SURREALIST LEE MILLER
Palazzo Pallavicini, Bologna
14.03.2019 - 09.06.2019
“ Non sono Cenerentola, non posso costringere
il mio piede nella scarpetta di cristallo “
Elizabeth Lee Miller possedeva una bellezza eterea e una personalità ribelle. Inquieta quanto imprevedibile, le è toccata in sorte una vita orchestrata dalle sottili musiche del caso e perciò vissuta con il massimo grado di intensità. Lee ha attraversato in lungo e in largo il secolo scorso come modella prima, poi come fotografa di moda e successivamente come corrispondente di guerra. Per gli scatti in esterno era inseparabile dalla Rolleiflex 50mm, sostituita da una Zeiss Contax 35mm bottino di guerra dopo il D-day e alternata da macchine fotografiche a lastra per il lavoro in studio (suo personale o quello di Vogue). Icona al pari di altre artiste surrealiste sue amiche, da Nusch Eluard a Dora Maar e Dorothea Tanning, affermava “preferisco fare una foto che essere una foto”. Quanto abbia lasciato testimonianza delle sue molteplici esperienze è ripercorribile in questa mostra bolognese, frutto della ricostruzione appassionata di un percorso artistico e esistenziale da parte del figlio Antony Penrose. Nell’East Sussex è a tutt’oggi visitabile la Farley Farm House, ultima residenza della Miller che custodisce i preziosi archivi delle sue opere fotografiche. Aveva acquistato la proprietà con Roland Penrose nel 1949, chiusi gli avventurosi capitoli di vita culminati in un disturbo post-traumatico da stress che apre la strada ad alcolismo e depressione. Tuttavia questa dimora sarà piacevolmente aperta alle visite dei vecchi amici tutti artisti e tutti famosi, incontrati e coltivati da quando l’americana Lee arriva giovanissima a Parigi a metà degli anni ’20. Èluard, Max Enst, Picasso, Dubuffet, Mirò, Delvaux, per citarne alcuni. Con Man Ray, maestro e compagno, stabilirà una sorta di ispirazione reciproca (“eravamo così vicini, come se fossimo la stessa persona”) e da allieva-modella arriverà ad essere sua sodale nella tecnica della solarizzazione. La frequentazione con gli esponenti maggiori e minori del Surrealismo conduce Lee Miller a interiorizzare quei modi e quell’estetica. Quando apre il proprio studio a Montparnasse dà vita alla poetica dell’ object trouvé in versione fotografica: quell’ image trouvèe che con sapiente uso dell’inquadratura seleziona aspetti particolari della quotidianeità. I seni recisi da intervento chirurgico o gli zoccoli abbandonati su terra arida, o ancora i volti sotto campana di vetro o ‘montati’ con altri oggetti di arredamento. E poi catrame come mantello stampato ai piedi di un uomo, code di topi in bilico su una trave, e via discorrendo fra contrasti fortissimi nell’immagine, solarizzazione, primi piani e campi lunghi. La perfezione tecnica e la raffinatezza stilistica non abbandoneranno mai la Miller, che in tutta la sua variegata produzione fotografica (servizi di moda, ritratti, reportage bellici, pubblicità) ha lavorato a immagini con diversi livelli di lettura. Guardare le sue foto significa perdersi nelle geometrie di luci e ombre, subire l’obliquità delle rifrazioni in specchi o vetrine o porte, rimanere intrappolati nella complessità della composizione e dei campi in successione. Vale a dire, farsi abbracciare da quella distinzione sfuocata fra illusione e realtà, da elementi vitali come il sogno, l’entusiasmo, la fortuna. La sua irrequieta forza di vivere la porta per mano attraverso paesi, città e continenti, la porta ad amare uomini di differente estrazione, sempre unitamente ai suoi scatti perché dove si reca e dove trova soggetti da fermare : “C’erano infinite cose commoventi, dolorose e bizzarre che avrei voluto fotografare”. Accreditata all’esercito americano lavora come corrispondente nella seconda guerra mondiale al fianco di David Scherman, correlando le immagini con testi dalla scrittura emozionale e sagace. L’odio e il disgusto che li accompagnano generano le foto dalla ritirata dei tedeschi fino ai campi di Dachau e Buchenwald. Di fronte alle morti, alle macerie, a ceneri e ossa, a filo spinato e forni, il suo sguardo si fa ancora più impietoso e lucido, dissacrante come la realtà che rappresenta. A guerra finita sembrano essere finiti anche molti ideali, ma Lee donna e artista non perde mai il suo irrequieto ricercare, nel quale alcol e sonniferi sono solo un incidente di percorso. L’occhio surrealista l’accompagna fino all’ultimo servizio in quei suoi personalissimi scatti dal forte impatto visivo e dai titoli connotati di ironia iconoclasta. Uno per tutti, Remington silent, la macchina da scrivere flagellata sul selciato di una Londra bombardata ma che silenziosa non lo è affatto.
Elisabetta Beneforti
SOGGETTO NOMADE
Identità femminile attraverso
gli scatti di cinque fotografe italiane 1965-1985
Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci
Prato
14.12.2018
08.03.2019
Può il soggetto femminile, nomade in quanto naturalmente disposto ad abbandonare posizioni stanziali rispetto al soggetto maschile, essere portatore di una valenza positiva della differenza per superare vetuste dialettiche? Sì, affermava Rosi Braidotti a metà degli anni ‘90 in una importante raccolta di saggi su femminismo e modernità. Proprio da questo testo la mostra in corso al Centro Pecci mutua il titolo e serba in sé un collegamento d’elezione. Infatti l’immagine femminile poliforme offerta dagli scatti della presente galleria fotografica sembra davvero anticipare quella nuova soggettività, multiculturale e stratificata, indicata da Braidotti. Con una notevole pluralità di linguaggi, dal reportage al ritratto alla documentazione antropologica, le cinque importanti fotografe restituiscono l’universo femminile colto in anni che da soli valgono come un rito di passaggio. Ci sono le donne di Letizia Battaglia, nella Palermo dei rioni popolari o dei lussuosi interni, detentrici di sguardi sia vincenti che perdenti ma testimoni all’unisono del loro intenso dolore. L’attenzione ricorrente nelle immagini ad ambientazioni mafiose, delitti lacrime e sangue, sottolinea volutamente un’epoca e i luoghi di appartenenza. La donna dunque diviene portavoce di stagioni e contingenze e per lei la Storia non è solo un iconico fondale. Allora ci sono le donne di Paola Agosti, che negli anni ’70 ha immortalato il “riprendiamoci la vita” dei cortei femministi romani, un susseguirsi di volti e corpi e gesti con tutta la forza in loro contenuta. Anche stavolta, girotondi e slogan non rimangono cronaca spicciola ma racconti di grandi fermenti e messaggi in gestazione. Nella stessa linea temporale ci sono le donne di Elisabetta Catalano, che siano modelle platinate o celebrità dello spettacolo o artiste e intellettuali, indimenticate protagoniste di quegli anni di passaggi epocali. Con i modelli della ritrattistica classica, le immagini femminili qui si impongono fluide a marcare percorsi e caratteri. Su un altro versante significativo del ‘soggetto nomade’ ci sono gli uomini vestiti da donna di Marialba Russo, reportage antropologico da tradizionali feste carnescialesche campane. La sessualità e il mito, al pari di magia e sacralità, si intrecciano indissolubilmente per generare un’identità femminile ora mutuata nello scambio rituale dei generi. Questa valenza di appropriazione dell’altro ritorna ancora più marcata negli scatti di Lisetta Carmi. La mostra ospita la sua serie fotografica I travestiti, presentata nel 1972 in un libro che produsse scandalo e polemiche. Per lunghi anni Carmi ha vissuto con loro e ha fermato in immagini il loro quotidiano, la loro timidezza, civetteria, tenerezza. Si è detto che questo lavoro è in definitiva “ frutto della sua fratellanza coi travestiti del ghetto di Genova, prima gli ebrei, poi i travestiti, ogni tempo è ricco di persecuzioni, si continua a odiare per categorie (…) Fotografia in musica e dolore, dolore e voglia di resistere”. La femminilità qui rappresentata viene esplosa da dentro, mostrata con orgoglio e provocazione al tempo stesso, testimonianza della coesistenza armoniosa di maschile e femminile. La panoramica di varie connotazioni sociali e umane, straordinariamente offerta in questa mostra, rispecchia verità e contraddizioni, anima e corpo e cuore saldamente viventi insieme, mai separati. È la femminilità, connessa e disconnessa in plurimi modelli rappresentativi. Siamo maschere, siamo modelli d’autenticità, siamo copie conformi, tutto questo non lascia certo indifferenti. In prospettiva storica il Soggetto nomade di questa galleria, corredata di video-interviste alle fotografe e da materiali d’archivio, apre utili riflessioni per un percorso mai concluso.
Elisabetta Beneforti