate dal garbino.

 

 

 

Ah il tempo della Certosa  con la morte appollaiata

 

sulla cupola di Santa Maria del Fiore.

 

La città era diventata silenziosa, buia,

 

di giorno e di notte.

 

Il martellare della campana di piazza 

 

come una cicala piantata in mezzo all’estate.

 

Come un castello assediato aspettavamo la resa,

 

ci spiavamo l’un l’altro alla radice del collo

 

il segno della morte.

 

Il cielo era sempre troppo azzurro quell’estate,     

 

all’orizzonte il fumo dei morti bruciati in  Santa Croce. 

 

La morte si è divorata gli amici portati via

 

sui carretti di cipresso,

 

il vecchio Nunzio che mi procurava

 

il legname per i ponteggi, Sebastiano,

 

i bambini che vedevo giocare

 

sulla riva destra dell’Arno.

 

Quando la peste finì  si poteva camminare

 

per la città senza incontrare nessuno, 

 

nell’aria un odore soave di ginepro, 

 

qualcosa di vicino al sonno.

 

Le parole pronunciate sottovoce

 

come per non disturbare i morti.

 

Io ho dipinto alla Certosa quel Cristo abbandonato

 

e stanco davanti a Pilato, è mio quel muso smunto,

 

sono io nel mondo vuoto e non c’è aria,

 

non c’è sole abbastanza.

 

 

 

Non volevo più uscire dal convento.

 

C’è voluto l’ordine dei Medici per stanarmi 

 

come un topo nel solaio.

 

Il giorno somigliava finalmente solo a un altro giorno,

 

perfettamente uguale,

 

scarne figure in cambio di una cena.

 

I fiorentini che ho amato

 

sono murati alle porte della città.

 

Potrei raccontare  montagne di bugie, 

 

tutti mi crederebbero. Ho avuto in sorte il nascere

 

un’altra volta, ma il mondo non è cambiato.

 

La peste è passata invano

 

posso ancora mettermi la maschera del mago 

 

che dà vita a splendori, nuvole, paesi lontani,

 

animali di ogni tipo e tante altre cose ancora...

 

Tra poco sarà giorno, parlare del passato 

 

non addolcisce il cuore. Impallidisce l’orizzonte, 

 

verso il mare il cielo è più verde.

 

 

 

 

 

 

 

 II

 

Era un inverno gelido, il peggiore di tutta la mia vita.

 

Le vie erano coperte di neve e fango, bisognava farsi largo

 

tra i maiali e la sporcizia per raggiungere i prati sotto le mura.       

 

Dappertutto mendicanti distesi senza forze

 

sulla neve disciolta, non parlavamo che del tepore

 

della primavera. Ci scaldavano i ricordi,

 

avevi diciassette anni 

 

ed eri innamorata giorno e notte.

 

Venni nella tua casa nascosto in un mantello grigio. 

 

Tuo padre mi pregava di una grande Maestà, 

 

quando ti vidi fu  luce da ogni parte.  

 

Hai  posato per me in quell’interminabile inverno 

 

nella mia  casa di polvere e di sonno. 

 

Sei  stata Sant’Anna, una donna del popolo,

 

un angelo a volte. Le tue lacrime mi bruciavano il cuore

 

ed io  tornavo ad essere quello che sono, 

 

un uomo malinconico e gentile.

 

Andavo in cerca di violette.     

 

Ogni giorno ne trovavi sui pochi mobili di casa.

 

I miei amici mi chiamavano dalla via,

 

io ti facevo cenno di non rispondere

 

e così cominciava un’altra lunga notte  simile al giorno.       

 

Sul campanile di fronte

 

ricordo una cicogna che stavamo per ore ad osservare 

 

e la nebbia, la nebbia di un giorno

 

di marzo dove ci siamo persi fuori dalle mura

 

della città. Sento ancora la voce dei miei cardellini,

 

li lasciavo liberi per la casa,  pulivano il tavolo

 

dalle poche briciole, cantavano fino allo stordimento.

 

Ogni tanto ne liberavamo alcuni all’arrivo della primavera,

 

quasi sempre tornavano ed era una gran festa.

 

 “Non sono così matto allora ” ti dicevo

 

“se i cardellini tornano è perché trovano

 

buona la mia compagnia”.

 

 

 

Sfidando la tramontana, raggiungevi la mia casa 

 

appena prima dell’alba. Firenze restava ai nostri piedi

 

con le sue torce consumate.  C’erano passi d’armigeri, canti,

 

il verso del lupo di un amico contro la mia vita selvatica.

 

In un vaso trasparente una manciata di margherite.

 

Io soffiavo sulle candele perché il fumo

 

non ti bruciasse gli occhi. “C’è una collina bianca”

 

ti dicevo “dietro San Miniato,

 

l’ho visto in Masaccio, è così perfetta

 

che sembra un diamante.              

 

Non ci saranno colline nei miei dipinti,

 

ma pensieri e vuoto come cadere in volo,    

 

come precipitare dal cielo”.

 

Che altro mi resta se non raccontare quel che è stato

 

dire di una notte nera come la pece,

 

che altro mi resta se non l’immagine mia

 

in alto sul cornicione della cupola, sospeso sulla vertigine

 

che ti faccio cenno con la mano indicandoti la Vergine,

 

leggera su un pavimento di nuvole, con il tuo viso

 

e il tuo sguardo. E’ tutto quello che hai

 

e una  piccola pietra vulcanica 

 

rubata per te nel ghetto di Venezia.

 

 

 

 

 

Oggi il giorno ritarda. 

 

In piedi contro il vetro del lucernario

 

sento l’incalzare del sonno e piove ora.  

 

Un soffio leggero di vento piega

 

la caduta  della pioggia.       

 

Vedo appena le mie mani ora,

 

la luce ha riflessi verdastri.

 

Tra poco sarà l’alba.  Sui ponteggi c’è umido    

 

e freddo, ma nessuno  può tenermi testa.

 

In tutti i luoghi della terra, io sono un intruso.

 

Io non ho fatto altro che sognare 

 

e nel mio sogno c’è posto solo per me.

 

Passo lunghe ore sulle colline che dominano

 

la città, dove il fiume fa una leggera curva.

 

Medito sulla voce del vento, sulla mia fragilità.

 

Sento la mancanza di tutto, sotto di me l’ultimo sole

 

fa scintillare il marmo delle chiese.

 

Mi piacciono certe piccole piazze solitarie,

 

piazze di paese dentro la città

 

dove tutto svanisce all’inizio

 

di una via più assolata.

 

 

 

Da un anno ho cominciato a scrivere le mie ore.

 

Scrivo per tenere a bada la morte.

 

La morte che è dovunque, 

 

in cielo  quando avanza l’autunno, sulla tua spalla

 

come un falcone da caccia.                         

 

Il Rospo non si ferma mai.

 

Dovrei forse farmi canzonare dai giovani del Borgo

 

che si approfittano della mia vecchiaia  

 

per gettarmi in faccia manciate di sterco,

 

dovrei attendere la morte nascosto

 

 in un angolo della casa?

 

La morte non ha bisogno di scale.

 

Il Rospo deve venirmi a prendere lassù sui ponteggi

 

e spero che soffra la vertigine.

 

A volte in cerca di pace, guardo verso levante.   

 

Gli occhi vagano e i pensieri vanno lontano, 

 

le colline sono così chiare al mattino, pulite.

 

Al buio ascolto il vento che frusta

 

i vetri della Sacrestia Nuova.

 

Io sono nato in giorni sinistri, dimenticami.

 

Dai passaggi più alti non vedo altro

 

che corvi che vanno e vengono e il suono sordo

 

del tamburo del cambio della guardia.  

 

E le nuvole, ne ho dipinte di tutte le forme

 

in questi mesi. Le nuvole mi arruffano i pensieri, 

 

corrono verso oriente, a volte bianche e gonfie, 

 

a volte grigie e compatte, chiuse fra le linee

 

dei caseggiati. Sono stanco di me, 

 

sono anch’io come una nuvola che si attarda

 

nel cielo più del dovuto.         

 

Nuvole come fiocchi di neve,

 

nuvole che continuano a passare

 

e che passeranno sempre,

 

perché questo sogno non ha fine.

 

 

 

                                  STABAT  MATER  

 

 

 

 

 

Si può scrivere di questo? Di un gemito che sale dal centro del mondo

 

e che nessuno è capace di nominare. E’ un evento incomprensibile,

 

come uscito dal fondo di un abisso. Mi dicono - è cemento quello che

 

tua madre ha nell’addome. Come se le avessero asfaltato il cuore.

 

E’ una bugia. Il suo cuore è sempre  stato morbido, di crema,

 

spaventoso e ardente come quello di un amante che si è liberato di noi.

 

 

 

 

 

Si entra nella solitudine attraverso un lungo corridoio celeste

 

al profumo di fragola. Camminando si va così lontano

 

che il coraggio e la vergogna coincidono con me.

 

Ora ho una vita povera. Le tue scale si aprono su un cortile

 

assolato. Le lenzuola stanno ad asciugare. Il sole accende

 

quel bianco che non fa vedere più niente. Sono cose così.

 

Innocenti. Salgo le scale. Il cortile è vuoto delle tue risate.

 

Ingombro di gatti affamati.       I bordi secchi delle garze

 

non nascondono niente. “Non ti fidar di stelle galeotte”

 

è solo sangue che sale al taglio procurato.

 

Il cielo non ci protegge più. Dalla balera esce un sincopato

 

“Non ti fidar di stelle galeotte”. Io non mi fido di niente

 

e di nessuno. I ragazzi più grandi non mi fanno giocare.

 

Fanno l’amore nei gabinetti della stazione. Io faccio la guardia.

 

Da ogni parte è il ’56 e siamo appena scampati

 

ad una nevicata infinita. La voce della Callas invade la strada deserta.

 

Io preferisco le lucciole sul greto asciutto del Magra.

 

Mia madre cammina lentamente. Ha un vestito bianco

 

nelle stanze del Giudizio. C’è ancora così tanto tempo davanti a noi

 

da vederlo arrivare come un treno in corsa lungo l’orizzonte.

 

Io ho appena imparato a leggere e a scrivere.

 

 

 

E’ il cuore che insegue il suo ritmo. E’ gelatina nel petto scavato.

 

Ha brividi perché è dicembre. Nelle vene acqua e zucchero

 

come la cena di un bambino povero. Hai un ago nella succlavia,

 

le solite banderillas. Mi vieni incontro su una sedia a rotelle,

 

una regina  magra, provata dalla prigionia. Niente più regni.

 

Mai più. L’unghia del drago ti ha reciso il passato.

 

Posso ricominciare un libro, ogni volta, ma non più la mia vita con te.

 

 

 

Dormi  nella morfina. Respiri piano, ogni tanto

 

un lamento come un delfino all’arpione. La fiala bollente

 

dell’ossigeno non fa rumore. Guardi il boschetto di castagni

 

-ho sete - mi dici , ma non posso darti da bere.

 

Dovrei riempire un bicchiere infinito. L’acqua non smetterebbe

 

mai di versare.    Respiri forte tutta l’aria del cielo, un respiro gelato

 

che ti fa battere i denti.   Vorrei metterti al riparo, da qualche parte.

 

Come se fosse solo grandine quello che aspettiamo.

 

Niente più di una buia notte di dicembre.

 

 

 

E se la morte non fosse altro che questa malinconia

 

che ti prende nel guardarti le gambe smagrite?.

 

 

 

Hai le palpebre d’acciaio, pesanti. Non hai più niente da difendere.

 

Sono rimasto io. Solo. A scrivere del tuo giovane cuore. E devo far presto.

 

-non ti sei riposato gli occhi nemmeno un istante - mi dici.

 

Il mondo si è inclinato su un lato sotto il peso del tuo semplice amore.

 

Ci sono nuvole di gesso che il vento strappa via.

 

Davanti alle stanze dei terminali c’è una ragazza che guarda

 

da un’altra parte, sempre da un’altra parte.

 

Lo chiamano l’acquario dei pesci perduti. Il luogo più distante

 

da ogni forma di vita. Con la cera nelle orecchie

 

prenderò il posto della ragazza - è qui che è passato l’orso cattivo -

 

diranno ai bambini dei tuoi occhi sempre chiusi.

 

 

 

Ora lo so. La vita finisce in piccole sevizie coperte dal rumore delle onde

 

se c’è il mare vicino. I bruchi attaccano le foglie nella parte più tenera.

 

E’ così. Sempre. Nel sonno ti agiti per il bisturi che incide un’improvvisa asfissia.

 

Com’erano grandi i tuoi occhi solo un mese fa, ora occhi smarriti

 

di balena consacrata ai bassi fondali da ramponi di magnesio

 

in un oceano d’acqua distillata.      - che vergogna - mi dici -

 

hai consumato la tua riserva di grasso nel lungo digiuno invernale.

 

 

 

Mi chiedi di parlarti dei canditi  nelle vetrine dei pasticcieri.

 

Nevica appena sulle colline già bianche. Ti lascio dormire.

 

Hai il diritto di finire il tuo sogno.     Marzo rivela la sua prima dolcezza

 

con regali di poco conto. Io da solo salgo il fianco della ripida collina.

 

Tu sei in casa, ma non puoi vedermi. I colori volano via nell’immenso biancore.

 

Ora mi nascondo nell’ombra azzurra dove planano i falchi. Sotto di me

 

il vento alza la polvere degli ulivi che è verde e d’argento.  Poi agito la mano

 

su uno sperone di roccia e tu finalmente mi vedi. Mi gridi qualcosa

 

che non riesco a sentire nella luce piena del mattino, poi scuoti la testa  e sorridi

 

come può sorridere il cielo in un giorno di marzo.

 

 

 

Non dovevo lasciarti  sola nel corridoio dell’ambulatorio.

 

Tremavi di paura - portami via - mi dicevi.

 

Ti tengono forte le braccia, ti aprono la bocca come a un eretico,

 

la gamba sinistra scossa da un ritmo di epilettico, i tuoi occhi smarriti

 

nelle folla dei pazienti, le chiacchiere sul tempo.     Sei condannata all’asta delle flebo,

 

al tuo albero di natale - e se mettessimo delle candele colorate,

 

dei globi trasparenti sui ganci dell’asta? - diciamo insieme

 

nello stupore di ridere di nuovo.

 

 

 

Che non le manchi mai la carne rossa dell’anguria. E’ una bambina ribelle

 

che avrai tra le braccia, Signore. Ed ha paura dei tuoni e del terremoto.

 

Ti farà tremare perché dice sempre quello che pensa, è pallida, impaziente,

 

allevatrice di cactus e di mimose, non farle del male, le manca solo un po’

 

di glucosio ed alcune proteine, ha il viso scarno e stupito. In gola ha un tubo

 

di plastica che le impedisce di cantare.                    Le vene sono gonfie,

 

ma ben disegnate, ha una piccola piaga come una rosa sfuggita all’inverno,

 

da una rosa si comincia a morire. Fai ricorso alle tue pomate miracolose,

 

Signore, per me è lei tutto ciò che sconfina e tu le hai riempito l’anima di buio.

 

 

 

Gli occhi. Gli occhi dove non si legge più niente. Restano aperti.

 

Non hanno mai smesso di guardare  una veduta di Copenaghen sotto la neve.

 

Cadrà anche da noi ed io ti parlerò dell’intera forma del bianco che circonda il frutteto.

 

Comprerò un mastino dalla grande giogaia per tenere lontani i saccenti.

 

Ti sfioro piano le tempie. Vorrei che tu dicessi - con la tua mano

 

mi hai liberato dal dolore - Dimentica ti prego  questo sogno

 

dove dio vola sugli alberi per farli sfiorire.       Mi crescono i denti  -mi dici-

 

da quasi due mesi non mangi, vuoi che ti parli di capperi e di uova,

 

mi mostri i tuoi denti bianchissimi, di latte, che non userai più.

 

Molto, è vero, deve ancora finire, come quando si estingue una specie,

 

come se il falco scomparisse dagli atlanti di zoologia.

 

In pieno sole ti massaggio le spalle intorpidite.    C’è un’agonia che sale

 

lungo le vertebre come una piena in corso.    Due fiale di potassio per la notte. Frammentato.  Ti tolgo le calze bianche da ginnastica,

 

ti distendo la vestaglia sui piedi con le maniche incrociate sulle ginocchia.

 

Due garze ripiegate con cura sul ripiano del comodino. Una luce celeste

 

sulla testa, acqua corrosiva che brucia il sonno, i miei passi pesanti

 

lungo i corridoi desolati, ti lascio inchiodata ad una delle tue ultime notti.

 

 

 

Stai morendo di sete. I pavoni impazziscono per la sete.

 

I facoceri sfidano i leoni nei rigagnoli. E’ nera la gola del coccodrillo,

 

nera la tua bocca bruciata. Mi indichi sulla parete una porta che non si apre.

 

Ti bagno le labbra con acqua di rose. Un coltello vorrei, per sbucciarti

 

come un fico, per toglierti via questa buccia verde, ungerti d’essenze profumate,

 

in questa pioggia di fuoco muovere l’aria che ti  brucia i polmoni.

 

C’è ghiaccio dovunque si cammini. Si può pattinare come a Paperopoli

 

sulla crosta di un lago. Mentre subisci la terapia della sera Godzilla

 

divora l’aereoporto di Manila. Cosa c’è da spiegare di una donna

 

con le unghie di formichiere che  si aggrappa alle sue ultime ragioni?.

 

 

 

Mater Dissanguata è caduta la neve sulle ginestre. Dal fondo dello stagno

 

è affiorata la tua voce. Una mosca si è dissolta contro il fondale d’oro del sole.

 

Come può scendere la primavera sulle antiche cattedrali ora che non ci sei più

 

nel nostro sistema solare. Anche le marmotte si svegliano dal letargo,

 

Mater Luminosa  che appari ubriaca d’ossigeno, una lenta tempesta

 

che ci fa inginocchiare, una forma di valentìa, Mater Sospirosa che grandeggia

 

dentro un’azzurra vena, premurosa come una femmina d’orango, nel brusio

 

dei consigli, Mater Nubilosa per questo improvviso temporale che sale dalla terra,

 

Mater Desiderata, non sono pesci o condor, semplicemente vento che ferma il respiro,

 

bambini pescati con le reti in nome di nostra sorella Ariel mangiata dagli insetti alati,

 

Mater Sventrata dalle terapie, dalle dita di lattice amaro che frugano gli organi

 

fonti di siero e ghiandole, baci rubati nell’ ora delle visite, polmoni che si riempiono

 

di vento, Mater Operata per mancanza di liquidi e di luce

 

e a niente serve una tazza di brodo, un incoraggiamento sincero.

 

Si gonfiano le gemme della quercia, l’acqua crepita nelle vesciche dei rami,

 

l’orso strascica le sue ciabatte pelose.                          Sta per irrompere marzo

 

con i suoi riccioli di leopardo, con le tende di lino aperte sul mare,

 

Mater Gelata che non puoi più conoscere il tepore del camino,

 

sono uncini questi arnesi d’argento che ti sollevano come selvaggina,

 

Mater Smisurata che hai la sorte delle comete che cadono

 

sulle carte dei magi, Mater Capturata, ti alzi in piedi e mi confondi di nuovo,

 

Mater Soffocata  il cuore si è rovesciato davanti a penosi sonagli,

 

in castigo mi hai messo, al dominio dell’acqua e della ruggine.

 

 

 

Sbrigati a pensare a me. Il fragore del tuono soffoca la voce della fisarmonica.

 

Ti stai gonfiando di glucosio, di glassa sono le tue lacrime, ti trasformi

 

in meringa, in marzapane. Muovi gli occhi come un camaleonte,

 

sei un cespuglio di salvia fiorita che attira le api.

 

Il mattino che abbiamo perduto la speranza non ci siamo accorti

 

dei delicati rami del limone. Ci avrebbe illuminato il cammino.

 

L’orina versata sotto il tavolo brilla alla luce viola, devono esserci degli iris

 

da qualche parte, stelle e aminoacidi. Non è facile respirare questo cielo

 

fatto dagli uomini. Un paio d’ore ancora in questa scatola per conigli.

 

 

 

E’ la notte del tuo ultimo Natale. Se tu potessi ancora camminare

 

saresti con le tue cartelle della tombola a combattere il sonno,

 

si potrebbe uscire con il cappotto pesante verso la chiesa ancora vuota,

 

appena un po’ allegri per il vino bollente, accenneresti Verdi

 

sulla schiuma dorata dell’organo, ma quando scende questo vuoto

 

di ragioni di premure l’aria intorno alla tua bocca si può muovere

 

solo con la frusta.    Il cielo di questa notte di Natale si sposta indietro

 

verso bagliori, collisioni misteriose, abiti che cadono perché il chiodo

 

non regge come profeti e tiranni. All’infinito.                    Sbrigati  a guardarmi

 

in questo vento che non smuove nulla nei corridoi di cartone e gesso,

 

senza orchidee, bambini. Sei diventata più solitaria qui, senza nome,

 

una spia. Sei la sei uno che scende dalle stelle con la sua aureola di plastica

 

piantata nel naso e nella gola, nella notte lieta dove si celebrano

 

i morti di sete, le iguane dimenticate dalla pelle ruvida.

 

Vedrai la morte arrivare davvero, quella morte che ci faceva tremare

 

leggendo, al cinema, nei resoconti di guerra, la vedrai arrivare, vera,

 

feroce, quella dei granchi, dei vecchi, del fagiano che cade

 

nel punto più alto del suo volo per insufficienza cardiaca.

 

 

 

E’ una notte chiarissima. Si vede la città come sul dorso

 

di una mano - ti ricordi quel libro- mi chiedi con gli occhi socchiusi-

 

forse di Molnar, non ricordo, sui pesci volanti?- uno spiraglio di luce

 

nelle orbite chiuse basterebbe a salvarti.            Mi dici di sacchi di plastica

 

in gola a soffocarti il respiro.                 Un uomo si lamenta nella stanza vicina.

 

Grida forte. - Tra poco anch’io griderò così - dici piano.

 

Sei un boccone prelibato per il cielo. Ci sono giorni che non si possono

 

toccare senza provare ribrezzo. Cadono su di noi senza rumore,

 

ci aggrediscono alle spalle come i banditi o il temporale.

 

L’anno finisce nell’ombra che avvolge la nostra magnolia.

 

 

 

Sono stato un pessimo figlio. Solitario  e ribelle ed ancora lo sono,

 

perché l’amore è violento, fa morire le deboli piante.            Anche da te

 

ho dovuto difendermi.                    Ti ho fatto del male, spesso e a lungo.

 

Mi hai preparato allo scontro con pomate di miele e di curaro.

 

Per questo sono qui, fedele, a scrivere di te che la morte invade.

 

Sarà questa l’assenza, non poterti confidare un raggiro, una gioia,

 

non sentire più la tua voce al telefono - finalmente sarai contento,

 

è finita l’estate-                          Vorrei che tu potessi entrare

 

nel nuovo anno senza questo tuo passo di neonato.

 

Da quale pensiero si stacca lo struzzo bianco che t’insegue?.

 

-Aiutami a vivere -mi dici -massaggiami le caviglie, da non crederci,

 

sono di marmo-            L’odore della tigre si sente da molto lontano.

 

Si esibisce senza applausi. La tigre ha il mantello di raso.

 

Abbiate pietà di mia madre in gabbia. Ha lasciato l’Africa per farsi curare.

 

 

 

Vorrei pregarti di smettere di morire in questo modo

 

mentre tutti si preparano ad uscire sfoggiando i loro vestiti nuovi,

 

le loro speranze. Con te si estingue una specie dolcissima.

 

Smetti di morire in questo modo come una foca distratta

 

che non si avvede dell’orca alle sue spalle.

 

 

 

Vuoi la porta aperta. Giorno e notte. Hai paura di soffocare.

 

Il vento la chiude. Il vento che non ha pensieri, che non si cura di noi.

 

Ti avessi abbracciato più forte forse ti avrei salvato, se ti avessi toccato

 

gli occhi con le dita avrei potuto difenderti.

 

Sei vittima di un insano incantamento che stritola la resistenza di un’anima.

 

 

 

Ti cercano il sangue. Sul dorso delle mani, nelle caviglie.

 

Ti vedo chiudere gli occhi per ricevere l’ago. In tutto il corpo.

 

Ti libero dal nodo dei tubicini di gomma, l’ikebana delle soluzioni

 

di destrosio, l’arte di disporre i giorni nelle vene annerite.

 

Il tempo è in bilico sopra la tua testa, sta per crollare

 

toccato dai tuoi lamenti. E ora l’altra vita, quella senza speranza.

 

Vorrei dirti ancora con la faccia di sfida-“ sto mettendo insieme

 

dei soldi per l’Honduras”. Penso che stai morendo come una cernia

 

nel basso fondale e che ogni giorno veniamo nel tuo acquario

 

a controllarne gli effetti. Una regina con il suo scettro di flebo,

 

incoronata di agli, con un’orrenda proboscide di gomma

 

che aspira un liquido verde in un sacchetto di plastica.

 

Una regina in vestaglia con le calze arrotolate sulle caviglie.

 

 

 

Ti massaggio i piedi per scaldarti il cuore, ti pettino,

 

ti aiuto ad indossare le scarpe. Te le allaccio

 

come facevi con me bambino. Ti racconto cosa succede

 

fuori da questo mattatoio. Non ho più paura.

 

Sarò il tuo cane da guardia, tenero e feroce.

 

Perché non ti vogliono più. Sei il loro insuccesso.

 

Dalla finestra vedo delle giovani coppie camminare

 

nel morbido scintillìo della luce. Ma dove stanno andando

 

se il freddo ha smesso di far male?. Tu sei qui,

 

inchiodata e nessuno si ferma a chiederti un  miracolo.

 

 

 

Ti ha catturata la forza di gravità, tiepida, come di sangue.

 

Ti spinge giù, tenace. E’ gelosa dei tuoi polmoni sani.

 

Stai già dimenticando. Stanotte resto qui con te - ti dico-

 

ti guarderò fino alla fine senza paura, senza distogliere gli occhi.

 

Rovescerai questi giorni che ti cadono dalle mani

 

-è questo che so fare -dirai alla morte - amare, tagliare le cipolle,

 

impastare uova e farina, ridere per sciocchezze, amare -

 

come si ferma la macchina del respiro? Sentirai la mia mancanza?.

 

Chi mi sorriderà, come fai tu stasera, con la bocca piena di sangue

 

voltandoti poi verso la finestra per non farmi star male?

 

Vorrei  che non ti perdessi fuori di me.

 

-Non aver paura - mi dici e sul muro della camera si allarga

 

la macchia nera di quand’ero bambino dopo un piccolo incendio

 

di fronte al mio letto - Non voglio crescere più - ti dicevo

 

con la faccia nascosta nel tuo petto. Non mi volterò mai più

 

verso quel muro annerito.                       Ti allontani.

 

Hai grandi ali che sbatti senza rumore.

 

Sei più grande di ogni altro dolore e mi superi.   Imprendibile.

 

 

 

Signore, dov’è la tua immagine antica in questi corridoi

 

indifferenti al mio vagare inquieto?. Hai generato il cammino

 

dei mostri ma ti sei smarrito agli incroci mortali.

 

Non ci sei in questi silenzi rotti dal pianto. Qui cresce solo il tuo disordine.

 

Qui si perde la tua linea antica, le tue piume d’avvoltoio.

 

La sua solitudine è il rodere del tarlo nella trave marcia,

 

è la pioggia di brace che ti cade sulle mani.

 

Questo ci hai imposto, Signore, una devozione senza speranza,

 

il profitto di questa morte in pieno vento, in questo termitaio

 

ci hai lasciati soli con la nostra vocazione all’eterno.

 

La tua luce cupa si è materializzata in viole, in vicoli ciechi, in lamenti,

 

io t’invoco ostinato perché tu spezzi loro la schiena, Signore.

 

Qui ridono, bevono vino mentre mia madre digrigna i denti

 

in prossimità del tuo regno se ne hai uno dove non si parla di vacanze

 

accanto a un corpo di cane digiuno invaso dal tumore.

 

Fai rotolare le loro statue, i loro capitelli che incantano gli idioti.

 

Io sono chino sul tuo viso, Signore, è verde come carne avariata,

 

non hai parole per lei che vomita sangue e stupore, almeno liberaci

 

dai nostri miseri teoremi, dalle nostre immonde gerarchie.

 

Che cosa sai di lei, della sua feroce bramosia di guarire,

 

di questa tragica sorte che ha sfigurato i tratti del suo volto?.

 

 

 

 

 

 

 

Mater scarnificata rendo omaggio ai tuoi grandi prodigi, per esempio,

 

cadere nell’azzurro con le palpebre chiuse o nel fiume

 

del tempo nostro senza un lamento, Mater disseccata oltre i nostri confini,

 

nello scempio che provoca la boria, Mater  turbinosa il cielo fu creato

 

tutto intero e tu con lui con le sue molecole di vetro e di verità, nella schiuma regale

 

delle tempeste, Mater sfiorita e affannata sulla collina d’erica bruna

 

che non salirai più, il tuo respiro distinguo a fatuca dagli scrosci di pioggia,

 

in questa Waterloo la nostra storia si compie, Mater sospirosa

 

da dove ti nasce tanta speranza dolorosa?. C’è solo una trappola

 

di vetro e acciaio che si strofina al cielo.

 

 

 

Ti ho lasciata ai carnefici, straziata da questo inverno

 

che brucia la lingua dei delfini. Il fortunale ci ha investiti

 

lasciandoci sull’asfalto. Non c’è tregua. E’ la fine crudele

 

dei tonni nella camera della morte, con le branchie intasate di rabbia e di sangue.

 

 

 

Nostra Signora dei Reietti, nessun reparto ti vuole, indegna sei per ogni chirurgia.

 

Tagliano carne viva che può tornare in alto, indegna per ogni cura

 

perché della specie dei morituri che indugiano troppo sul confine della vita.

 

Nostra Signora degli esclusi, docile come i lupi di selva,

 

crocifissa alle prime luci dell’alba, in gran segreto come il maiale

 

accecato dai fari che non vede chi gli spacca il cuore

 

ed ha un destino di sale, d’acqua bollente il sultano del porcile,

 

davvero nessuno ti vuole Nostra Signora dei porci

 

sepolta nei calmanti, nobile e per sempre digiuna,. orsacchiotto sventrato, immobile

 

per abbronzarti di fiele, più alta e più pura delle gerarchie terrestri.

 

 

 

Tu che eri la grazia in persona mi guardi con gli occhi

 

affogati in una disgustosa gelatina.                       Ti bagno le labbra

 

con una spugna - come nella Passione - mi dici - vengo dalle strade

 

invase dall’odore marcio delle mimose e delle pescherie.

 

 

 

Sulla ghiaia del Taro lanci nell’aria una piuma.

 

La sostieni soffiando verso l’alto e tutt’intorno è Parma e cielo.

 

 

 

Come un calabrone la morte ti ronza intorno.

 

A volte te ne vai oltre la parete bruna, poi ritorni con gli occhi

 

sempre più opachi, con lacrime vischiose di un collirio velenoso.

 

Ti faccio la guardia come un mastino dominante.

 

Se io sapessi cosa fare per il tuo ventre di zolfo, se sapessi massaggiare

 

il tuo male, farlo lievitare fino ad esplodere in una nuvola di talco.

 

La morte ha assaggiato il tuo latte. L’ha tenuto contro il palato

 

come un vino novello. Ti cercava con i suoi segugi. Una bestia da stanare

 

e sbranare. La vedi arrivare con balzi di iena. Lo sapevi perché nel pugno,

 

senza farti vedere, hai nascosto il petalo di una margherita.

 

 

 

 

 

Dormi dormi mentre cadi nel passato, non c’è fuga passeggera,

 

dormi e ascolta un fruscìo di biciclette, c’è il carretto dei gelati,

 

il veleno nelle arterie, è la tua gonna di lana che trascini in fondo al buio,

 

dormi dormi  che il tuo sonno non finisce come un bimbo che si arrende

 

al potere degli adulti, sono in piedi sulla porta della stanza

 

a contare il tuo respiro, dormi dormi che il silenzio già ti avvolge

 

e la nebbia si riversa sulle ultime ragioni, dormi dormi,

 

dolce Dori che deliri.

 

 

 

Ti avverto che te ne andrai in un luogo scuro e che ci sarà

 

un vento lentissimo che ti farà rabbrividire. Ti prenderà per mano

 

senza poterti consolare, nell’erba fredda sarai  ed io non dormirò

 

mai più accanto al tuo respiro, alle tue meraviglie.

 

Le tue mani ora sono di nuovo innocenti, le tue mani

 

stringono una fiala di calmante, mi hanno difeso

 

dall’assalto del crescere e della polmonite.

 

-non aver paura, ci sono io - ti dico, ti addormenti

 

nello splendore del lenzuolo come distesa su petali di sambuco,

 

sogni di viaggi, di acque chete, di attori che recitano Marlowe

 

nel sibilo della tracheotomia. E’ la stagione dell’unicorno

 

che si nutre di rose e di tormenti.

 

 

 

I capelli sulla nuca rimangono sollevati alla maniera dei pavoni.

 

Con le spalle al sole dell’alba ora non compare più il tuo normale

 

alone di fumo e se guardi verso la luce della lampada

 

con il pugno destro sulla fronte la linea del polso s’interrompe.

 

 

 

-il figlio scrive - dicono di te - è sempre qui, cammina nel corridoio

 

avanti e indietro come  in gabbia, lei è gialla, peggio del vaiolo

 

e parla da sola - Ricordi? Il perimetro del triangolo...in una vasca da bagno

 

che contiene cento litri d’acqua...non puoi stare seduta né in piedi.

 

-ha la febbre gialla - grida un bambino ai piedi del tuo letto.

 

Corre via impaurito. Il padre gli chiude gli occhi con le mani.

 

Non aver paura è una madre come le altre.

 

La malattia le ha asciugato i lineamenti, ma gli occhi

 

sono ancora di puro vetro.

 

 

 

Parli di tamburi, di sonagli. Benvenuta nel reame dei bradipi,

 

animali lenti e cerimoniosi sul filo dei rami, pochi metri al giorno

 

per non cedere mai, guardano la Tasmania con gli occhi di un criceto,

 

un bradipo nella stanza 6, lento, ostinato. Sono rimasto solo

 

in questo sommergibile che affonda, un’anima che evapora

 

come l’orina di un cavallo. E’ grazia che brucia.       Non fa fracasso.

 

 

 

- Mi scoppiano i denti. Mi crescono in bocca come le zanne del cinghiale -

 

Ti osservano i cacciatori di teste, i visitatori che scendono le scale,

 

dentro gli ascensori, nelle ganasce della notte, vengono a vedere

 

le tue labbra nere, labbra come il dorso di una carpa d’oro,

 

mangime che ingrassa solo la morte.

 

 

 

 

 

Tu mi avresti salvato. Avresti gridato lungo i corridoi.

 

Non mi avresti lasciato solo, mi avresti detto - credevi che ti avessi dimenticato? -

 

ti guardo ansimare nel rumore della grandine, ti attraversano immagini confuse,

 

parli di lepri, di giocolieri, io sono già senza nome. L’arco si è rovesciato

 

e si fa buio sopra questa scorpacciata di tarme.

 

Tu mi avresti salvato solo con la magia della tua voce.

 

 

 

Stella del mattino dentro una nuvola che si solleva solo a pensarla,

 

nella fiducia solenne, nella polvere di Tangeri, eccitato dal nulla

 

e dai medicinali, protetto dall’albume di una donna, dalla sua bava

 

cristallina, stella del mattino d’Alfama, camminando a grandi passi, io,

 

traditore e ciarliero come un cacatoa, in una missione delicata, stella del mattino

 

a caccia dei mansueti, senza padroni che fai luccicare l’ebano degli altari,

 

con le tasche del cappotto piene di confetti, noi non abbiamo vaste praterie

 

dentro di noi, ma croste e amianto, stella del mattino devi rimetterti in piedi

 

e camminare come tu mi hai insegnato, un piede dopo l’altro

 

contando fino a cento, stella degli ultimi giorni, ti porterò via da qui,

 

tu mi hai tolto la sabbia dalle scarpe, mi hai difeso dal Grande Coniglio,

 

non ridevi se inciampavo nei miei lunghi piedi, è l’ora esatta

 

della stella del mattino quando nascondi la faccia dentro al petto

 

come un passero ed io non posso darti nuove giornate

 

docili alla pioggia, esposte alla speranza.

 

 

 

Ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,

 

la darò all’uomo bianco che le accarezzi il viso stanco,

 

che le bagni labbra e tempie, che le tenga un po’ la mano,

 

ninna nanna in questo buio fa paura anche la luna,

 

quando avanza primavera si va in cerca di fortuna,

 

dolci notti, dolci attese, il tuo viso di una volta,

 

ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,

 

la darò all’uomo nero che la tenga un mese intero,

 

ninna nanna le tue ciglia sono rade, questo tempo ha chiuso il pugno,

 

è lo scorrere dell’acqua, è il narciso che combatte,

 

ninna nanna dell’estate col suo passo di lumaca

 

dormi dormi che tua madre sceglie i tronchi per il forno,

 

ci sarà una torta bianca da mostrare agli invitati,

 

ci sarà tuo padre ancora dentro il lago dello specchio

 

e la grazia del futuro si è posata sopra i vetri,

 

ninna nanna è come prima nei suoi abiti invernali,

 

tutto questo è già accaduto ma ritorna se lo vuoi,

 

dormi dormi mia regina, soffia vento

 

questa nuvola candita, che se tieni la mia mano

 

questo grigio passerà, dormi dormi in questo buio

 

che è soave anche la pioggia, dormi dormi che mi vesto per seguirti,

 

come fanno solo i figli che non devono sapere,

 

ninna nanna ninnaò questa donna a chi la do,

 

la darò all’uomo bianco che la tenga finch’è stanco.

 

 

 

 

 

Mater intemerata, non dovrai più sfoderare gli artigli,

 

sarai la luce che sfiora la pioggia e scompare.

 

Le giornate si faranno più brevi. -sei a casa - ti dirò - apri i pugni

 

e mostrami le stelle che hai afferrato per me.          Diventa docile al tepore

 

che ti bacia le tempie.                          Mater amabilis, non accade più nulla.

 

Qui non devi nasconderti. Il tuo incarnato non spaventa nessuno.

 

Mater admirabilis, niente può ancora farti del male, ad accoglierti

 

quasi un bagliore di cometa nel cielo notturno. Dietro ai vetri appannati

 

la città è scomparsa. E’ un lento crepuscolo da vivere, stella dopo stella,

 

nel più cupo fragore come si ammaina una bandiera contro un cielo nero.

 

Ti dico -guarirai, potrai cambiare pettinatura, comprarti un anello d’oro,

 

passeggiare. Come te ho mani appena cominciate. Noi siamo senza sforzo

 

oltre le cose lievi.                   Non sei più in nessun luogo. Sei svanita

 

dentro una nuvola di farmaci dai nomi dolcissimi.    Lasciati andare alla magia

 

dello Zantac, alla fiducia nel Darinol, la tua voce è l’urlo  di una bestia ferita.

 

 

 

Mi hai chiamato piano, con la misura che mi faceva crescere.

 

-non è niente -mi dici -vuoi prolungare questa tua nostalgia fin dentro la morte.

 

E chiudere gli occhi inzuccherati d’amore e il cuore si ferma

 

come finisce la carica di un orsacchiotto di latta.    Senza tracce di risentimento.

 

Hai chiuso gli occhi e il tuo cuore si è dissolto

 

nel lago del tempo come polvere di vaniglia.

 

 

 

E’ venuto da molto lontano questo vento gelido

 

che avanza superando gli Urali, sollevando i torrenti

 

che trascinano fango e carogne.                                        Viene dalla Siberia,

 

violenta le pianure foderate d’aranci.                     Non sopporto i tuoi occhi

 

senza luce, la bocca ferma nello stupore, riempita di cotone,

 

il mento sostenuto da due asciugamani arrotolati.

 

Così si trattano le bambole, i coccodrilli  impagliati, i trofei di caccia.

 

E’ un dolore che lascia senza fiato.          Sfioro le tue guance gelate,

 

penso a questo tuo cadere all’indietro per quanto dura il nostro cielo strappato

 

che cerchi di baciare ancora con le tue labbra bianche.

 

 

 

( Ho solo voluto dirti che ti amavo.

 

Gridarlo forte.

 

E’ tutto.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FABRIZIO PARRINI

 

Docente di Storia dell’Arte.

Ha insegnato Drammaturgia presso la Scuola Comunale di Teatro L’Artimbanco di Cecina, del quale è tra i fondatori, dal 1995 al 2003. Nel 2003 fonda con Roberto Veracini, Eleonora Chiarugi  e Michele Bracciali,  il TEATRO DELL’ANIMA.

Nel 1995 pubblica la prima versione di UN CAVALLO NEL CIELO per le Edizioni Zephiro di Firenze, nel 1996 pubblica per gli OSCAR MONDADORI una scelta di poesie d’amore. Nello stesso anno esce CANTI PER LA SCENA edito da Loggia dei Lanzi di Firenze. Pubblica il poema CAM sulla vita della scultrice francese Camille Claudel nelle Edizioni Giacchè di La Spezia. Nel novembre 1997 pubblica UN CAVALLO NEL CIELO per  RIZZOLI SONZOGNO di Milano. Nel 1999 pubblica il poema MARINA DAL PASSO DI COMETA presso VANNI SCHEIWILLER EDITORE.

Nel 2002 pubblica in VENT’ANNI DI POESIA un’antologia curata da Maria Luisa Spaziani e Mario Luzi per l’editore PASSIGLI. 

Cura per la casa editrice BARBES di Firenze la traduzione e la presentazione della raccolta di poesie di FEDERICO GARCIA LORCA dal titolo IO PRONUNCIO IL TUO NOME , di FERNANDO PESSOA dal titolo INQUIETUDINI , FlEURS di Arthur Rimbaud. 

Pubblica con R. Veracini IL CRISTO DEI POETI – Versi sulle quattro Deposizioni di Volterra per le Edizioni ETS.

Nel carcere di Volterra presenta il reading GENET in Volterrateatro 2013.

Nel marzo 2015 pubblica per  le Edizioni Clichy - CARMELO BENE.Il Teatro del Nulla.-

 

La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autore a Pioggia Obliqua

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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  • DIALOGO CON ANTONIO TABUCCHI
  • Quattro domande a MARIO LUZI
  • Un'intervista a Edoardo Sanguineti- Un testo di Valerio Magrelli
  • Quale presenza. Testi di: Luzi, Baldacci, Valduga, Cacho Millet, Lolini, Marchi, Gonfiantini...
  • LA PAGINA DI PAOLO LAGAZZI
  • LA PAGINA DI MARCO MARCHI
  • "Una goccia d'inchiostro di china" a cura di Cristina Banella
  • SPAZIO ALLA BELLEZZA
  • Per ENZO SICILIANO
  • Ricordo di LUIGI BLASUCCI
  • Per SILVIA RIZZO
  • La poesia di Fernanda Romagnoli
  • H A I K U di Luigi Oldani
  • 'Aghi di Pino' scritti di Luca Cenisi
  • Poesia: ENZO MAZZA
  • Poesia: Alba Donati
  • Poesia: Alessandro Fo
  • Poesia: Franco Buffoni
  • Poesia: Roberto Deidier
  • Poesia: Isabella Leardini
  • Poesia: Paolo Ruffilli
  • Poesia : Clara Monterossi
  • Narrativa-Poesia: Tiziano Fratus
  • Poesia: Giacomo Trinci
  • Poesia: Elisa Biagini
  • Poesia : Maria Pia Quintavalla
  • Poesia: Rosaria Lo Russo
  • Poesia: Matteo Pelliti
  • Poesia e fotografia : Elisabetta Beneforti, Shandong lu
  • Poesia: Elisabetta Beneforti, Senza Permesso
  • Poesia: Cinzia Marulli
  • Poesia: Roberto Veracini
  • Poesia: Giuseppe Grattacaso
  • Poesia: Daniel Fermani
  • Poesia: Alberto Toni
  • Poesia: Stefano Bortolussi
  • Poesia: Rosalba De Filippis
  • Poesia: Fabrizio Parrini
  • Poesia: Giancarlo Baroni
  • Poesia: Alfredo Rienzi
  • Paolo Pagli Haiku
  • Poesia: Claudio Pozzani
  • Poesia: Marina Pizzi
  • Poetry: Jeffrey Harrison
  • Poesia: Jeffery Harrison Poesie e un'intervista
  • Poesia: E.Seghetta Andreoli, A.D'Errigo, S. Colli, F. Giusti
  • Poesia: Saverio Bafaro
  • Poesia: Lucia Cupertino
  • Poesia : Giordano Occhini
  • Poesia: Michela Zanarella, Ester Monachino
  • Poesia visiva: Elena Marini
  • Poesia Visiva : Luc Fierens
  • Poesia: Francesco Bargellini
  • Poesia: Daniela Gentile, Claudio Pasi
  • Stefano Loria pittura-poesia
  • PROPOSTA POESIA a cura di ALESSANDRO FO
  • Poesia proposta: Canale, Lombardi, Merola, Tognoni, Bertone.
  • Poesia proposta: Gian Luca Guillaume, Luca Ispani, Filippo Amadei
  • Poesia proposta: Di Gennaro, Repossi, Rimolo
  • Poesia proposta: Angelo Santangelo, Giulio Mazzali, Marco Bini
  • Poesia proposta: Cunial, Viti, Viotto
  • Poesia : Greta Rosso
  • Poesia: Giovanna Cristina Vivinetto
  • POESIA : Jean Soldini
  • Poesia : Daniela Zambrano - editi e inediti
  • Poesia proposta : Manuela Mori, Selene Pascasi
  • Poesia proposta: Mirra, Allo, Strinati, Ciampalini, Carnevali, Peralta, Casulli, Bresciani, Marrone
  • Poesia proposta: Vera D'Atri
  • Poesia proposta: Laghi Pasini, Milleri, Malerba, Corbetta, Merico
  • Poesia Proposta: Valerio Succi, Michela Gorini
  • Poesia Proposta: Filograna, Della Ciana, Imperato
  • Poesia Proposta: Alessandro Monticelli
  • Poesia Proposta: Luca Gilioli, Pierpaolo Lazzaro, Hero Haze
  • Poesia Proposta : Ornella Mereghetti, Danilo Luigi Fusco
  • Poesia proposta:Pietro Edoardo Mallegni, Anna Polin, Susanna Russello
  • Poesia proposta: Marco Serravalle,Matteo Piergigli
  • Poesia : Sara Comuzzo
  • Poesia proposta: Antonietta Bocci,Valerio Sanzotta
  • Poesia Proposta: Viola Bruno, Alessia Lombardi, Maria Bochicchio
  • Poesia proposta : Maria Benedetta Cerro, Gabriele Greco
  • Poesia proposta: Abruzzese, Marcantoni,Pedrazzi
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  • Poesia proposta : Doris Bellomusto, Virginia Veludo, Patrizia Baglione
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