GIOVANNI PARRINI
Giovanni Parrini, Non la fine nè il fine, Industria & Letteratura, 2025
Il libro del fiorentino Giovanni Parrini è costituito da otto sezioni, più un prologo e una clausola, per un totale di settantasei componimenti. Parrini, tenendo fede a quella che appare, già dai lavori precedenti, come la sua cifra identitaria, sviluppa l'opera essenzialmente attorno all'irresolubilità escatologica dell'esistenza; un problema insito nell'esserci e suggerito già dal titolo, tutto giocato com'è sulla variazione di genere del termine "fine", qui significante, nel genere femminile, l'obbligata e inarrestabile ricerca di senso all'esistenza; in quello maschile, l'ineludibile percezione della mancanza di uno scopo ultimo alla suddetta ricerca, in un viluppo silenzioso, che angosciante eppure meraviglioso, determinato dalla misteriosa caratteristica che differenzia l'uomo da ogni altro essere vivente, ovvero la coscienza di sé, di esistere in un certo tempo e in un certo spazio.
Da questa silloge di Parrini proponiamo il Prologo e un estratto dalla prima sezione.
Prologo
Cosa mai sia, sarà stato, il passaggio
non sarà, né mai fu dato sapere,
quale dolce volere, nell’ingaggio
da gratuite comparse, dia il potere
di credere che valga o di non credere
questo copione, sempre da riscrivere,
in mille modi differenti e uguali,
ogni volta e per sempre, da soffrirlo
daccapo, con passione nuova, amarlo
e con sgomento. Sarà stata grande
la bellezza dell’attimo e del transito,
per il mistero che soffolce i giorni
che, se talora eguali e disadorni,
sempre nel cuore accendono il motivo
eccelso e leggerissimo, qual è
un refolo che passa: questa vita
che ci commuove e non si sa perché.
da "TRA DOLORE E STUPORE"
Per lontani, lontanissimi, giri,
il tempo parla con parole remote,
di stagione in stagione, nei richiami alti dei migratori,
nelle foglie tremanti,
nei fiumi che hanno sillabe montuose,
nel mare che le ha verdi, azzurre, bianche
e tutto torna, come sa tornare,
tutto dilegua, come deve fare,
sperperarsi e serbarsi,
di passione in passione, nella sua nostalgia,
nel caso che trasceglie
o che, forse, è l’amore inconoscibile,
immenso che determina e riunisce il dolore alla gioia,
la meraviglia al dubbio, con oscuri portenti:
la rondine tornata sempre al solito nido,
la magia della brina,
i nomi sulla fede d’oro persa che il mare custodiva
perché qualcuno la ritrovasse
e ritrovasse l’emozione, il pianto.
Il pensiero che niente esisterebbe
se non fosse per noi,
«… tutto questo che non fu primavera,
non luglio non autunno ma solo egro
spiraglio solo psiche»
ci sfiora e crea mondo, è mondo vero,
mette poietici mattoni,
dà nomi e paradigmi,
costituisce legioni di costrutti,
tassonomie, definizioni, tutto il bello di là fuori -
estenuazione di un soffice software -
materia per cui siamo schiave fibre,
cadute qua nella miseria eccelsa di iddii soggiogati.
Imparare, dobbiamo,
provando e riprovando,
a muoverci nel tetro labirinto
perdendo a poco a poco l’immagine,
vedendola assorbirsi
nel grande eccelso vuoto
e noi, la vita, così possiamo amarla,
nel non saperne nulla,
nulla di quel colore che diventa iride o filo d’erba,
di quel tormento che è l’amore, nulla
dell’odio o del sorriso,
di un vagito e di un raggio in cui la polvere danza
sogni ancora da fare
dolorose bellezze, trafitture,
attimi solamente: meno ancora.
Il rito del ritorno quotidiano
pedissequo, si svolge in abitacoli di ferro,
senza neanche tentare
una prova di senso,
il cellulare e il sintonizzatore
i soli che s’impegnino a ghermire flussi,
modulati elettroni,
stringhe glaciali di pensieri, ansie
d’esserci e dirsi vivi,
oltre il singhiozzo del grigio procedere
fra stelle tremule di fari e lune di neon,
finché s’inceppa il surrogato esserci
e si blocca la fila
per uno sguardo cui parla il mistero
di un fiore col suo inno di colore
che s’inasta colpito dal benzene,
nella geenna dello spartitraffico.
Al margine del prato, il tempo accumula
anni e silenzio, in orbite più lente,
fra le panchine un poco sverniciate,
distanti il raggio da dove più assorta
la vita guarda corse e inciampi,
le macchie d’erba sui pantaloncini,
il trasognato credere, senza una fine, un fine.
Forse, solo la fantasia è chiarore,
forza di rimanere a non comprendere,
a rifare daccapo, nel silenzio del cuore,
storie di foglie che tornano verdi,
salti e risate che dilegueranno
e, un giorno o l’altro, torneranno qui,
in altri volti e attese, altri futuri,
sulle panchine a ripensare come viene, diviene e va
tutto questo mistero.
Cresciuti così tanto che nemmeno ci avevi fatto caso
i vecchi tigli, nell’inesorabile avanzata del nuovo,
l’ipermercato, la strada larghissima
che copre quella dei tuoi primi passi
e la scuola venuta su veloce, razionale,
da dove escono a nugoli, a sogni, a gridi, i bimbi
e tu, fra loro, ti rivedi, corri
voli a un abbraccio che ti coglie e si allenta,
si allenta e sfuma piano,
si sgrana come il giorno fra le tue mani d’ombra
nella sera che scende,
più silenziosa, immensa, poco a poco
nel respiro affannoso.
Quale grano d’immensa dolcezza fu disperso
da divinità pigre nell’abisso del tempo,
non lo si sa,
né quali giri ineffabili fa la bellezza immortale,
col suo mistero, dipingendo cieli,
arcobaleni e lucciole,
accendendo barlumi a questa nostra rabbuiante visione.
Possiamo sussultare d’emozione
per sempre, noi possiamo,
senza alcuna ipoteca, senza crederci,
e poi magari darci pure di stupidi,
per un arcobaleno,
per la neve o per una farfalla,
o per la limpida sorgente timida che vuole essere fiume.
È il privilegio della leggerezza
quella che va dagli occhi su, alle stelle
e ne prende quel poco, da sognare
che la notte, dai suoi bastioni, stia a guardarci,
bambini che non sanno del domani.
La vita
è una povera cosa,
qualcosa che è povera vita,
un niente che chiama, s’innalza,
per mille rampolli e si perde,
che è un nodo di mani tremanti,
che cede, serrandosi: è vita,
la vita, una povera cosa,
qualcosa di immenso, soave
che passa in silenzio, una sera,
nel sonno, in un nome,
la vita.
Dove va il tempo che ci si presenta?
O, passando, gli istanti, si cancellano?
Forse, sono soltanto granelli d’una clessidra immane,
inerti corpi opachi
sempre uguali,
destini fatti per passare il calibro freddo,
forzati da un ribaltamento eterno,
per essere pienezza superiore
che si fa vuoto per un’inferiore pienezza,
assenza per presenza,
una per l’altra, scambievoli, pronte a trasmigrare
cambiando ruolo,
inenarrabilmente.
Il fiume ha un tempo liquido,
una memoria d’acqua che trattiene
silenzi di montagne,
gare di pesca, ponti
palazzi e stelle che stanno a guardarsi,
scoppi di sole e torbide serate,
un mondo capovolto
tra mulinelli e anse
e i due, quel bacio, liquefatto già
solo corrente che va lungo un sogno
immutabile, unico: l’amore.
Un poco d’attenzione e di pazienza
e senza fare caso allo sconforto
(e soppesando bene la speranza,
che non diventi un appiglio volgare)
e lo vedi come il tempo si fa
nocca invecchiata, uscita dalle tasche
e turbinare inquieto di curiosi occhi
fra fantastici mondi
rotanti della giostra. È una questione,
sai?, di riferimenti
di trasognati capovolgimenti,
se quando pure nel battito fiacco, si corrompe la regola,
per fortuna, e s’illumina
la scorata officina dell’esistere.
Giovanni Parrini è nato nel 1957 a Firenze, dove risiede.
Ha pubblicato le opere di poesia Nel viaggio (Lietocolle, Faloppio, 2006), Tra segni e sogni (Manni, Lecce, 2006), Nell’oltre delle cose (Interlinea, Novara, 2011), Valichi (Moretti&Vitali, Bergamo, 2015 - Premio Nazionale Letterario Pisa; Premio della Giuria Viareggio-Repaci, terna finale), L'occasione e l'oblio (Stampa 2009, Varese, 2019 - semifinalista Premio Viareggio Repaci 2020), Non la fine, né il fine (Industria & Letteratura, Massa, 2025).
Nel 2019, ha tradotto varie poesie da Wade in the water, opera del Premio Pulitzer Tracy K. Smith e, nel 2020, The Bard di Thomas Gray.
Nel 2022, ha pubblicato il volume Thomas Gray, l’opera poetica (Le Lettere, Firenze) che raccoglie le traduzioni annotate di tutte le poesie dell’autore inglese.
Per le scuole superiori, cura, occasionalmente, cicli di incontri riguardanti l’esperienza della poesia nella società tecnologica.