L’occhio globale di William Kline
Lo sguardo come occhio puntato su molti mondi possibili. Lo sguardo come protagonista assoluto di ogni scatto da compiere. Tutte le tecniche, le teorie compositive e formali semplicemente seguono come ancelle cerimoniose. La carriera artistica di William Kline ha qui i motivi della sua partenza e il punto di forza attraverso decenni e differenti stagioni progettuali. Una compilazione dell’intero percorso potrebbe risultare operazione fin troppo manualistica dunque riduttiva. La retrospettiva ora milanese (Il mondo a modo suo – Palazzo della Ragione, fino all' 11 settembre) invece dà adeguatamente conto della complessità del processo creativo ripercorrendone le tappe fondamentali. Non si tratta solo di guardare e riprodurre, quanto di avere la capacità di ascoltare solo il proprio sguardo. Kline, autentico artista visivo a tutto tondo. Ebreo di New York che sceglie Parigi come patria d’elezione, nato come pittore rimane successivamente ammaliato prima della fotografia poi del cinema infine delle elaborazioni grafiche. Tutto quanto è immagine diventa occasione di incantesimo quotidiano, di esplorazione totale del campo visivo. Molte città diventeranno sue modelle predilette, i viaggi a collegare l’una con l’altra come vettori per suggestioni a venire. Urban photographer che , a partire dagli anni ’50, ci consegna ritratti di gente e luoghi fra i meno ovvi e banali. Così Parigi da vulgatamente romantica viene ripresa nel suo interiore melting pot socio-culturale; Mosca si presenta in una malinconia tutta letteraria e tanto lontana dalla monumentalità di regime; Tokyo lascia gli ossequi forzati per angoli di oriente insospettabile. Il viaggio artistico dello sguardo di Kline era cominciato da New York, insieme a una Leika il cui obbiettivo 50mm viene subito sostituito da un grandangolo che gli permette di entrare dentro la scena. “Privo di formazione e senza tante conoscenze, mi dovevo ingegnare con quello che ottenevo. La mia formazione era diversa:disegno,litografia,pittura- che tentavo di applicare alla fotografia.” Allora i suoi scatti, pieni di leggerezza e ironia dunque affatto pretenziosi, sono libera aggregazione di elementi e balletti spontanei. A pensare a Henry Cartier- Bresson o a Eliot Irving, le foto di Kline si presentano tutt’altro che pulite e composte. “Quello che i professionisti avrebbero gettato nel cestino, per me era un eccitante materiale da rilavorare.” Un paio di anni dopo, chiamato a Roma da Fellini, documenterà l’anima giornaliera e semplice della città eterna e ne farà un libro con testi, fra gli altri, di Pier Paolo Pasolini. Quando sarà sotto contratto per Vogue USA continua a scattare immagini a suo modo, dove l’effetto patinato tipico della haute couture viene abilmente stemperato in una sorta di “giochi elaborati”. Ricordiamo le efficaci foto delle modelle che attraversano sulle strisce trafficate in Piazza di Spagna o quelle immortalate davanti a un barber shop statunitense (barbiere dallo sguardo ironico compreso). Gli insaziabili sguardi di Kline vanno avanti negli anni successivi e non si arrendono mai agli stilemi polverosi. Cinematografia sperimentale, documentari,filmati televisivi e pubblicità, connessioni fra pittura e fotografia nei provini a contatto dipinti. Lo sguardo continua ad aprirsi su mondi ulteriori. “Pennellate e esultanza”, dirà. Il suo viaggio continua, quello instancabile fatto di creatività gioiosa dietro ogni tipo di immagine da Kline ideata.
Elisabetta Beneforti