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   POESIA PROPOSTA

 

 

                        PIETRO  EDOARDO  MALLEGNI

 

 

Edoardo Mallegni, Profumo di liquirizia, RPlibri, 2023

 

 

“Profumo di liquirizia di Pietro Edoardo Mallegni è un libro dall’atmosfera crepuscolare, è quasi sempre una descrizione di quotidianità ed esperienza individuale venata di malinconia. I versi sono liberi, il tono lirico, le descrizioni fortemente sensoriali. Pietro cerca solamente tranquilli angoli del mondo e luoghi conosciuti dell’anima in cui rifugiarsi.” 

 

[dalla prefazione di Stefania Di Leo]

 

 

 

All’ombra di un vecchio albicocco, 

mentre passo, resine e ardesie, 

che ossigenano pomeriggi e 

pensieri leggeri, nutrono 

l’immobilità della natura. 

 

Specchi sono i frutti che cogliamo, 

libero oblio del giorno: il mordere.

 

 

 

Le strade sono invecchiate, 

marciapiedi e querce si sono storti, 

palme hanno sbriciolato la corteccia, 

vento e pioggia hanno ridisegnato 

le case e i miei entusiasmi. 

Io sono solo errori degli anni, 

tracciato di arcobaleni 

in cieli maledetti dalla sorte 

e divenuto un lavoro e il mio 

lavoro divenuto una tunica di Nesso. 

Si espande in me 

una piccola isola solitaria, 

abitata solo da vangeli 

e, sulla quale, crescono solo le edere.

 

 

 

 

Umano peggiorare, 

questo è il dimenticabile 

avvenire notturno 

che mi riservo. 

 

Ostinarsi a vivere, 

sentirsi parte di un tutto, 

di un genere, 

come santi e beati. 

 

Il fervore dell’assenza 

è il migliore cipiglio 

al quale dare 

il mio guaire. 

 

 

Permane solo una goccia, 

un ricordo del mio resistere 

novizio alla vita.

 

 

 

 

Pietro Edoardo Mallegni, è nato a Carrara nel 1995. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice Marco del Bucchia l'opera prima dal titolo Il dedalo in me. Nel 2015 ha pubblicato Il Dio Dada e in seguito le sillogi Neurocidio, Limina Mentis e Il nulla, Europa Edizioni. Nel 2023 ha pubblicato “Profumo di liquirizia” RPlibri. Ha viaggiato molto e nel 2017, divenuto padre, è tornato a vivere a Massa. Ha ottenuto riconoscimenti dalla critica di settore e alcuni testi sono apparsi su diverse testate giornalistiche online. Diverse poesie sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, arabo e cinese.

 

 

 

 

ANNA  POLIN

poesie edite tratte da Canto Primitivo - partitura per tatto e voce, AnimaMundi edizioni, 2022

Non c’è tempo

ci sono le cose.

Il bordo del tavolo

la tazza bianca

il vapore.

Sono la mia carne.

Non c’è tempo, ci sono le cose.

Non ci sono i minuti

c’è il vincolo carnale dell’adesso

folle, della stessa follia della vita,

che un giorno non ci sarà più.

Con la tazza in mano

m’innamoro sempre del vapore.

 

 

 

Ho un corpo di terra

un cuore scarlatto

una voce di maceria e silenzio.

Un disarticolato suono ripete: voce, voce, voce.

Cuore e fango.

Rimbomba,

fa eco, fa mondo.

 

 

 

Di vimini è il pomeriggio

tu mi raccogli

mano che s’intreccia

mi piega

sono curvata dalla tenerezza

amore soffio

amore cesto

cavo in cui abiti

il vuoto che sono.

 

 

 

Io onoro il corpo

incrocio tra terra e cielo

mistico elaboratore

civiltà di cellule

eternità di adesso

viscera, scarto, visione.

Io onoro il corpo-incrocio

e le mie e le tue mani

unica possibilità

di fare terra e amore.

 

 

 

Lo chiamano temporale

fa lampo e spavento

ma io sto con la terra

non temo il buio delle nuvole

voglio la fecondità dello scuro

voglio generare

la sferzata d’acqua

il germoglio, l’animale che beve,

il bambino che ride, le scarpe nell’acqua.

Voglio essere pozzanghera di ogni cielo

ricevuto.

 

 

 

Oggi mentre camminavo avevo le ali.

Non erano mie

ma di una bontà più grande.

Piume e passi

del cielo sotto i piedi

strada del mio buio che ama il sole.

 

 

 

Vino e farina

 

 

Arrivi con la spesa. Hai preso il vino e l’olio nuovo. Disponi le cose con gesti millenari. Ci vogliono anni di carta vetrata per arrivare a un unico gesto. È importante aver guardato, aver taciuto, aver conosciuto l’olfatto di chi berrà il tuo vino. Non è la luna, il fuoco d’artificio, lo straordinario, che aprono l’anta dell’olio con un solo gesto. È lo scavo del vivere. Richiudi lo sportello e mi guardi. Siamo proprietari di tre-quattro cose, tutte pagate con la vita. La tua vita, la mia, fino a ora. Tu che arrivi con la spesa mi guardi appena. C’è discrezione per il nostro battito all’unisono, c’è estrema, profonda, cura.

 

 

 

Ogni cosa viva

 

 

È finito il tempo della saliva secca. Il tempo del ragionamento si spezza nella matematica di esistere, non c’è logica che arrivi al risultato. L’equazione non supera le linee dell’uguale, il risultato è vuoto, la carta bianca, la pagina a quadretti incensurata. Lo spazio bianco non conosce le addizioni, è diventata aritmetica di vertebre, scheletro che fiorisce, brilla e piange. Si commuove di essere il risultato incalcolabile, concreto come il pugno della mia mano. Puoi studiare l’essere umano, ne puoi misurare altezza peso e pressione, ma non saperlo è un’altra cosa. La carezza del mondo ha mani di silenzio e mille forme analfabete. Uno più uno uguale nulla. Niente è più intimo e adorabile di ciò che non è possibile sapere. Ogni cosa nuda è oltre le linee dell’uguale. Ogni cosa viva non perde tempo a calcolarsi.

 

 

 

Accanto all’Indo

 

 

Ho visto un albero illuminato dalla prima luce del giorno. C’era nei rami uno splendore così intimo da far arretrare. La corteccia illuminata conteneva il primo respiro di tutte le cose.

 

 

 

 

Anna Polin è laurata in pedagogia con il massimo dei voti, specializzata in pedagogia clinica e counselor. Inoltre la sua formazione include elementi filosofici essenziali del tantrismo Shivaita del kashmir. Ha scritto anche: Il musicista (Todariana Editrice, 1999; menzione speciale Opera Prima al Premio Nazionale Letterario Pisa 1999 e finalista premio Fenice Europa 2000), Pelle-Cielo (StreetLib, 2014) e Il dovere della madre (AnimaMundi, 2020).

 

 

 

 

 

 

 

SUSANNA  RUSSELLO

     Susanna Russello, fotografia di Roberto Boccascino

 

 

 

Timide informazioni:

la poesia di Susanna Russello

 

di

Alessandro Fo

 

 

 

Due anni fa un giovane che aveva frequentato un mio corso mi inviò per un giudizio alcuni testi di una sua amica che, dopo molta riluttanza, si era infine decisa a tirare fuori dal cassetto alcune poesie. Mi parvero, come gli scrissi, poesie di buon livello, rilevanti nel significato e robuste nella complessione. Ma non ho più avuto risposta e solo da poco, nel curioso carsismo della vita, questa ormai remota corrispondenza ha trovato un suo seguito. La riservata autrice delle liriche che ora propongo alla sempre generosa accoglienza della redazione di Pioggia obliqua, e all’appassionata attenzione dei lettori della rivista, si chiama Susanna Russello, vive a Roma, e per la prima volta si affida qui a una pubblicazione. Ha inviato in realtà solo quattro testi – accompagnati da un esperimento di maggiore ampiezza, intitolato Pianto rituale, accluso come ‘fuori sacco’ e, con la sua consueta ritrosia, più per riceverne una valutazione che non per divulgarlo direttamente. I quattro più brevi sono testi densi, che propongono esperienze forse comuni (Promemoria per Stachanov mi ha ricordato il trauma provato da Carlo Emilio Gadda quando un agognato e infine ottenuto gelato fu estromesso dai confini dell’io per colpa di un impertinente piccione), ma con quella cospicua risonanza che pertiene alla più autentica poesia. E non senza un pizzico di sapida ironia, nella fantasiosa ‘variazione’ di Metamorfosi. Il più esteso poemetto mi appare di notevole levatura, nella sua nobile, autentica, aperta e disarmata confessione di alcune difficoltà di gestione del nostro esistere, che colgono ineluttabilmente, prima o poi, molte persone sensibili. «Le Circi, le Cleopatre, i Lotofagi/ li hanno già inventati./ Toccano a noi i Baudelaire, gli Schopenhauer, gli Heidegger,/ le Nausee numerose e il Male di vivere./ S’impone a noi qualcosa di ben più gravoso:/ risolvere questi geni, portarli/ mentre pesano/ a compimento». La cognizione del dolore, proprio e altrui, rende difficile, giorno dopo giorno, sperare contra spem, riuscire a svincolarsi dalle tentazioni del torpore, dell’assenza – fino a quelle più maligne e perniciose del non essere, o anche solo dell’«annientare la vitalità odiosa della Vita». Anche se questo è «un segreto/ che non ci rende onore»: «No, non ci fa onore/ non voler sperare». Susanna tiene comunque, con fiera fermezza, la sua postazione, «adesso che l’ennesimo crepuscolo mi coglie alla finestra, adoratissima mia/ lente sul mondo, quiete della durata/ che almeno assegna un posto». E registra senza alcun compiacimento, ma con «pianto rituale» («“Desidero di piangere per sempre” urlai,/ pregai stramazzando in terra,/ velando talvolta col trucco, talaltra con trucchi, ma sempre/ rimandando») questo stato di difficoltà cui la costringe «l’eterogeneo/ che è la vita». Difficile da lenire, anche facendo ricorso alla poesia.

 

 

Susanna Russello nasce nell’aprile del 1995. Dopo gli studi classici, nel 2018 si laurea presso l’Università La Sapienza di Roma in Lingua e letteratura latina con una tesi sugli echi pindarici nella poesia civile delle Odi di Orazio e, nel 2021, consegue la laurea magistrale con una tesi in Ermeneutica della Scrittura sul tema della violenza sacrale della civitas politica nel De civitate Dei di Agostino. Oggi collabora come editor e redattrice presso alcune case editrici romane.

 

 

 

 

La piaga

 

 

 

Forse era il limite del vestito corto sulle gambe

 

forse la missiva onirico-erotica

 

di una lontana notte sarda

 

 ma il molle composto

 

dei nostri umori

 

ha creato i tropici

 

nel centro di Roma.

 

Bocche e occhi trasudanti desiderio

 

dal mantello umido

 

abbiamo regalato al mondo intero

 

nuovo seme

 

dal nostro incontro

 

come gocce in ogni interstizio se,

 

 come dici tu,

 

“mi diffondo nell’ambiente”

 

ché si vede la mia forma nell’aria.

 

Noi causa

 

di questa magia erotica

 

ispiriamo un ciclone di ghiaccio ardente

 

ai Numi, alle loro collane di stelle.

 

 

 

È la purificazione dal miasma

 

questa, che ci coglie ore dopo;

 

su noi e su tutti si scaglia

 

dei nostri soli sudori la pioggia,

 

la nube sarcastica

 

e incoerente

 

poi ancella accorta, e lieta,

 

ci sollecita dall’infezione psichica

 

in cui ti aggroviglio.


 

 

Marrakech al cucchiaio

 

 

Quando mi abbandono

 

è il sentimento del sole arabo che si annoia su balconi

 

in rovina

 

è quel connubio di sapori che non t’aspetti

 

zenzero e arancia

 

e anche una diroccata Valencia argillosa

 

o una Valletta ortodossa che si prepara,

 

lamentevole, alla Pasqua.

 

È il ragazzino in bicicletta che scorrazza per le strade di Napoli

 

e perfino la malinconia in musica

 

che culla l’Avana.

 

Quando mi abbandono è come una terra esotica

 

la vita diventa vera

 

perché è grezza

 

e tutto l’imprevisto sta in un solo cucchiaino – che assaporo

 

 

 

dal giardino ortogonale d’Occidente. Foglio squadrato,

 

te l’aspetti com’è: parla del rigore geometrico muto

 

e limpido

 

in cui s’inscrive un labirinto di siepi e zampillii

 

d’acqua, da sempiterne forme greche custoditi

 

e marmoree. Immobile verde, contegnoso rigore d’un Cristo

 

ch’è inarrivabile: è il tempo

 

ad assestare, decoroso, dei secoli la lunga catena

 

che tutto polisce e tra proporzioni

 

e prospettive

 

raffina ogni cosa.

 

 

 

Quanta placida calma.

 

Quanta noiosissima pace.

 

Quale Rinascimento in tanto lucido controllo?


 

 

 

Promemoria per Stachanov

 

 

Con inverosimile dedizione ed encomiabile tenacia un giorno,

 

in Sardegna, divisi nel piatto la pancetta

 

dalle linguine: tentavo (con non poca

 

onnipotenza) di trattenere del piacere

 

il massimo

 

sino all’ultimo momento.

 

 

 

Poi però, con arrogante ironia,

 

l’ultima linguina appena levata,

 

per un soffio di Maestro, d’un solo colpo

 

 tutto in terra il saporoso bottino se ne partì

 

(il piatto si era fatto leggero).

 

 

 

Cosa insegna oggi l’arrabbiatura di piccina?

 

Differire il piacere non è cosa

 

da bambina.

 

“Scarta la carta, addenta la torta, canta l’estate!”

 

per una così avveduta saggezza, di tempo

 

troppo ne avrai.

 

 

 

Saggi sono i grilli che parlano, e le formiche

 

che prima lavorano, e poi

 

tutti quei bambini

 

per cui amore non a mano larga, da un ricco cestino

 

sempreverde, leggera e sciolta

 

era dispensato

 

ma dalla stretta fessura, e dal gesto

 

contratto,

 

centellinato con equilibrio economico

 

solo “a chi lo meritava”.

 

Così il piacere che allora non fu dono

 

s’ac

contentò un giorno di divenire premio.


 

 

Metamorfosi

 

 

“Se tu fossi un movimento artistico

 

decadente lo sceglierei:

 

il tardo-romano, severo sì 

 

ma asiatico insieme;

 

 

 

e se del gotico sei la raffinata coppa

 

di gemme intarsiata,

 

artificiosa e complessa è la trama

 

della tua persona, siccome barocca.

 

 

 

Come due orecchini pesanti e ricchi

 

indossi oggi quel che non riesci a lasciare indietro

 

 e quel che non puoi non cercare avanti:

 

il simbolismo sei, perché nulla nomina

 

senza chiamare altro;

 

 

 

e quando della più sincera affezione bruci

 

per l’oggetto più contraffatto,

 

e trattieni il brutto

 

per trattenere tutto,

 

hai l’eclettismo del postmoderno”.

 

 

 

Così rispose lo storico d’arte

 

alla leziosa domanda della poetessa.


 

 

Pianto rituale

 

 

 

È da troppo tempo

 

che dura questo letargo.

 

Se l’attesa, illusa, perdura

 

nelle ore trascorse intere a rigirarsi nel letto,

 

ancor più

 

in movimento,

 

stancamente il corpo tra i varia officia trascinando,

 

offende e indebolisce lo spirito.

 

 

 

Quante volte ho percepito d’aver senso,

 

che a una certa ora

 

s’accostasse un

 

“sono qui, sono qui per questo, vivo e desidero!”

 

e quel rimuginare spento, poltrito,

 

ho creduto estinto;

 

quante volte poi di nuovo

 

ho spento

 

quella scintilla,

 

perché più semplice è parso possederla

 

una volta ch’era stata raggiunta.

 

“Domani, come oggi, ma domani”

 

e poi domani non è mai stato

 

per altri dieci anni (almeno).

 

 

 

Quel rimanere fermi, cos’era?

 

Era il puerile incanto d’aver tempo? Avrebbe mai smesso?

 

C’era, nella pausa, un ricongiungersi a quest’Io

 

o era un allontanarsi sempre più da esso?

 

Perché quando si sta in letargo

 

vi è riposo

 

ma se il letargo dura una vita

 

è la morte.

 

 

 

Sempre ho giustificato però

 

le mie attese, di redenzione futura

 

biblica speranza;

 

sempre ho pensato che se l’anima non voleva

 

il corpo non avrebbe potuto.

 

Nelle mie tane – la conchiusa automobile,

 

il morbido letto e il buio ozioso, l’amico fidato – e

 

ancora – dallo psicologo eletto,

 

nella polemica sempre pregiudiziale, nello studio frettoloso:

 

nella comodità c’era

 

un languore mortifero

 

così putrido, e pur così necessario

 

alla sopravvivenza.

 

E così di nascosto ritengo

 

che se il vero è inarrivabile e ci esaudisce il verosimile,

 

allora la vita potrà lasciar spazio, con eguale amarezza,

 

al sopravvivere.

 

 

 

Così in quei luoghi e in quelle persone,

 

nelle affettività ostinate,

 

sempre ho succhiato avidamente

 

le poche gocce d’acqua – e pur bastavano

 

ma la mia pianta, ahimè,

 

non è cresciuta di molto: fa un’ombra

 

di poche dita,

 

la qual più che dar ristoro

 

lascia desiderare ancor più forte il riposo e l’oblio

 

e si accontenta, e si affievolisce

 

e sempre meno verde, pur viva, sopravvive

 

e sempre meno vigorosa, quando sveglia,

 

agogna d’addormentarsi.

 

 

 

Quando, con qualcuno, perdi il limen di te stesso,

 

è avvolgente e calda la membrana che vi racchiude ora entrambi;

 

non puoi, umanissimo,

 

pensare un sentimento del tempo, né par che ti venga chiesto.

 

Se prestassi attenzione, coglieresti il prodigio:

 

ecco come da due anime

 

viene a fondersene una

 

puro consumarsi infuocato

 

da cui avanzano dei resti, di cenere

 

cenere dell’io e del tu

 

(che più non servono)

 

e così gioioso è l’amplesso dell’uno

 

che abita nel cuore dell’altro

 

l’incesto senza tempo

 

che se al mondo una sola ultima notte fosse concessa

 

con lui, in quel groviglio ch’è già un rifugio

 

attenderesti alla morte

 

senza nulla pretendere oltre.

 

 

 

Ma qualora la Falce non vi cogliesse

 

e raramente ella giunge aspettata – guai!

 

Quanto strazio, come il parto,

 

ora dividervi,

 

lacerare la spessa membrana, imporre al neonato il freddo

 

e ancora recuperare la cenere sparsa, ai bordi,

 

la pena

 

di raccogliere le parti che, cadute,

 

non dovevano più separarvi.

 

 

 

L’inizio di ognuno

 

dipende

 

dalla fine dell’altro.

 

Ma se noi

 

non desiderassimo affatto

 

d’iniziare?

 

 

 

Infatti esistono mattine dal colore di neve:

 

in assenza di gravità

 

pesano i muscoli e parlano

 

i ricordi.

 

Non più distanza tra oggi e ieri:

 

oggi è ieri

 

che giocavo col padre sul prato, al primo sole.

 

In talune mattine non posso

 

permettermi un passo.

 

Mi hanno mangiato la carne

 

e bevuto energia, rotte le gambe

 

mi hanno vista andar via,

 

addormentarmi, per attendere

 

domani.

 

A novembre non vuoi, in genere,

 

esser salvato;

 

più dolce è il fluire del Lete nello stomaco

 

in quei crepuscoli ghiacciati, quando all’ideale

 

s’appressa, magnanima,

 

la dimenticanza di te.

 

Se qualcosa hai da chiedere:

 

vuoi esser lasciato lì, che nulla ti consoli,

 

sei qualcosa che non si vede

 

qualcosa

 

che non importa.

 

“Sempre ferma, sempre resta” è il ritornello per ogni volta

 

in cui un passo avanti significa andarsene.

 

E se è vero che andarsene vuol tradurre

 

il tradire, allora mai

 

migrerai e sempre protrarrai

 

l’addio

 

dacché conosci nelle ossa lacrimanti

 

tutto il terrore della vita

 

che dall’abbandono – sempre – incomincia.

 

 

 

Oppure, lo farai.

 

Ma le ossessioni, accovacciate, ti tacceranno d’avidità:

 

come Narciso sarai, come l’Inverno

 

che abitando solo se stesso

 

d’ogni altro ha paura

 

e nient’altro conosce.

 

Lascerai al gelo lo spazio

 

e al ghiaccio pungente e bianco

 

come roccia dura e sì resiliente

 

che neanche mille e un’estate ristoreranno

 

tanta algida Bellezza

 

così autonoma, così netta

 

che sa di scienza.

 

Sarai condizione d’amore ma,

 

ogni volta,

 

ripiegherai in te stesso.

 

“A tanto vale coprirsi”, dirai.

 

 

 

Aristotele e Hegel con anco,

 

chi l’avrebbe detto,

 

chi c’è più vicino (odioso desiderare

 

al posto nostro)

 

invero di romper le file suggerirebbero:

 

“Permani ancora, indugia nell’ordine così a lungo

 

da bramare il disordine”.

 

 

 

Lentamente, così ti piace,

 

tenterai allora – eccellente

 

nel tentare – d’occupare

 

quelle ore, eterne, di senso vuoto;

 

tenderai un piedino soltanto

 

al di fuori dell’antro, proverai a vestirti,

 

a concedere te al mondo:

 

Frenesia.

 

In quel turbinio d’intenti, di sagome

 

veloci, impazzite particelle

 

ancor più pesanti noi

 

senza talenti

 

avvertiremo fin troppo viscerale angoscia

 

di dissipare

 

vasta parte

 

d’esistenza

 

nel più cavo perdurare senza forza,

 

né scopo.

 

E chi non dovesse accorgersi

 

di più ancora, se possibile, ne soffrirà.

 

Non così lontano è il momento, per lui,

 

di contemplare il Niente Immenso:

 

non è forse la notte

 

il profondo di se stessi?

 

Nella baia maltese di Sliema era dolorosamente chiaro:

 

gettata nel mondo, l’altro brillava

 

io sprofondavo nel buio in cui fondo

 

non c’era e tutto si perdeva.

 

Terrore

 

tutto d’un tratto: non un gusto, non un sogno.

 

Quella notte fu uno schiaffo

 

indimenticabile.

 

E anche per lui, lui che se ne va in giro

 

recitando a tempo pieno l’occupatus

 

non diversamente.

 

 

 

Stasi inerte di un movimento perenne, stasi in movimento

 

di un perenne momento,

 

che sbiadisci il senso giorno alla notte

 

aggiungendo, dovrei debellarti? Potrei sopprimerti

 

con disincanto maturo e amaro? Con innocente indugiare ingenuo?

 

Sarai medicina o insidioso veleno?

 

 

 

Nell’infanzia ho creduto peculiare quello stare in attesa – qual vanto!

 

Scrutare, allerta, il resto cambiare

 

impressionistica dote e malinconica.

 

Appesa controllavo, mi fregiavo

 

del potere

 

di avvertire sotterraneo fluire, e mi specchiavo

 

in chi mi guardava, per ore,

 

non mi accontentavo mica di imparare solo me.

 

Aveva del dolce quel sentire

 

ogni cosa, mi faceva fiorire;

 

ero un’eletta e il Tutto Intero se n’arricchiva.

 

Rimedio sembrava – lo era? – ritirarsi

 

e lasciar così che il mondo prendesse colore di sé.

 

Io demiurgo, io c’ero

 

(era un’illusione o una promessa?)

 

 

 

Poi invece, a poco a poco

 

m’intorpidii tutta di quel languore prima

 

lezioso, poi narcotico

 

sino alle più onnipotenti scelte d’oblio.

 

Vivere da morti era già una soluzione

 

disciolta, languida come fumo poggiato su un vetro.

 

È lei, la perfetta pozione dell’immobilità:

 

Aurora bianchissima attende dell’amato il bacio,

 

intanto,

 

gioca (e si diverte?) alla bambina morta.

 

 

 

Non si contano gli exempla di chi – fortunato è colui

 

che vive nel mito – preferì il veleno,

 

ma troppo morale pesa oggi l’anima quando al cuore

 

impone il battito:

 

le Circi, le Cleopatre, i Lotofagi

 

li hanno già inventati.

 

Toccano a noi i Baudelaire, gli Schopenhauer, gli Heidegger,

 

le Nausee numerose e il Male di vivere.

 

S’impone a noi qualcosa di ben più gravoso:

 

risolvere questi geni, portarli

 

mentre pesano

 

a compimento.

 

 

 

Vi dirò un segreto

 

che non ci rende onore:

 

per tutti noi sonnambuli, un solo desiderio

 

accartocciarsi, piegarsi, come parassiti alimentarci

 

estinguere la luminosità del Bello, accecante,

 

annientare la vitalità odiosa della Vita.

 

“Desidero di piangere per sempre” urlai,

 

pregai stramazzando in terra,

 

velando talvolta col trucco, talaltra con trucchi, ma sempre

 

rimandando.

 

No, non ci fa onore

 

non voler sperare.

 

 

 

E adesso che l’ennesimo crepuscolo mi coglie alla finestra, adoratissima mia

 

lente sul mondo, quiete della durata

 

che almeno assegna un posto,

 

la silhouette è il segno che più mi somiglia, mescidanza incerta

 

che tutto uniforma

 

a far scomparire l’eterogeneo

 

che è la vita.

 

Ma quanto durano le ore

 

che presiedono alla fine?

 

Certo non da noi, non da chi è già stanco

 

(d’aver solo resistito),

 

la fine sarà stabilita, non

 

da chi non vuol compromettersi.

 

Noi siamo quelli che solo l’attenderanno,

 

gli incapaci del dono

 

i separati dalla vita

 

per cui persino l’abbandono alla carta è un Eden

 

che non fiorisce fiducia.

 

 

 

 

 

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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