Giovane poesia edita
R a z z i e B a r b a r i c h e
su Pioggia Obliqua
Razzie Barbariche
una collaborazione
tra Pioggia Obliqua e YAWP
Che spazio occupa una giovane voce poetica
nel panorama editoriale italiano?
La poesia non è ancora morta definitivamente: lo dimostra la resistenza di quelle (poche, anzi pochissime) riviste e di quegli sparuti siti on-line che pure ogni giorno continuano a rendere pubblica la scrittura poetica.
Qualcuno continua a leggere la poesia, magari in silenzio e in apparenza non visto: eppure, è proprio attraverso la prima selezione di questi siti e riviste che avviene spesso la selezione editoriale. Che sia giusto o sbagliato, il fatto rimane: è quanto mai impossibile esordire, senza prima essere passati per le riviste. La rivista è anzi l'esordio, la pubblicazione editoriale una sua legittimazione.
Per chi quindi vuole fare «il mestiere del poeta», questo significa accortezza e duro lavoro: e il più delle volte, un lungo lavoro. Non è dall'oggi al domani che un poeta arriva a pubblicare le proprie poesie su una rivista(...).
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La corrente delle cose ultime di Ivonne Mussoni:
tra eredità romagnola e presagio biografico
La corrente delle cose ultime, la raccolta poetica di Ivonne Mussoni mi ha incuriosito per un aspetto che, a mio avviso, è il filo conduttore di tutto il quadro d'insieme, dell'intera opera: l'onirico e poi il visionario legato a un senso di presagio che mi domandavo da dove potesse provenire in una autrice così giovane. Bene, da sempre convinto che la poesia non necessariamente si poggia su elementi di natura biografica - e comunque qualora essi la interessano sono pur sempre marginali, oggetto di metamorfosi della dissimulazione di un autore, di una ricreazione atta all'opera in versi, al testo scritto, sia esso di carattere ipertestuale o di un'altra caratura - questa volta la mia convinzione sembra avermi tradito. In questo caso, nel contesto dell'opera, dei singoli testi proposti, il luogo di nascita dell'autrice sembra determinante per un certo sentimento che si dipana, si fortifica, diventa sempre più forte nel labirinto lirico dei versi. Ivonne nasce infatti a Rimini e la prima cosa che uno pensa, legandola all'immaginario del sogno, a quel senso istintivo del presagio, è la figura di Federico Fellini, forse il capostipite di una corrente di sentimenti, di poetica che dal cinema travolge poi la letteratura e poi tutte le altre arti. Non è un caso che Rimini sia la capitale della Romagna di mare e che intorno alla cittadina siano nati altri poeti e artisti come Ivonne: visionari; Tonino Guerra, Marino Moretti, Giovanni Pascoli, e poi sempre romagnolo (anche se al di là del versante Toscano) Dino Campana.
Dunque la Romagna terra di poesia ma anche di lunghe e febbrili visioni oniriche.
Questo senso di presagio, quasi istintivo, sembra infatti accomunare la giovane poetessa ai maestri citati e questa particolarità sensibile, questo rigurgito alchemico tra realtà e sogno è romagnolo, tipico della terra di mezzo.
Nell'ermeneutica possibile di una esegesi ipertestuale è chiaro che emergono questioni ontologiche che fanno da asse portante, da architrave, alla versificazione. La questione escatologica di una linea personale, da intendere per intima, sta non solo in una condotta di affermazione ontologica dell'io narrante ma nella dialettica io/tu. Il parlare in prima e in seconda persona consente la durata del sogno, l'incalzare incessante della visione. Il tu del parlare in seconda persona è dunque il tu montaliano, il tu che nasce da una proiezione di coscienza tra l'io narrante e l'altro, il prossimo. In questa “corrente” le cose ultime, le marginali, sono infatti le prime e se la letteratura (la poesia e la narrativa, non altro) è l'arte del non detto, come sosteneva Sartre - cioè direi per provocazione il margine del foglio -, in questo caso è tutto quello che Ivonne non ci dice, o che ci dice in modo velato, se pur mantenendosi incisiva e drammatica nei toni. Ecco allora che la visione, il sogno, l'onirico, l'occhio dell'io che guarda le cose e le persone diventa una saga familiare: i genitori, lei bambina, la Romagna come terra di mezzo - congiunge da sempre il nord al sud sulle retta adriatica - il possibile fidanzato, la casa di origine – che poi sarebbe, a suo modo, in termini contemporanei, quasi “metropolitani”, il nido pascoliano. Si tratta quindi di una marginalità portante – che tanto marginale non è - che contamina, perfora con i denti semantici un tunnel sotterraneo per tutta la raccolta; al punto che il tu in una o più occasioni sembra ri-ventato, costituito ontologicamente di sana pianta dall'autore.
In sostanza, ai fini della lettura credo sia deontologico e onesto far parlare i testi e che ogni lettura che io possa immaginare o disegnare, delineare per sommi capi sia del tutto forviante. Le poesie vanno lette e i poeti ascoltati; il resto è pura follia. Il mio compito di messaggero, di tramite termina dunque qua per farci godere del mare, dei sapori e dei colori che Ivonne Mussoni ha fermato nelle sue dolci e drammatiche istantanee.
Iuri Lombardi
Ivonne Mussoni, La Corrente delle cose ultime, Giulio Perrone Editore, 2018
Dalla sezione La mano aperta dei fondali:
E ora lei pure predilige le ombre,
si mette per contarle a testa in giù
che tutto pare incrollabile
quando è capovolto.
Non lasciatela sola
voi del continente perduto,
sul tetto del ghiacciaio,
mandate un riflesso di neve fino all’Emilia,
una criniera bianca
da stringere forte durante la corsa.
È stato un colpo d’ala
più forte della notte,
e il petto non ha retto all’urto
ma brucia ancora il vento di chi nasce
per rimettere in gioco anche la morte.
Essere figlia e madre di mio padre
è nel mio nome,
nel modo di inventare un profumo
solo per sentirne la mancanza
e non è mai abbastanza
il riflesso di sole in cui guardarci.
Esistiamo solo controluce.
Dalla sezione Come accadono gli eroi:
Prendevi il mio sguardo come una pioggia
a bagnarti la faccia, le mani
che forse era l’acqua il nostro elemento,
questo nostro non lasciarci mai perdere.
Stavo in mezzo a tutte le correnti
come uno che si accorge
di aver sbagliato la solita strada verso casa
ed è improvvisa la paura,
in un secondo la certezza
di non trovare più il tragitto giusto.
È il tuo cuore quel secondo,
il centro di ogni smarrimento.
So crederti e non crederti
come fanno i bambini con le storie
ti tengo nello spazio al limite del vero
dove sono andati i draghi e gli altri mostri,
dove potremmo anche sposarci,
me lo dici sorridendo e non ti credo.
Ma intanto mi accompagni sotto casa
passando fra gli alberi di Sherwood
e sarà per quel tormento,
il tuo cuore di pirata
che ti accolgo sempre
come dopo una battaglia.
Dalla sezione Il tempo delle cose grandi:
Dall’ultima volta che ti ho visto,
esiste il tempo.
Ma tu sarai in un momento,
non sei slancio né corpo.
Sarai nel secondo
in cui finisce la mattina
e inizia il giorno.
In cui consuma il mondo e inizio io.
Ivonne Mussoni
si è laureta nella triennale di lettere moderne e ora frequenta la specialistica di italianistica a Bologna. Nel 2013 ha pubblicato con Heket la plaquette A un quarto d’ora d’universo. Sue poesie sono presenti nell’antologia Post’900 lirici e narrativi (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e in Centrale di Transito, ceci n’est pas une anthologie (Perrone editore, 2016) . Nel 2017 è uscita la sua prima raccolta di poesia La corrente delle cose ultime per Giulio Perrone editore. È assistente alla direzione artistica del festival Parco Poesia e nel 2016 è entrata a far parte del direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.
Dolore minimo
di Giovanna Cristina Vivinetto: la naturalezza degli alberi
Dolore minimo (collana “Lyra Giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea, 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto è attualmente l'esordio poetico dell'anno, nonché uno degli esordi più emozionanti della generazione di chi scrive questo articolo e forse anche uno di quei pochi libri destinati a rimanere nel tempo, perché, che lo si voglia o no, per ora unico nel suo genere. A Vivinetto sono piovute addosso critiche di ogni tipo, a partire da quelle di associazioni, ma sarebbe meglio dire mentalità, prive di senso critico, fino a una parte degli addetti ai lavori (e di chi prova, insieme, a farne parte) che questa mancanza di senso critico comune hanno, in qualche modo, contribuito ad alimentare, nascondendo la letteratura, e se questa parola infastidisce, la scrittura, in una trincea dove poche sono le speranze di uscirne incolumi – e per questo motivo, credendo questo isolamento una eroica resistenza. Si è detto per esempio che la poesia di Vivinetto non sia altro che un fenomeno da baraccone o, ancora a livello formale, che viva principalmente di una scomoda intrusione dell'io: eppure non è proprio l'invidia, cioè ciò che si vorrebbe essere, ma che non si è, a essere la prova più manifesta della tirannia dell'io? E ben diversa è l'invidia dall'ambizione, che invece manifesta ciò che ancora non si è, ma che potrebbe prima o essere: e Giovanna Cristina Vivinetto è diventata esattamente ciò che aveva sempre voluto essere, o meglio ciò che era sempre stata.
Cominciamo allora dalla fine: perché Giovanna Cristina Vivinetto viene definita fenomeno da baraccone? Più che una domanda, questa è la motivazione che viene data al fatto che Vivinetto riesca a vendere così tanto – tanto, si intende, per una autrice di poesia, che è arrivata a una prima ristampa dopo pochi mesi dall'uscita: benché nascosta dietro la retorica, ciò che si lascia intendere è infatti che la poeta in questione venda principalmente in quanto transessuale. Ma pochi sembrano essersi curati del background che c'è dietro a una tale pubblicazione: anzi tutto, Vivinetto è riuscita a farsi conoscere passo dopo passo attraverso siti e riviste letterarie. Si potrebbe aprire un discorso sul fatto che oramai, da noi, il sistema legato a certi siti e riviste letterarie sia diventato un percorso obbligato per chi voglia seriamente mettersi a fare questo 'mestiere' (e su ciò ci troverete d'accordissimo): ciò non toglie che per adesso queste siano le regole del gioco e che, severa o meno, esista una prima selezione da parte delle suddette redazioni. Una ulteriore capacità di Vivinetto è stata quella dell'attesa: come specificò l'autrice ospite alla FUISS, uno scrittore che voglia seriamente esordire nel panorama editoriale italiano deve sapere attendere, non buttarsi via, non accettare cioè l'offerta di qualsiasi editore solo per il fine di pubblicare. E i rifiuti, da parte di questa autrice, sono stati molti. Infine, bisogna riconoscere la serietà delle curatele di Franco Buffoni: come poeta può piacere o non piacere, ma è indubbio che come curatore sappia fare il proprio mestiere. Basti pensare alle tempistiche dei Quaderni della Marcos y Marcos: uno ogni due anni. O al fatto che, per la collana “Lyra giovani” di Interlinea, Buffoni selezioni soltanto pochi poeti ogni anno. Questo perché esiste la precisa organizzazione di un piano editoriale che gli va riconosciuto: tra settembre e ottobre vengono di solito annunciati gli autori selezionati per l'anno nuovo e solo in primavera i testi vedranno poi la luce. Ma tra l'autunno e la bella stagione, c'è tutto il lavorio silenzioso dell'ufficio stampa: ecco una delle motivazioni per cui Dolore minimo è riuscito finora a vendere così bene. Infine, sarebbe più giusto affermare che Vivinetto non venda perché è transessuale, ma perché Dolore minimo parla di transessualità.
Questo dal momento che, a una lettura più attenta, non si può liquidare il biografismo che sta alla base di questo libro come una semplice e fastidiosa intrusione dell'io. Se così fosse, l'autrice avrebbe fatto bene a parlare di diario in versi, invece l'appellativo che Vivinetto ha sempre utilizzato per descrivere il proprio lavoro è stato quello di romanzo. Ciò, a livello formale, è evidente dal modo in cui viene portata avanti la narrazione: ciascuna poesia, cioè, richiama quanto detto prima, fino a riallacciarsi agli episodi o al singolo verso della poesia precedente. Basti, a titolo di esempio, l'attacco della seconda poesia della raccolta: «Finché non è arrivato il transito / a rivoltare le zolle [...]» dove quel finché dà l'avvio effettivo alla macchina della trama, rispetto alla situazione di stallo descritta nella poesia di apertura («In quei tempi non c'erano disastri/ da centellinare [...]»). Sulla scelta del versificare di stampo narrativo, torneremo in chiusura dell'articolo. Qui ci preme per adesso comprendere chi sia il narratore e che cosa ci stia raccontando. Per farlo, dobbiamo affidarci alla cronologia interna che scandisce il volume in tre compatte sezioni: Cespugli d'infanzia, La traccia del passaggio e Dolore minimo. La prima di queste ci mostra l'infanzia, la crescita e infine la presa di coscienza del Giovanni bambino di essere altro da ciò che il proprio corpo vuole invece mostrargli. A prima vista, sembra che a raccontare la vicenda sia Giovanna, o meglio l'autrice nel presente, alla fine cioè di tutta la storia: eppure, non bisogna cedere alla tentazione di dividere questa voce semplicemente tra Giovanni e Giovanna. «Mi spiegarono la differenza / tra uomo e donna […] Non mi rivelarono però / a quel tempo cosa / si trovasse nel mezzo, all'incrocio / imprevisto tra i sessi […] c'ero proprio io» esprime il narratore più avanti nella stessa sezione, palesando il proprio ruolo. Ma dove prima invece leggiamo «Per anni ho provato a stanarti / dal doppiofondo umido delle mie / ossa» pare al contrario che sia Giovanni adolescente che stia parlando con Giovanna. Ma allora chi è che racconta la storia?
Ciò che è certo è che di biografico, in senso stretto, c'è ben poco in questa prima sezione. È chiaro cioè che l'autrice abbia realmente passato una fase simile, ma i momenti decisivi di questo percorso vengono dissimulati nel simbolo. Ecco per esempio il momento in cui l'autrice prende coscienza per la prima volta di ciò che è sempre stata: «Accadde che le ombre della mia infanzia / si addensassero attorno al mio letto […] Si dice che le anime orfane / vaghino di notte in cerca delle anime / madri – a cui riallacciarsi. / Ma le ombre che sostano sui muri […] Fu allora che compresi tutto. // Bisognava che io morissi». Siamo davanti alla topica dell'iniziazione o, se vogliamo, a un racconto dell'orrore dove però le anime si scoprono infine benevole; ma non siamo davanti a un fatto esplicitamente biografico. A questo proposito Cespugli d'infanzia è un titolo parlante: gioca cioè a nascondere ciò che è realmente accaduto dietro la semantica del bosco. E questa, a nostro avviso, è la grande capacità immaginifica di Vivinetto: la presa di coscienza di essere quell'altro da sé che era sempre stata non passa attraverso il resoconto fedele delle esperienze della propria infanzia, ma sulla serena accettazione della naturalezza di quel passaggio. Ecco perché continuamente il bosco, ecco spiegata la presenza ossessiva delle foglie secche: «Una volta l’anno discendevo / a te, madre, d’autunno. / Tu mi accoglievi con foglie / tra le mani che disperdevi / al vento ad ogni mio arrivo. / Capivi, madre, l’ordine nascosto / delle cose». Che altro può fare la figura materna che, al contrario di quella paterna, ha sempre saputo la verità? Cercare di fare accettare al proprio figlio la naturalezza che si cela in questa verità, non attraverso delle parole, ma attraverso l'immagine, le foglie cioè, il simbolo di ciò che è natura(le) per eccellenza. È dall'utopia, dal luogo che non c'è, che Vivinetto vuole inscenare inizialmente questa storia ai propri lettori, per inserire poi ciò che è accaduto realmente, per dimostrare loro attraverso ciò che è accaduto, che quel luogo effettivamente è possibile. Ma rimaniamo per l'ultima volta su Cespugli d'infanzia: una foglia secca non significa la morte dell'albero, ma solo una fase verso la rinascita. Tuttavia per tornare a splendere di verdezza, ci vuole più di una stagione. Fino a qui Giovanna quindi è solo una foglia che ha capito di essere una foglia, tuttavia pur sempre ancora secca, a cui non resta che sentire con angoscia «la distanza degli alberi».
Si potrebbe obbiettare che dal momento che in La traccia del passaggio la biografia si fa via, via più esplicita, non sia tanto la ricerca di esprimere la naturalezza della presa di coscienza di essere ciò che si è, quanto l'ingombro corporale di Giovanni, a impedire a l'io lirico di raccontarsi davvero nella prima sezione, a nascondersi dietro il simbolo. Chi crede che la transessualità si esaurisca nella sola transizione da un corpo a un altro, non potrebbe sbagliarsi maggiormente. Tutta la seconda sezione sembra ci tenga a palesare proprio questo: «La traccia del passaggio – mi dici / – da qui non si vede. Non è evidente. / Tu non sai, ma ci sono solchi / estranei alla luce degli occhi [...] La traccia del passaggio – non la vedi / perché il mio sentiero è troppo / stretto per starci in due»; «Non ho ferite che appaiono. I miei / dilemmi sono annidati ben oltre la carne. / Eppure chi mi definisce addita / il corpo come sola dimensione possibile». Siamo davanti a una vera e propria variazione sul tema, perché Vivinetto ci tiene a far comprendere a qualsiasi lettore questo aspetto: ecco allora il racconto delle reazioni beffarde di chi ha intorno o l'episodio della conquista nell'orinare seduta, che non si lega tanto al corpo, quanto alla mentalità (cfr. Ho sempre orinato in piedi). Vivinetto si fa le domande e si risponde da sola: «Un corpo transessuale / come si lega a un altro corpo?». Ci descrive come si usa «la pillola» per trasformare il proprio corpo: sono due, una a mezzogiorno e una la sera, la prima per accentuare la fisicità femminile, l'altra per addolcire i tratti maschili.
Ma dietro una tale ironia, ci troviamo di fronte allo scopo reale di questa sezione, quella cioè dove il dolore sembra avere toccato il suo apice. L'io narrante ha cominciato a trasformare il proprio corpo, ma questo non ha eliminato la presenza di Giovanni. Chi è che racconta davvero la storia? Prima non avevamo risposto fino in fondo, ma avevamo tuttavia suggerito di non lasciarci imbambolare dalla dicotomia Giovanni/Giovanna. C'è molto di più in ballo: Giovanni è Giovanna, da sempre. Giovanna è sicura di essere stata Giovanni un tempo, ma adesso che anche il suo corpo le dice che lei finalmente non è altro che Giovanna, l'eredità di Giovanni non è così facile da eliminare: «Due mani / che mimano nel vuoto quello / che appariva un tempo / a volte non sono abbastanza. // Così anche l’organo ritrovato / è una ferita»; «le cicatrici restano e neppure / quelle il corpo dimentica. / È come se la natura, liberata, / vi ballasse ora adagio sopra / a ricordarci che mai a niente / si rinuncia per sempre». Giovanni appare e scompare come una specie di fantasma: in Potresti essermi sorella, Giovanna crede quasi di trovarselo davanti, ce lo descrive nel tentativo di cercare quanto di maschile è rimasto in lui, il «filo di barba residua», quando con un improvviso cambio di tono, nel finale l'io personaggio ci dice di trovarsi in metropolitana (sebbene nemmeno un elemento descrittivo in tutta la poesia ce lo avrebbe fatto supporre in qualche modo) e Giovanni altri non era che un passante. Come scogliere un simile nodo dell'anima? Gran parte di La traccia del passaggio ruota intorno alla semantica dell'infanzia: ora che ha un corpo di donna, l'io si sente rinato, una bambina. Deve imparare tutto daccapo: eppure, non può fare finta che il vero bambino che è in lei sia stato in realtà Giovanni.
Pensavo scherzassi quando dicevi
che di te neppure il nome sarebbe
rimasto qui. L’essere al mondo – dicevi –
non vuol dire necessariamente vivere.
Ti ho vista indagare a lungo
le ragioni del tuo vero essere
come un fuscello sonda le torbide
superfici di uno stagno […]
Facciamo attenzione a questo passaggio. Qui, la prima quartina sembra riferirsi a tutti gli effetti alla dipartita di Giovanni. Ma all'improvviso, nella quartina successiva, passiamo dal maschile al femminile: dobbiamo supporre ora che sia Giovanni ad avere preso la parola? La traccia del passaggio si conclude con l'unico momento, in tutta la raccolta, in cui Giovanni viene chiamato per nome e ciò avviene infine per dirgli addio: «Non esisti più, Giovanni». Ma se torniamo alla poesia precedente, più che a una dicotomia Giovanni/Giovanna, sentiamo di trovarci di fronte a una vera sovrapposizione, a un dialogo tutto interiore, in cui l'io lirico cerca di lacerarsi definitivamente. Chi è allora il narratore, ci ripetiamo per l'ultima volta? È Giovanna, ma anche Giovanni, che si prestano continuamente la voce l'una all'altro. O meglio: è Giovanna che dice addio a Giovanni e Giovanni che prende commiato da Giovanna. E per questo può essere infine nominato: finalmente, Giovanni è diventato un personaggio.
Si noti ancora una volta che qui non vogliamo ricostruire la trama della raccolta: se insistiamo su ciò che viene raccontato, è solo perché in esso si nasconde la chiave per comprendere chi sia davvero il narratore della storia. L'abilità di Vivinetto è in questo: ha saputo presentarci il suo dramma intimo, ma preferendo all'inizio il simbolo all'episodico, la semantica del bosco ai giochi del Giovanni bambino, perché c'era bisogno, prima di tutto, di chiarire la naturalezza della vicenda. A questo punto, in La traccia del passaggio, accanto alla semantica del corpo, Giovanna Vivinetto ci vuole rivelare finalmente chi sia davvero il narratore della storia: la voce di Giovanni si sovrappone continuamente alla voce dell'io lirico (Giovanna non viene mai nominata dal narratore: Giovanna come tale è infatti tutto il libro, ma per esistere al di fuori di una voce intima, o esclusivamente come narratore onnisciente, per esistere cioè anche lei come personaggio, avrà bisogno che siano gli altri a nominarla una seconda volta – laddove la pronuncia del nome esatto coincide non solo con l'accettazione, ma con la comprensione). La sezione intanto si chiude con la nomina esplicita di Giovanni, in seguito alla sua dipartita: egli è finalmente un personaggio. Ma essere un personaggio significa essere qualcosa che non esiste: ecco la vera presa di coscienza. Giovanni non è diverso dall'io che narra, Giovanni è una parte di colei che racconta la storia, mentre il falso Giovanni, il Giovanni cioè che si credeva altro da sé, può essere infine allontanato. La dipartita cioè consiste in un ricongiungimento per nulla provvisorio.
E ora che il narratore si è rivelato, che l'io si è compreso in quanto io una volta per tutte, nella sezione Dolore minimo può infine fare un passo indietro e mettere in scena il dramma diviso in tre nuovi atti: se il primo si apre come un inno di gioia, il narratore ora non parla più. Nella seconda parte di Dolore minimo Giovanni e Giovanna si parlano l'un l'altra come di fronte a uno specchio. Nell'ultima, ecco «la madre» e «il padre», «l'unico fratello»: solo una volta l'io si tradisce attraverso «la madre di mia madre». E infine la magia di Vivinetto è nel finale, teatrale: «Tutto si chiude su te per celebrarti» dove quel te altro non è che il narratore, lei stessa, che dopo aver trasformato il proprio dolore in un dolore minimo può rendersi per ultima personaggio anch'essa. Non farà male sottolineare che quanto abbiamo detto a proposito della semantica del bosco come ricerca di naturalezza e della seconda sezione come esplicitazione del narratore ci viene suggerito dalle poesie che aprono la terza sezione e, in particolare, dall'uso del corsivo, così raro nelle sezioni precedenti e qui così promiscuo: «Noi eravamo fra quelli chiamati / contro natura» e più in là «Un errore semantico si nasconde / nella parola riattribuzione»; fino al «forse è finito tra i cespugli d'infanzia» a proposito di questo altro da sé che però fa ancora parte di sé, perché dopotutto non ha mai smesso di essere, non è mai diventato davvero altro.
Avevamo promesso, in apertura, di ragionare infine sulla forma: la scrittura di Dolore minimo si basa sulla potenza (laddove altri hanno trovato invece debolezza) di un verso tutto narrativo. Tempo addietro, Giuliano Ladolfi in un saggio titolato L'estetica nell'età globalizzata laddove denunciava la ripetizione massiccia nella poesia contemporanea di moduli e formule oramai novecentesche, chiedeva a gran voce anche il ritorno di una poesia che parlasse principalmente dell'umano. Parlare dell'umano significa anche tornare a dialogare con i lettori: e Giovanna Cristina Vivinetto ci è riuscita. La versificazione piana è una scelta di stile a cui non è arrivata per caso: da un lato, la calma di questi versi si oppone all'angoscia di quanto viene via via raccontato, palesando che il narratore ci sta mostrando la storia a posteriori. È, questa, la vera minutezza del dolore, la vera conquista. In secondo luogo, la potenza della raccolta risiede tutta nelle immagini: qui è il grido di Ladolfi, non la forma per la forma, ma una forma che esprima l'immagine, perché è l'immagine a essere davvero umana. Infine, se l'enjambement è la figura retorica su cui, più di altre, si manifesta la forma di Vivinetto, sarà bene guardare allora con una lente di ingrandimento questi enjambement: «vaghino di notte in cerca delle anime / madri [...]»; «Allora avrei voluto strapparti / la bocca insieme alle parole / che nascondevi tra i denti. / Mi negavi persino la tua / identità»; «La salvezza del bosco / è poter scavare nella terra / gravida una cura [...]» «Da quando il corpo ha cominciato / a mutare, ogni punto è una parete / sfondata [...]»; «La verità è che la realtà / dormiva a un palmo dal naso / sepolta da un cumulo muto / di nomi»; «Così anche l’organo ritrovato / è una ferita» [corsivi nostri] giusto per fare qualche esempio, si pongono sempre sulla semantica della doppiezza, riformulando l'identità del verso precedente – e in parte, contribuendo così, con l'ausilio dell'immagine che trova nel verso successivo la sua propria identità, a smuovere ciò che invece pareva solo scrittura piana.
Dolore minimo è un libro importante: per fortuna nostra, gli studi di genere hanno cominciato a prendere piede anche in Italia. Speriamo che le radici che hanno piantato, si trasformino prima o poi in alberi. C'è però un problema: non si è scelto un bosco, ma un giardino – quello, cioè, dell'accademia. E non poteva essere diversamente: da qualche parte bisognava pure cominciare. Il problema è che questo linguaggio nasce e si esaurisce nella stessa accademia. Certo, chi lo studia lo porta poi dentro di sé, come un seme che prima o poi riuscirà a piantare altrove. Ma Dolore minimo ha con se una potenza maggiore: quella della narrazione. Una simile storia letteraria della transessualità si può forse far risalire agli scritti personali di Lili Elbe (recentemente portati al cinema in The Danish Girl di Tom Hooper, attraverso la mediazione del romanzo di David Ebershoff). Giovanna Cristina Vivinetto ha aperto questa strada anche in Italia: ciò che ci auguriamo è che non sia un caso di poesia isolato, perché una simile scrittura fa ben sperare nel valore che credevamo la letteratura avesse perduto. Non siamo davanti a delle teorie qui, ma a una esperienza filtrata dalla finzione: una storia che nel lettore crea una speciale forma di angoscia empatica, perché dopotutto, anche se minimo, nasce pur sempre da un dolore... che infine si è trasformato in gioia.
A cura di Antonio Merola
Razzie Barbariche si avvale sempre del supporto dei testi alla fine di ogni articolo. In questo caso, dal momento che Pioggia Obliqua aveva già ospitato la poesia di Giovanna Cristina Vivinetto in passato, rimandiamo il lettore alla sezione Proposte all'interno del sito.
Le poesie di G.C. Vivinetto
pubblicate da PIOGGIAOBLIQUA, con un intervento critico di Alessandro Fo.
https://cms.e.jimdo.com/app/sece8144d7ed6f6a4/p6188970d4e8522b1?cmsEdit=1
Tratti primi di Simone Maria Bonin:
senso corporeo e rappresentazione
In questo nuovo appuntamento con Razzie Barbariche, la rubrica sulla giovane poesia emergente italiana contemporanea di YAWP: giornale di letterature e filosofie in collaborazione con Pioggia Obliqua, la redazione di YAWP ha scelto di sottoporre all'attenzione del pubblico l'esperienza poetica di Simone Maria Bonin, e del suo Tratti primi, edita dalla casa editrice Arcipelago itaca nel 2017, opera prima vincitrice della 2a edizione dell'omonimo premio nazionale editoriale di poesia all'interno della collana Lacustrine, diretta da Renata Morresi.
Come appena definito poc'anzi, Tratti primi è un'opera prima giovanile. Già da questa sua caratteristica si possono evincere alcuni elementi. Innanzitutto la direzione dell'attività di una casa editrce come Arcipelago itaca (gestita da Renata Morresi, Manuel Cohen, Martina Daraio e Danilo Mandolini) la quale, parallelamente ad altre realtà similari, si propone di mantenere 'vivo' il processo poetico contemporaneo, sebbene nella premessa totalizzante della narrazione contemporanea, al retrogusto di totalitarismo culturale permissivo. La poesia c'è, esiste e persiste, in svariatissime forme, e nascosta, invisibile, continua il suo percorso. Di qui la volontà (e la possibilità dettata dal nuovo panorama comunicativo-mediatico nel quale siamo inseriti) di dare sostanza e diffusione a voci emergenti, giovani, testimoni di un ribollire mai spento che cova sotto la superficie.
In secondo luogo, un'opera prima ha in sé sempre i suoi limiti e le sue grandezze, dato che per realtà editoriali odierne che, come Arcipelago itaca, giocano la propria identità sulla poesia (la casa editrice di Tratti primi propone diverse collane dedicate alla poesia: dalla già citata Lacustrine, a Maree per la critica, Estuari per la giovane e nuova poesia, Istmi per la poesia tradotta, Mari Interni per il discorso poetico proprio della casa editrice e del suo progetto Arcipelago itaca blo-mag, e Versanti per le iniziative speciali), conta un certo livello di maturazione promiscua per la quale gli autori emergenti si mostrano con una direzione e una vettorialità propri, in grado di padroneggiare e modulare diverse forme del linguaggio poetico, quello che potremo definire talento... grezzo, ma scintillante.
In terzo luogo, entrando nelle dimensione prettamente testuale e strutturale, Tratti primi fa trasparire come il giovane Simone Maria Bonin tragga spunti e riflessioni dalla tradizione novecentesca italiana e non, investito in pieno dall'interminabile secolo, il con-testo del post- (ideologico, se pensiamo a ((Timisoara-Romania) III), per esempio: «Più ti scrivo e più le vedo quelle folle il dicembre dell’89 / a esplodere virali nelle piazze / mento in alto contro palle di cannone»), dell'assenza, della disgregazione, del rimosso, dello stress (la sezione PTSD, ovvero Post Traumatic Stress Disorder) e di una poiesis collezionista e differenziale, quasi 'schizoide', che, alla luce del trauma e della 'corrosione' del significato, di un mondo in macerie, attinge al luogo oscuro del senso e della sensorialità, la grande 'scoperta' del XX secolo, pari alla relatività di Einstein, l'inconscio (in particolare quello 'destrutturato' di Deleuze), il corpo, «un ingranaggio in funzione», un «mare aperto [é corpo] / distante dallo sguardo», nebulosa dell'esperienza, delle 'impressioni' del reale, della lingua prima, per tentare di ri-costuituire un sé umano (che sembra quel dove, sospeso nella prima poesia della prima sezione Vicoli ciechi) che si contenga e non si dissolva sotto la pressione di un reale intimo ed esteriore che sfugge, continuamente in divenire («Frana un gomitolo di pietre ogni mezz'ora: / è il monte che dipana la sua forma / e non c'è pietra o volto / che ritorna»).
Punto di partenza della raccolta sono due epigrafi, rispettivamente tratte da L'Anti-Edipo di Deleuze-Guattari, primo volume di Capitalistmo e schizofrenia («L'inconscio non pone alcun problema di senso, ma unicamente problemi di utilizzo») e dalla summa del buddhismo tantrico I centomila canti di Milarepa («Nell'assoluto non c'è visione»); e quando un autore sceglie incipit epigrafici si ha sempre la sensazione che voglia donare longitudine e latitutidine all'interno delle quali si muove la sua opera. E lo si percepisce sin da subito, dalle prime sezioni, compatte nella loro frammentarietà, con un linguaggio che si poggia sulla distensione, su termini semplici, macrocategorici, metaforici e inglobativi (riva, mare, monte, corpo e via dicendo), inizio di significazione intima del senso corporeo delle cose e del loro movimento, per un loro possibile utilizzo, ma troppo semplici, troppo schematici, ciechi perchè nella loro assolutizzazione verso l'essenza non permettono visione: sembra di avere a che fare con il linguaggio primitivo di un bambino che apre gli occhi al mondo e acerbamente inizia a categorizzare(arsi) il DNA dell'esserci; ma questa semplicità è anche la forza di tutta la raccolta e non si frammenta ulteriormente, mantenendosi nella sua unità logica.
Il percorso è appena cominciato e continua: il poeta si allena, assorbe gli stilemi e le direzioni del passato, dal frammentarismo e dall'asciutto ermetismo linguistico, al gusto per la sintesi, caratterizzanti la quasi totalità della prima parte della raccolta (ovvero le sezioni Vicoli ciechi, PTSD, Biopsie); da una dose di 'gioco' grafico (vuoti d'aria, versi spezzati, enjambements), alla dimensione onirica molto preponderante, fino a una quantità di concretezza visiva e percettiva che'irrompe nel mezzo di un 'percorso' poetico-esistenziale di formazione e dissoluzione. Non si tratta però di una pedissequa imitazione, ma di un processo di metabolizzazione (via metodo poetico) alla quale è sottesa una perenne tensione per una realizzazione sempre mancata, sempre rimandata, che mai si scioglie, forse perché le delimitazioni son troppo sfumate, così come i punti di contatto tra l'io e il mondo: PTSD e Biopsie sono rispettivamente l'elaborazione del 'contatto' anche traumatico con questo primitivo fuori-dentro-di-sé e il tentativo di distillarne essenze, assiomi, direzioni, verticalità senza filtri, anche se asfissianti, dove la regola è il trauma psico-fisico, «un colpo di esistenza / tra le vertebre delle parole».
L'opera culmina nella sua seconda parte, Tratti primi, la sezione più composita e descrittiva, fulcro centripeto e pulsante della silloge, dove l'io/noi lentamente costituitosi, pezzo di 'realtà' dopo pezzo, inizia a tratteggiare il 'reale' delle proprie esperienze, i 'primi tratti' o segmenti, fragile presta le sue parole alla traduzione del mondo scisso dalla Luce/ombra che lo ingloba e lo forma, con un linguaggo più aperto al quotidiano, più sensoriale, con una biounivocità di corpo e trascendenza a stretto contatto, sempre declinato (come i 'movimenti' di (Denmark) e delle (Preghiere) sul filo del sentimento e dell'emozione, e agli altri, anche lontani nel tempo e nello spazio, come nelle poesie (fotografie di E.S. Curtis), dove si denuncia l'umanità 'rimossa' degli Indiani d'America), elemento fondante della coscienza. Una realtà (l'io-mondo) in presa diretta o in forma di 'scarto', che si sfalda infine nel suo ri-conoscersi e ri-velarsi in quanto rappresentazione della verità, come nel poema conclusivo Clarendon Place, che ricorda un po' lo stile frammentario e intertestuale di Eliot con quel suo discorso diretto e le citazioni bibliche (Giobbe, l'Apocalisse di Giovanni).
Nella sua unicità metodologica, il genere poetico, Trattri primi è opera 'con-testuale', rientra nell'atmosfera di una parte della produzione poetica odierna, quella giovanile, nelle macrotematiche con le quali tenta di 'dialogare': frammentazione dell'io e tentativo di sua ri-edificazione mancata, riuscita o bypassata (che sia possibile o meno nell'epoca del post-industriale, per come ne tratta Iuri Lombardi nella postfazione alla sua raccolta Il sarto di San Valentino, 2018; o nell'archetipo della rappresentazione che si sposta verso un 'noi' o il reale sensibile); ricerca di una propria lingua, di un filtro intimo e universale che, sebbene fragile, sottile, avvertito come necessario, si frapponga tra la differenzialità del sé e la similare differenza del reale (ancora tra realtà e reale in Bonin), tentando di ri-compartimentare(-arsi); e di conseguenza la ricerca di forme d'introiezione ed espressione tra le forme (anche della tradizione), che permettano di raggrumarsi e non diluirsi; lo sfaldamento del tempo (quindi dell'essere-tempo dell'uomo) e dello spazio, all'insegna di coordinate più subatomiche e quasi quantistiche.
Ma tutto questo potrebbe essere verità (senso) o rappresentazione, verità (senso) e rappresentazione, codici di un percorso poetico ben orchestrato che, 'tra parentesi', tenta di ritagliare il proprio spazio nel panorama poetico contemporaneo, imponendosi all'attenzione con i suoi limiti contestuali e non e i suoi interessanti spunti di ricerca e riflessione. Buona la prima per Simone Maria Bonin, nella speranza che questo sia solo l'inizio di un percorso promettente e originale.
Alfonso Canale
Poesie estratte da Simone Maria Bonin, Tratti primi, Arcipelago itaca, 2017.
Da Voyages nella sezione Vicoli ciechi:
(Uno)
I
A riva è il nostro posto
in questa colla di salmastro
dove
il mare aperto è corpo
distante dallo sguardo
Dalla sezione PTSD (Post Traumatic Stress Disorder):
A GdS
Vedi ignoro ciò che scrivo e con il corpo
taccio tutto quello che conosco
perché qui, in questo spazio
è in forse pure il sogno e ogni tratto chiave del disegno
e sempre perso ai quattro angoli del mondo
a parlare coi poeti a dire loro “non è questa
la fine del tuo verso, non è affatto questa” ma è in forse pure
il centro, l’essere del verbo a dire loro solo questo
ed è totale negazione totale affermazione un nocciolo nel centro
un’esperienza un percepire così saldo
quasi dire sì soffiando dentro al vento in questo vocicchiare umori a carta
e cellulosa per la sola specie umana.
Risolversi al fluire, certo
ma cosa respirare
senza mai toccare il mare
non conosco più nemmeno il forse
del reale
Dalla sezione Biopsie:
Da neurone a neurone
corre un filo elettrogeno
di fame
colpiscimi
se puoi, fammi male
prega altro dolore
un colpo di esistenza
tra le vertebre delle parole
Da (Denmark) nella sezione Tratti primi:
V
L’aria restringe il colore a piccoli fiocchi di neve.
È un freddo che ci vuole guardare, studia i nostri
passi goffi
nel reale. Globi luminosi cadono dal buio, stelle
dentro a stelle sopra il mare e sono d’onde suoni d’onde
e pelle sulla pelle per scaldare
Da (Preghiere) nella sezione Tratti primi:
Sepolto vivo a Pine Ridge
tra i sogni di vecchi Lakota
labbra sulla terra e pallottola alla gola
sono caduto assieme alla foresta
tra uomini dalle barbe arancioni
e maglioni di lana grossa in Irlanda
guardando i boschi senza vergogna
assieme alle donne con la pelle
ricoperta di terra
ho seguito il sentiero di aborigeni tozzi
nel bush australiano, secco fino all’osso
mandrie di vacche, pecore e sterco
e la poca acqua rimasta macchiata
da miniere a cielo aperto
per mettermi al passo con la civiltà
nascosto dietro maschere enormi
nelle terre del Mali
ho guardato l’inchiostro dei bianchi
coprire di sozzo la terra assieme
a millenni di umanità
Simone Maria Bonin è nato a Venezia. È laureato in Matematica ed Economia all’Università di Warwick, nel Regno Unito, ha proseguito gli studi specialistici ad Aarhus, in Danimarca, dove svolge ora un dottorato di ricerca. Ha vissuto diversi mesi in Costa Rica nel 2009. Assieme a Gerardo De Stefano ha curato la collana di poesia "Rigor Mortis” di Thauma Edizioni pubblicando Atlantide: Poesie, Prose e Corrispondenze di Hart Crane, prima traduzione italiana dell’opera completa del poeta americano. Nel 2016 esce su "Poesia" con nota critica di Maria Grazia Calandrone. L’anno seguente pubblica Tratti primi per Arcipelago Itaca Edizioni. Vincitore del premio Ritratti di Poesia.140 (2017), collabora come traduttore con la rivista letteraria online 'Inkroci'. Suoi testi sono apparsi su "Nazione Indiana" e su “Vallejo & Co”, “Revista Brasileira” e “Free Poetry Society” rispettivamente in traduzione spagnola, portoghese e bulgara.
Manovre segrete: la stasi del movimento
di
Gaia Ginevra Giorgi
Interno Poesia nasce nel 2014 da una idea di Andrea Cati: organizzare uno spazio per una divulgazione poetica contemporanea di ampio respiro. Ma Cati non si ferma qui. Ha un progetto in mente, o faremmo meglio a dire una direzione: così ecco che, nel 2016, Interno Poesia diventa a tutti gli effetti una casa editrice. E la poesia non poteva che rimanere in questa storia l'unica destinazione possibile: il progetto di Cati infatti è talmente chiaro che non ha bisogno di altro che di una sola collana... Interno Libri. Se la scelta del genere unicum potrebbe sembrare esclusiva, è forse proprio l'inclusività a caratterizzare il sogno editoriale di Andrea Cati.
Quando la destinazione coincide con la poesia e quindi, se vogliamo, con un luogo ignoto che si sceglie di incontrare, è meglio essere pronti a tutto. Andrea Cati forma allora una compagnia: chi prima, chi dopo, Maria Grazia Calandrone, Claudio Damiani, Mario De Santis, Valerio Grutt, Franca Mancinelli, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Andrea Sirotti si uniscono al progetto. Ma c'è di più: Andrea sceglie la via del crowfounding per includere fin da subito al cammino anche il lettore. È una modalità, questa, che ha origini antiche, se pensiamo alle sottoscrizioni di stampo ottocentesco e che nella contemporaneità trova il gigantesco aiuto e la linfa inevitabile dell'internet. Il problema nasce se il crowfounding diventa una giustificazione davanti al rischio di impresa – tanto più di fronte a un genere come la poesia, ancora oltre se la base da cui partire include soprattutto autori giovanissimi. Andrea Cati non ci sta e questo, a nostro avviso, rende il suo progetto diverso dai tanti che utilizzano il crowfounding oggi: va bene chiedere aiuto ai (pre)lettori, ma se la quota stabilita non si raggiunge, «il libro si pubblica lo stesso [perché] la pubblicazione è frutto di una selezione fatta a monte, squisitamente editoriale». E gli autori o le autrici che potrebbero rientrare a buon diritto nella nostra rassegna under 30 sono molti: a partire alla raccolta di Martina Germani Riccardi, Le cose possibili (2016) – che avevamo già segnalato su Yawp Poesia –, dal biennio che è ormai trascorso dalla sua nascita, Interno Libri si è arricchita per esempio dei contributi di Sofia Fiorini, La logica del merito (2017), Annarita Rendina, Nasse (2017) o Maria Del Vecchio, Arimanere (2018).
Tra questi oggi parliamo dell'ultima raccolta della poeta alessandrina Gaia Ginevra Giorgi: Manovre segrete (pref. di Claudio Pozzani, post. di Valentina Colonna, 2017). Se è vero che, come scrive Pozzani, la poesia di Giorgi «è tellurica, sinestetica e carnale», ciò che nota Colonna è decisivo: «Quest’opera ha i tratti ilari e malinconici di uno scorrere intenso, senza tregua, di un camminare deciso. Una contemplazione del viaggio e della continua tensione verso l’essere e il suo contrario». Manovre segrete sembra reggersi tutta su una antitesi principale e inglobante, che si apre tanto alla macro quanto alla microstruttura e la cui peculiarità riesce poi a incidere su nuovi campi semantici: la contrapposizione tra movimento e immobilità. La raccolta si apre infatti con una immagine di, e anzi in movimento: «avevo il respiro ingrossato/ spezzato/ mentre risalivamo il sentiero dei pini odorosi/ tra il bosco e l'ombra/ che seguiva il tuo passo/ di guerriero – di fuggiasco». Ci troviamo nella prima delle tre sezioni che compongono l'opera, Pensiero meridiano, e forse non ci poteva essere titolo più calzante: un meridiano infatti indica l'arco che congiunge il Polo Nord con il Polo Sud, ovvero una linea immaginaria (pensiero) che abbraccia tutta la terra e per i cui punti passa l'asse di rotazione (movimento), come pure, per estensione, può significare il mezzogiorno, il momento in cui il Sole è più alto nel cielo (immobilità). E con sentiero cinque torri, la poesia da cui abbiamo citato i versi precedenti, Giorgi getta immediatamente il lettore di fronte alle altre due componenti principali di Pensiero meridiano: il locus della vicenda poetica, che coincide sempre con lo spazio aperto, con la boscaglia, e un tu, con cui il personaggio-autrice condivide, a prima vista, la condizione di stasi.
La montagna è l'immagine su cui l'antitesi movimento/immobilità sembra innestarsi meglio: se da un lato nella prima poesia, che si apriva con una immagine di movimento, la poeta ora «con la schiena spenta nel fango» manifesta un desiderio di immobilità che tende al panismo, alla fusione e all'armonia con la natura («pregavo che la crosta del monte/ cedesse al mio peso/ e mi trattenesse da lì a sempre», ecco che più avanti), ecco che più avanti al contrario la mancata possibilità di movimento sembra trasformarsi in panico: «contavo i promontori vergini/ ed erano sempre tre/ a guardarci bene/ sembrava non fossero mai stati/ scoperti prima», (altre manovre segrete) scrive l'autrice-personaggio appena sveglia (e quindi immobile). Ma Giorgi non si ferma qui: l'antitesi non riguarda soltanto l'individuo che scrive hic et nunc, ma si trasforma in un dramma generazionale in lettera a mio padre, dove alla domanda «che ne sa la tua generazione/ dell'abbandono», la risposta, nella forma di una nuova domanda, o se vogliamo di un nuovo significante in rapporto a uno stesso significato che rimane vuoto, collettivizza in senso diacronico il problema tutto umano dell'ignoranza di fronte all'ignoto: «e mi chiedo che ne sa/ la mia generazione/ del buio». E nemmeno l'arte può farci qualcosa, se più avanti «[...] penso a quanto dev'essere tragica/ e immobile l'esistenza/ per due statue di riviera/ dalla pietra condannate/ alla posa dell'attesa». Il campo semantico dell'antitesi a questo punto si allarga, fino ad abbracciare la coppia vita/morte: in sentiero delle grazie assistiamo a una mobilità che tende al mortuario («i miei passi per il camposanto dei fiori/ dei tronchi»), ma poi nella poesia che chiude la sezione il tronco diventa una barca sfondata dove «sono raccolte le sue ossa/ io lo sapevo e ci ho girato alla larga» - la cessazione completa del moto.
Nella seconda sezione la scena si sposta dalla boscaglia agli interni di una abitazione. Ma già dal titolo, Osservatorio domestico, l'antitesi viene riconfermata. Dall'osservatorio (immobile) si guarda il movimento di ciò che è tuttavia lontano. Ci sarebbe da notare, inoltre, la contrapposizione tra chiuso e aperto che si risolve in quella tra abitazione e natura, mai (per adesso) nella descrizione della città, che pare dimenticata: quasi che l'autrice ci mettesse davanti a una sua breve biografia in versi nel luogo di nascita, vissuto lontano dall'abitato, ai margini. Qui l'immobilità è cosmica, esistenziale: «questo nostro esistere/ ha la geometria della sedia a dondolo/ dell'orologio a pendolo/ il perpetuo moto/ del tra(n)sloco», (la rosa e l'acquario), come a volere imitare il ritmo delle stagioni, che è sì movimento, ma anche immobilità: «siamo qui da non sappiamo quanto tempo/ come le querce gemelle del parco di Villa Reale», scriverà più avanti in osservatorio domestico. Davanti a questa consapevolezza il tu (o i tu) con cui l'autrice sembrava condividere la stessa condizione, fanno ora un passo indietro: ecco che allora si ritrova «[...] rimasta esiliata nelle mie lontananze», laddove in Pensiero meridiano scriveva invece che «avevo fatto del tuo altrove/ un luogo abitabile» (corsivi miei). Sono molte le poesie cioè in questa sezione dove si palesa l'assenza di questo speciale compagno dell'incedere nel mondo, da cui l'autrice-personaggio ha ereditato tuttavia il peso della comunione esistenziale, per portarlo da sola sulle proprie spalle: «io non parlo mai/ non dico mai aiutami», (da la notte non ho nessuna fede).
Ecco che allora nella terza sezione, arriva il momento del riscatto, anticipato, forse, in Osservatorio domestico da quel «non le ha mai chiesto di tornare/ sa che non può» (abbandono pt. 2, Alcesti). La terra e l'attesa (qui l'antitesi si fa quanto mai evidente) si apre ancora con l'immagine del legno: «la tua vita odora d'incisioni/ su legno bagnato», ma questa volta siamo lontani dalla boscaglia, lontani dalla stasi dell'abitazione domestica, se l'autrice può persino caratterizzare se stessa con «il mio sguardo di superstite» - siamo in viaggio. E qui l'antitesi movimento/immobilità si palesa nella sua estensione più estetica: la scrittura di Giorgi ora diventa un occhio attraverso cui vedere il mondo, per niente invasivo, un io dimenticato che, mentre si (ri)scopre nel proprio divenire, predilige ¬«[...] l'assoggettato/ fa nella mia mente molto più chiasso/ del soggetto stesso/ che è storico, grasso e conforme/ ad una legge ch'io non comprendo/ e che coltivo una crudele preferenza/ per tutto ciò che dalla disfatta/ partorisce bellezza», (da turche madri lontane). Il problema diventa il tempo del fare poetico. In questa sezione, il momento del dire non coincide mai con il momento del visto, del vissuto («della città ho amato la pioggia/ i ponti di ferro – i binari del tram») e a questo la poeta arriva attraverso quella che potremmo definire come una climax di consapevolezza: se in un treno c'è un trattino a disgiungere il significato (o a suggerire: «pugnalare il mostro/ (ottimismo meccanico)/ - e nel coro delle approvazioni/ tacere -/ è diventata la mia unica ossessione/ non più tu/ il mutismo è sovversivo/ se non ingabbia»), più avanti diventa esplicito in il ponte di Galata: «se faccio attenzione, se resto immobile/ qualche fiore avrà cura di me» o, ancora di più, e già dal titolo, in imparo la quiete: «imparo l'arresto – la quiete/ lo stare qui insieme/ vedo il mio nome/ - il mio indirizzo/ affondare lontani» - e qui ricorda quasi Pirandello: non a caso la poesia di Giorgi è anche una poesia di performance. In questo modo, Giorgi riesce a districare l'antitesi di partenza: una poesia che nasce a posteriori dal movimento, torna a muoversi nella recitazione performativa. E se ciò non bastasse, a livello formale l'assenza di punteggiatura mantiene la movenza, il ritmo incalzante, come spiega la poeta in una vecchia intervista: «Mi servo qui della risposta alla prima domanda per ribadire il concetto di "sospensione". Io non sento di aver bisogno della punteggiatura, quando scrivo in versi. Mi sembra più naturale servirmi dei silenzi e di chiuse forti che non abbiano l'esigenza di un punto. Ho in testa le mie pause e so cosa significano quindi portarle sul piano perfomativo è naturale e piuttosto semplice. Qualche volta mi è stato detto che alcune mie poesie risultano più comprensibili se dette ad alta voce da me», (a cura di Valentina Colonna su «L'unione Monregalese.it»). Ecco quindi dove respira la poesia di Giorgi: nell'incontro esatto tra movimento e stasi, tra la natura e l'urbe, in un galleggiare provvisorio, nella sospensione.
A cura di Antonio Merola
Poesie estratte da Manovre segrete (Interno Poesia, 2017).
Dalla sezione Pensiero meridiano:
sentiero cinque torri
avevo il respiro ingrossato
spezzato
mentre risalivamo il sentiero di pini odorosi
tra il bosco e l’ombra
che seguiva il tuo passo
di guerriero - di fuggiasco
ogni pausa s’imprimeva
nel limo dolce come nella memoria
cristallizzate le viole e ogni gemito
tra il sudore - il sale
ed il sole
tra l’incanto e la disperazione
con la schiena spenta nel fango
e con la bocca calda e bagnata
spalancata al cielo ispido d’estate
pregavo che la crosta del monte
cedesse al mio peso
e mi trattenesse da lì a sempre
ma tu avevi la quiete dei vetri
in testa la quiete che sale
dopo un gran piangere
se si faceva attenzione
dall’alto si poteva osservare
la schiuma d’ogni onda
covata dalla roccia
il rintocco delle campane
dalla cima turchese
scendeva sui nostri corpi
come una sentenza
*
nel pallore disperato
di un qualunque risveglio
contavi i promontori vergini
ed erano sempre tre
a guardarci bene
sembrava non fossero mai stati
scoperti prima
tu non te ne sapevi dar ragione
l’estate assorta
gonfia veniva su dall’acqua
bollente di quarzo sfranto
come una donna già matura
con sacre braccia da uliveti ventosi
e da altre manovre segrete
sfumava al monte
culla di polvere e cristallo
saliva medusa
leggera leggera
la nube sfilacciata
e non te ne sapevi dar ragione:
avevo fatto del tuo altrove
un luogo abitabile
Dalla sezione Osservatorio domestico:
abbandono pt. 1
il tempo trascorso in questa casa
vale quanto un collasso scampato
mi trascino via sulle ginocchia
a mo’ di veliero zuppo di strascichi
non lo realizzo
ma distrattamente ringrazio
la scenografia
sono una professionista dell’abbandono
mi mancherà l’assenza eroica
di tutte quelle cose piccole
che qui non sono mai state
io, è tra queste che t’ho amato
come ho potuto
e odiato anche di più
è qui che mi sono fatta le ferite più grandi
di quelle che occupano uno spazio
- che hanno una loro precisata fisicità
come il pezzo di pane sulla tavola:
il gusto che abbiamo condiviso,
le notti insonni - la polizia municipale
mi sono nascosta in tutti gli angoli
e sono rimasta esiliata nelle mie lontananze
indigena cristallizzata
ho conosciuto l’apnea, sparire sembrava tanto dolce
ma ci siamo addormentati sempre nello stesso letto
che il nostro tormento
con ostinazione ha sorretto
ammetto: noi non ci siamo compresi del tutto
Dalla sezione La terra e l'attesa:
turche madri lontane
ogni pietra mi suggerisce pietà
io sono qui la freccia
che attraversa senza scienza
i popoli e le volontà
la città è semideserta a sera
tra le moschee azzurre e i tornelli-fantasma
(sgargianti per nessuno)
un’assenza che demolisce tutto – questa:
tutto tranne un quartiere senza nome,
composto da edifici-carcasse di volpi,
eroici al declinar del pomeriggio,
e da chi probabilmente li vive -
questi uteri piangenti, echi di turche madri lontane
c’è da dire che l’assoggettato
fa nella mia mente molto più chiasso
del soggetto stesso che è storico, grasso e conforme
ad una legge ch’io non comprendo
e che coltivo una crudele preferenza
per tutto ciò che dalla disfatta
partorisce bellezza
dall’altra parte del Bosforo qualcuno teme
che forse non se ne abbia la giusta cura
che forse non se ne comprenda
la ragione sufficiente
*
il ponte di Galata
dal ponte di Galata – un corno di elefante africano
ho visto il volo bianco
dell’uccello che migra a Nord
spalancato al grido della foresta
se faccio attenzione, se resto immobile
qualche fiore avrà cura di me
Gaia Ginevra Giorgi, laureata in Filosofia all’Università di Torino, attualmente studia presso la Scuola di Teatro “Alessandra Galante Garrone”. Nel 2016 ha pubblicato “Sisifo” (Alter Ego, 2016), suo esordio poetico e allo stesso tempo performance sonorizzata itinerante che fa da ponte tra le discipline che più le sono care: poesia, teatro e musica. “La Repubblica di Torino”, “L’Estroverso”, “Poetarum Silva”, “Paper Street” e “Interno Poesia” hanno ospitato e parlato della sua poesia.
Accogliere i tempi ascoltando
la poiesis-oltre-poiesis
secondo Naike Agata La Biunda
Con questo nuovo appuntamento delle Razzie Barbariche, proponiamo un'opera recentemente edita da una delle case editrici più interessanti e attive sul panorama poetico italiano contemporaneo: Lietocolle. Nata nel 1985 dall'iniziativa di Michelangelo Camelliti, la casa editrice sonda, filtra e seleziona da più di di trent'anni la movimentata realtà della poesia contemporanea italiana, concentrandosi su quelle giovani voci emergenti che presentano un certo livello di maturità stilistico-concettuale nella loro produzione poetica. Da questa stessa tendenza nasce il progetto della Collana Gialla, portato avanti in collaborazione con la fondazione pordenonelegge e il festival letterario a essa connesso, il quale si prefigge di pubblicare ogni anno quattro opere di poesia scelte tra le esperienze di rilievo di nuovi autori d'interesse. Tra le opere proposte durante il 2017 nella collana, sicuramente un posto di rilievo spetta ad Accogliere i tempi ascoltando, opera prima della giovane Naike Agata La Biunda, classe 1990.
Contro la tendenza al frammentarismo e alla sottomissione all'infinito e illogico flusso comunicativo-poetico dell'epoca contemporanea, l'autrice si staglia con un discorso e una linea saldi, logici, ben composti, una riflessione poetica che registra un percorso di formazione tematico e stilistico tipico delle opere prime, affrontando questioni abissali come la vita la morte, il rapporto con la realtà vera, nuda e cruda, il ruolo e il senso della poesia, la bellezza, l'eros e l'amore e la relazione con la tradizione linguistico-popolare della propria terra natia (e con il vissuto), la Sicilia (in particolare il catanese), da secoli luogo di frontiera, mescolanza culturale e fermento letterario e artistico, se pensiamo alla poesia arabo-sicula, alla Scuola Siciliana del XII secolo, a Giuseppe Verga, Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo.
Sin dall'incipit (La nascita) l'autrice esprime la linea della sua ricerca poetico-esistenziale: nel costituirsi individuo, l'uomo comprende che la vita si confonde nel suo opposto, la morte, (l'immagine della nascita contrapposta all'avvistamento del proprio "cadavere"), estremi dell'oscilazzione disarmonica della materia e dell'esistenza, e la particolarità umana è proprio la coscienza di questo stato perenne della realtà diveniente, per la quale, citando Eliot in East Coker, «in my beginning is my end», e questo vale moltissimo per una fanciulla che diviene donna e poi madre. Ma quali il senso e il significato della (ri)scrittura e della poesia in un destino comune di "carne alfabetica e indolore"? Apertura all'altro-da-sé, espansione con e oltre il proprio corpo, attesa attiva, spazio calpestato e costruito del dialogo teleologico tra i vivi e i morti, la poesia c'è, esiste, resiste ed è necessaria, al fine di «accogliere/ i tempi ascoltando/ le forme universali, per scriverne/ a testimonianza della vita, oltre la vita». La tensione a un (nietzschiano) superamento, necessario per la speranza di ricostruire un significato «più di adesso, domani».
La lingua e il retaggio della terra sicula prendono corpo nell'opera sin dalla prima sezione, attraverso composizioni e parti in dialetto catanese che incarnano voci legate al passato e ad un certo tipo di 'immaginario' popolare. Quello dell'elemento linguistico-regionale non è un monopolio sull'intero percorso intrapreso dall'autrice, ma una delle occasioni di richiamare frammenti di passato, così come per le 'cose' e i ricordi respirati «da tutti gli angoli della casa» (titolo della sezione d'apertura), per gli oggetti (fotografie, vestaglie, sottane, dettagli, 'tradizioni'), archetipi (Ulisse, Orlando innamorato) e le immagini informati e informanti di un certo vissuto, materia di sé in briciole per iniziare a ri-costituire e ri-plasmare una propria identità, un proprio io che conversi, critichi, ri-scriva e si relazioni concretamente a un mondo in continuo divenire. Di qui l'autrice affronta una riflessione pluriargomentativa e differenziale che trova la sua unità e coesione in un'amara malinconia, in un nichilismo costruttivo con un ritmo piano e riflessivo e nella presenza di un ego poetico-narrativo forte, in carne e ossa, che si frammenta nella quête di senso, nell'esperienza, dialogando e ridefinendosi continuamente attraverso situazioni e interlocutori puntuali (Maria, Dino protagonista di un piccolo 'ciclo', Mio padre) e universali (un non ben precisato "tu" che contiene alternativamente l'autrice stessa, i lettori e altri interlocutori 'familiari' e non).
Non poteva mancare, nell'economia di una raccolta 'giovanile' di formazione, il confronto con la dimensione che più di tutte mette in gioco l'io e l'altro: l'amore, sia nell'accezione materna che in quella erotica. Una volta ricostituita la propria identità ("le bambine dagli occhi fermi"), ancora permangono uno strappo, una mancanza, un vuoto incolmabili; non basta il vissuto, non bastano il sudore e la fatica del proprio contenersi e rattopparsi per confrontarsi con la vita la morte; la realtà non è solo il passato, non è solo frammentaria, non è solo coazione a ripetersi, non solo crudezza e innocenza; quest'esclusione al negativo porta alla realizzazione che essa, il proprio io e l'alterità con la quale ci confrontiamo, è anche amore, non come concetto inglobativo ma come atto espansivo, un possibile amare, declinandosi nel proprio superamento: essere l'altro. Un amare che è passione, pazienza, corporeità, desiderio, con le loro connotazioni positive e negative, tradotti e riscritti in una dimensione spersonalizzante e 'riempitiva', le cui 'occasioni' sono situazioni quotidiane e intime, "cose belle" (e tragiche) che «volano basso/ hanno la forma assoluta della luce/ e si vedono senza guardare/ attraverso lo stupore dei bambini».
Quindi cosa resta del groviglio dell'esistenza, di questo continuum di morte e ri-nascita, formazione e dissoluzione? Cosa resta «più di adesso, domani» (titolo della sezione di chiusura)? L'autrice 'sgrulla' la tela del reale (il suo che diviene nostro) per carpire l'essenza delle cose ("le forme universali") la quale non si identifica nella fissità, nella purezza, nella perfezione, in un mondo dove «non c'è più nulla da imparare/ se non le forme, i confini/ della materia fisica e inconcepibile», ma proprio nel desiderio di vita, nella negoziazione costante che l'io conduce con la realtà e con se stesso, nelle possibilità infinite di pensiero e azione che possono dispiegarsi, nell'accettare di «accogliere i tempi ascoltando», diventando non solo passive argilla e materia di una poeisis che ci ingloba e ci trasforma, ma suoi attivi agenti informativi, performativi e creativi, nella vita come nella morte.
Con una speranza oltre se stessi: che diranno «di noi, sub specie aeternitatis».
A cura di Alfonso Canale
Poesie estratte da Accogliere i tempi ascoltando (LietoColle, Collana Gialla, 2017):
La nascita
Giunta alla torre di avvistamento
non vidi che il cadavere di me.
Avevo perso nel tunnel tutto
il corpo, tutte
le mani, le gambe, il petto
il sesso. Dopo si diventa carne
alfabetica e indolore. Una casa svuotata
nessun bene innato, nessun
male. Si è pronti ad accogliere
i tempi ascoltando
le forme universali, per scriverne
a testimonianza della vita, oltre la vita.
*
Arriverà presto
il momento di ricambiare il favore.
E' già consuetudine infatti
fare per te ciò che non riesci più a fare:
leggere le piccole scritte
aprire le bottiglie dell'acqua
preparare i pasti all'ora tua
slacciare i nodi delle scarpe che indossi.
E per non lasciare che la malignità
del lamento
pervada la tua piccola bocca senza baci
(come biasimarti?)
da tutti gli angoli della casa
a te
baricentro del mio mondo
richiamo
la pazienza delle cose di stare
felici
nel punto esatto del loro destino.
*
Orlando è il nome della penultima fine
e si dicono preghiere e si chiede che sia
un addio memorabile, un gioiello della memoria
e che un qualsiasi oblio non sia futuro mai.
Anche i porci abbiano a ricordare che dentro
il bagno del sesso una creatura
ha vissuto il suo estremo respiro
coprendosi gli occhi coi palmi di un dio.
*
Per dirsi la verità occorrono molte albe
e pagine da cui apprendere il suono
pensarsi Mosca e avanzare il piede
senza egoismo, stare appena
prima della siepe, o dietro una trincea
e osservare da distanze siderali
tutti gli esseri amati, tutte le opere
umane e naturali, tutto l'intangibile
e l'inimmaginabile. Per dirsi la verità
occore prendersi cura dei pensieri
dal concepimento all'estinzione
lasciando che vivano ogni possibile
universo: scritto nei secoli
al di là del vetro o futuro.
*
Poiesis
L'uomo dalla schiena curva
ha passato le sue ultime ore
a solcare, con mestiere, la sabbia.
Disegno caduchi parallelismi marini...
direbbe, se gli avessero insegnato la parola.
Si limita, invece, a spostare le gocce salate
da una parte all'altra della fronte
e a liberarsi di uno sputo
denso, quasi estivo.
***
L'inconsapevole artista ha appena lasciato
soddisfatto il suo atelier
ma i due solchi, lungi un pomeriggio
hanno smarrito già la loro fine
sulla battigia senza tregua.
***
Una coppia di fauni, umani troppo umani
potrebbe mai resistere a quella così
effimera perfezione di forme?
Così, in comunione col vento di Maiori
sfiorano
l'appena compiuto, e promettono:
Diremo bene di voi, sub specie aeternitatis.
Naike Agata La Biunda
Si laurea in lingue all’Università di Catania nel 2014 e nello stesso anno fonda il Centro di Poesia Contemporanea di Catania, di cui è direttrice fino al gennaio del 2016. Alcune sue poesie sono state pubblicate in riviste online, fra cui L’EstroVerso e Atelier. Ha tradotto Fino a che saremo Itaca, un’antologia di poesie della poetessa spagnola Raquel Lanseros (CartaCanta, 2016) e il saggio Elogio del silenzio di John Biguenet (Il Saggiatore, 2017). È stata inserita nel volume curato da Bonifacio Vincenzi Secolo Donna 2017. Almanacco di poesia italiana al femminile, edito da Macabor e nell’antologia Un verde più nuovo dell’erba – Poetesse Millennial degli anni ’90 (Lietocolle, 2018).
Accogliere i tempi ascoltando è la sua prima raccolta poetica (LietoColle, Pordenonelegge, Collana Gialla, 2017).
Il Mondo e l’universo Espressionista
nella raccolta poetica
di Eleonora Rimolo: Temeraria Gioia
(Giuliano Ladolfi Editore, 2017).
Crediamo sia giusto aprire la rubrica Razzie Barbariche su Pioggia Obliqua con la casa editrice di Giuliano Ladolfi per due motivi: il primo, perché a Ladolfi è legata la rivista trimestrale Atelier che, assieme al minore spazio on-line, rappresenta per noi il maggiore impegno critico rivolto alla giovane poesia italiana; in secondo luogo, e sarebbe meglio dire a conferma del primo punto, perché è proprio con la raccolta di una giovane poetessa che si classifica tra i finalisti dell'ultima edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino: stiamo parlando della raccolta poetica di Eleonora Rimolo, Temeraria Gioia (2017).
Non è difficile considerare l'ultimo lavoro di Rimolo come un vero e proprio viaggio sul piano e dello stile e dei contenuti. Si tratta a mio avviso di un itinerario importante, dell’essere cioè che approda su di una riva - dopo aver gridato: adelante adelante! - dalla quale si può solo procedere, disseminata di sentieri qual è, in una ascesa verso piani maggiori.
Temeraria Gioia è infatti una raccolta ben fatta che coglie in pieno, sul piano della forma, il vantaggio della poesia di essere tramite lo stile. Di fatto sul piano stilistico la raccolta presenta notevoli sperimentazioni pur rimanendo fedele alla tradizione - l’uso corrente dell’endecasillabo, del novenario incalzano il ritmo, fanno della materia oggetto di plasmo - e come avviene in pochi casi il contenuto è la forma e la forma si intreccia, quasi in simbiosi, con il contenuto: attraverso il mare delle liriche cioè, il susseguirsi consequenziale dei testi come si trattasse di un canzoniere del sentimento, Eleonora Rimolo ci introduce nel suo mondo di ricordi, emozioni, odori, suggestioni che prendono vita non solo dal suo tempo, ma anche dalla sua terra. La Campania è infatti presente dal primo all’ultimo verso ed è oggetto di ricordi e suggestioni, un nido altro, quasi metafisico: il cantuccio poetico dell’autrice.
Un viaggio quindi di stile dove la materia diventa fisica e che bene si sposa al contenuto di percezioni quasi come se Eleonora Rimolo riscrivesse nel suo intento una geografia privata dell’area campana, o per meglio dire salernitana. La Campania dell’autrice di Temeraria Gioia non è tanto la terra felix bagnata dal Tirreno, non è la terra delle grandi coltivazioni d’alberi da frutto, non è la Campania del recitativo ungarettiano; la Campania felix di Rimolo è quella di Alfonso Gatto, del quale sarebbe più giusto parlare di Espressionismo, e del Domenico Rea, di Pasquale Maffeo. Una terra quasi al confine con il mare che pare essere agli occhi di questi poeti, tanto da diventarne oggetto di tradizione, una regione mistica, quasi trascendenziale, al punto di allestire come un proprio dato identificativo
quell’espressionismo che diventa universale e che nasce probabilmente da quell’invaso di terra tra cielo e mare quasi come fosse in procinto di lanciarsi verso un oltre.
E l’oltre è quello proustiano di ricreare una geografia (per certi versi interiore, intima) attraverso l’uso dell’olfatto. Rimolo infatti mediante l’odore ricostruisce una propria civiltà che come in tutti i poeti non è quella reale. Si tratta, a mio avviso, di un mondo parallelo in cui etica ed estetica sono la stessa cosa: meglio ancora, inscindibili. Lo stesso espressionismo del Rea, di Gatto, di Maffeo, anche se sono esponenti di una generazione molto più grande rispetto a quella di Eleonora, e che con probabilità è riuscito a fuoriuscire dal tempo per diventare qualcosa di escatologico.
Nei versi della Rimolo troviamo infatti il quotidiano stravolto dalla straordinarietà tipico dei versi di Gatto; il lirismo religioso - in senso di mistico - tipico di Maffeo; la Campania travagliata e tormentata da una fatica millenaria del Rea. Come Proust nel suo nido terreno accucciolato tra le forre del Cilento e il Tirreno, la Campania diventa oggetto memonico e di una attenzione speciale da parte di Eleonora. Quella terra è infatti il simbolo di qualcosa di altro, una sorta di Parigi meridionale bagnata da un mare dal quale risorgono suggestioni. Nei versi di Temeraria Gioia si è davanti a un reportage per immagini che Rimolo sviluppa edificandolo come fosse una cattedrale. E lo stile (la versificazione, l’uso delle sillabe contate, le interruzioni del verso) è solo l’architettura portante di questa cattedrale.
La sequenza stessa delle liriche formano un diario direi generazionale (di formazione, come fosse un romanzo in versi), un susseguirsi di colpi a salve che forse sono la fotografia inconsapevole della sua generazione. Nella raccolta si assiste, infatti, a un diario non solo di ri-trascrizione regionale e sentimentale, ma anche a una indelebile testimonianza di poesia di formazione, che è tipica dei giovani e del tempo di Eleonora e anche del nostro: insomma si tratta di una sintesi interessante di una testimonianza di una autentica messaggera di bellezza e sentimento.
A cura di Iuri Lombardi
Poesie estratte da Temeraria Gioia (Giuliano Ladolfi Editore, 2017):
Li vediamo dal basso,
scendono gradino dopo
gradino esperti itinerari
della trascorsa stagione:
minano la quiete della stanza,
parlano con un fiore in bocca
e dicono – ci confessano,
mormorando alle nostre
inquietudini solenni –
da lì, se sali, si vede anche,
si vede anche il mare,
una striscia di cielo
rubata ad un dio morente:
e attraverso la cella,
se ti concentri, si sente pure,
si sente pure il sale,
briciole sulla lingua a misura
di bacio, uno scambio di
oceani tormentosi,
quella scia di pietà
che colora di petrolio
un altro dramma negato.
*
Il mattino dopo
brandelli di ossa e scarti
di epidermide si confusero
col ferro:
il sole sciolse il senso
del dolore trascorse
un egoismo attraversò
il binario, planando,
l'angelo nero alzò un
piede scavalcò
quell'altura vischiosa,
nessuna traccia, diranno,
sulle suole delle scarpe,
di plasma, nessuna:
incolpevole solamente
il sollievo della gente
mendicante meschina
della sola propria salvezza.
*
Tu eri il tuo nodo,
le domande ti braccavano
morbose, ti parlavi
con una lingua di cenere,
intraducibili visioni
di un altrove che mai
raggiungeremo.
Ma siamo qui,
e me lo ricordi
senza equivoco.
Eppure dicono
che tendere il pensiero
risolva l’enigma:
mentre ti specchi
una schermaglia di volti
rovescia il tuo messaggio
e la cifra delle malinconie
si azzera
ai piedi della luna.
*
Più avanti quegli armadi mostruosi
suggeriscono ardite acrobazie:
non so dove vidi quell'ombra
che supina si stende e tende
all'indietro e prega che si riempia
un cono di doni, che si svuoti un centro
di libidini assediate
crocifisso a un palo di rinunce
attraverso il verbo a piè sospinto
lavoro e levigo la rena
e aspetto, infinitamente aspetto,
che si compia il gesto supremo.
Eleonora Rimolo
è nata a Salerno il 18/12/1991 e vive a Nocera Inferiore. È dottoranda di ricerca in “Studi Letterari” presso l’Università degli Studi di Salerno. Collabora con alcune riviste di Italianistica quali Sinestesie, Misure Critiche, Rassegna Italiana. Ha pubblicato un romanzo (Amare le parole, Litedition 2013) e tre raccolte di poesie: Dell’assenza e della presenza (Matisklo 2013), La resa dei giorni (AlterEgo 2015, Primo Premio “Poesia Giovani Europa in versi 2016”, organizzato dalla Casa della Poesia di Como) e Temeraria gioia (Giuliano Ladolfi Editore 2017, prefazione di Gabriella Sica, Primo Premio “Pascoli - L’ora di Barga”, Finalista “Premio Fogazzaro”, III° classificato “Premio Fiumicino”, Premio “Napoli Cultural Classic”, II° classificato Premio “Aoros Valerio Castiello”). È vincitrice del Primo Premio “Ossi di Seppia” 2017 (Arma di Taggia) con alcuni testi inediti. Alcune sue poesie sono state tradotte in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti e da Mario Pera per la rivista Vallejo&Co, e in brasiliano per la rivista Dottor Cardoso. È direttore editoriale della rivista letteraria «Atelier».
Che spazio occupa una giovane voce poetica
nel panorama editoriale italiano?
La poesia non è ancora morta definitivamente: lo dimostra la resistenza di quelle (poche, anzi pochissime) riviste e di quegli sparuti siti on-line che pure ogni giorno continuano a rendere pubblica la scrittura poetica. Si dice che oggi parlino a un pubblico fantasma: tuttavia, è chiaro che non è così. Qualcuno continua a leggere la poesia, magari in silenzio e in apparenza non visto: eppure, è proprio attraverso la prima selezione di questi siti e riviste che avviene spesso la selezione editoriale. Che sia giusto o sbagliato, il fatto rimane: è quanto mai impossibile esordire, senza prima essere passati per le riviste. La rivista è anzi l'esordio, la pubblicazione editoriale una sua legittimazione.
Per chi quindi vuole fare «il mestiere del poeta», questo significa accortezza e duro lavoro: e il più delle volte, un lungo lavoro. Non è dall'oggi al domani che un poeta arriva a pubblicare le proprie poesie su una rivista: c'è bisogno anzitutto che abbia trovato il proprio stile, che lo abbia definito fino a un certo punto, che infine ci sia in lui il sentore di una ulteriore evoluzione. Chiariamoci: non è detto che chi pubblichi su una rivista abbia raggiunto queste qualità. Intendiamo dire che queste qualità siano essenziali per chiunque voglia trasformare l'esperienza delle riviste in un percorso editoriale preciso. Per non rendere cioè la pubblicazione su di una rivista come caso isolato, ma come una consapevolezza e una direzione del proprio fare poetico materiale.
Il bravo editor sa benissimo quando gli capita tra le mani una poesia del genere: ma non può forzare la produzione del poeta che si trova davanti, altrimenti rischierebbe di comprometterla. C'è allora la speranza che non si esaurisca, o meglio che non si prolunghi: la speranza cioè che quella produzione esploda, perché ormai matura. Razzie Barbariche nasce perché crediamo che ci sia una differenza sostanziale nella maturazione di una poesia giovanile: vale a dire che si può essere giovani una volta sola e che il poeta che arriva a pubblicare da 'più grande' avrà una espressione poetica diversa. Non si tratta di idealismo romantico, ma di una presa d'atto evidente: se da un lato l'attesa può giovare alla forma e in generale alla maturazione estetica del singolo poeta, dall'altro una ricerca prolungata rischia di uccidere ciò che il poeta poteva esprimere (solo) da giovane: la propria maturazione esclusivamente giovanile, completa fino a quel momento.
Come dicevamo, è molto difficile che ciò accada: se al poeta manca ancora una coscienza della propria scrittura, il percorso lungo le riviste diventerà naturalmente più lungo. La poesia di quel poeta, che si sarà manifestata durante la giovinezza come germoglio, non può che arrivare a maturazione più avanti: è una poesia adulta, che può esistere solo in quel tempo. Ma a volte, invece, l'esplosione avviene e non si può ignorare.
Con questa rubrica ci proponiamo allora di scandagliare la poesia edita giovanile: ogni mese selezioneremo una casa editrice e un autore o una autrice al di sotto dei 30 anni che la rappresenterà, a cui dedicheremo uno speciale articolo critico. Speriamo di offrire al termine di questa rassegna per il lettore e i giovani autori il panorama e delle case editrici che hanno creduto saggio offrire nel proprio catalogo uno spazio anche alla poesia giovane e quelli che sono stati, a nostro avviso, i migliori contributi degli ultimi anni.
La redazione delle Razzie Barbariche:
Antonio Merola si occupa su YAWP della sezione Yawp Poesia. Si è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sulla recezione della critica italiana rispetto all’opera di F. Scott Fitzgerald. Sue poesie inedite sono apparse su rivisti e siti come Atelier online, Pioggia Obliqua, Poetarum Silva, Il Foglio Letterario, La Tigre di Carta, Pageambiente e La Macchina Sognante. Collabora o ha collaborato con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì (per cui cura la rubrica L’isolamento del romantico americano), Lavoro Culturale e Carmilla. Ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (Le Mezzelane, 2017). Si occupa dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura. Sue poesie inedite sono di prossima uscita sulla rivista Atelier e Argo.
Iuri Lombardi si occupa su YAWP della sezione Critica Letteraria. Si occupa anche dei Quaderni Barbarici su Patria Letteratura. Ha pubblicato il romanzo Contando i nostri passi (Romano Editore, 2007) e le raccolte di racconti Il Grande Bluff (Lettere Animate, 2013), La camicia di Sardanapalo (Talos, 2013) e Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (con la collaborazione di Antonio Merola, 2016). È stato direttore di Poeti Kanten per cui ha pubblicato gran parte della sua produzione poetica: Black Out (2015) e Il condominio impossibile (2015). La silloge Capodanno Metropolitano invece è stata inserita all’interno di L’urlo Barbarico (Le Mezzelane, 2017). Collabora con alcune riviste e siti letterari, come per esempio Carmilla e Patria Letteratura. Nel 2018 ha pubblicato la sua nuova raccolta poetica: Il sarto di San Valentino (Ensemble).
Alfonso Canale si occupa su YAWP delle sezioni Simposio e Ri-scritture. Si è laureato in Lingua e Letteratura Araba all’Università La Sapienza di Roma. Sue poesie inedite sono apparse su Poetarum Silva, I Quaderni barbarici e La macchina sognante: contenitore di scritture dal mondo. Nel 2014 pubblica a Parigi Alfonso Canale écrit e Miroirs. Nel 2015 pubblica in Italia la raccolta poetica bilingue (in italiano e in francese) Miroirs/Specchi. Nel 2017 ha pubblicato la raccolta Vedo all’interno di L’urlo barbarico (Le Mezzelane, 2017). È stato finalista nell’edizione 2017 della Biennale MarteLive. Fa parte del collettivo poetico A.S.M.A di Poesia e del format Salotto per pochi intimi, con i quali ha proposto diversi eventi di reading poetico-musicale per l’Italia centro-meridionale. Al momento sta lavorando a un nuovo progetto poetico, non belle parole, e a un récit sperimentale, Senses.
La scelta e il contenuto dei testi e le fotografie vengono gestiti direttamente dalla 'redazione' dalla pagina Razzie Barbariche.