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MARIA PIA QUINTAVALLA

 

ll nuovo libro di Maria Pia Quintavalla

 

         Q  U  I  N  T  A     V  E  Z

 

 

Maria Pia Quintavalla, Quinta Vez, introduzione di Maurizio Cucchi, Editrice Stampa2009, 2019.

 

“Se nessuna foglia ti chiamava, ti sapevo accanto sulla soglia: eri tu che cercavi un varco, avevi bisogno di alitare tra noi.
La tua sottigliezza esile e nota, il tuo dimagramento continuo fino a farti tornare a essere aria, aria che respira e fa riposare, ti restituivano a noi, dalla tua assenza cacciati.

Quel bianco, breve sconfinato verso il cielo eri tu a carpirlo, ma i rami-mani e il calore vano, quel tocco della schiena tornata a vivere all’altezza del tronco, là tu per noi, più viva dei viventi ti faceva.”

 

 

 

Gemono porte, c’è pena


sotto la volta di Milano, intanto

punge una natura


bistrattata con il suo passato;


la paura non è la mia –


ma femminile e forte l’io che sognava

ieri – soffre di raggelato assenso


al male, oggi –


di queste sue storture fa


di ogni mondo l’anima vorace,


la trasforma, e tace.

 

 

 

 

Quinta vez è la nuova opera di Maria Pia Quintavalla, un libro molto particolare, non solo per ‘la trama’ ma soprattuto per le scelte formali, narrazione in prosa poetica con momenti lirici, cronaca-descizione, un  dialogo teatrale. Ma colpisce, come sempre, un uso assolutamente non banale della parola, termini antichi, appartenenti a diversi ambiti, desueti, riferimenti ad altre lingue, una espressività estrema, un’aggettiviazione profonda, ma mai incline a toni di un manierismo compiaciuto.

In Quinta vez siamo in presenza di una serie femminile di personaggi fondamentali nella vita dell' autrice, a cominciare dalla madre, la quale ‘si esprime’ attraverso differenti canti,  trasformazioni-episodi di vita, madre presente anche nel precedente libro. Il libro inizia con Prentale dialogo “purgatoriale” con la madre, dopo di che Quinta vez, China (la madre ) torna fanciulla in un altro tempo. La sezione centrale di Mater, due poemetti dedicati alla figlia adolescente. Il libro si conclude Le due sorelle, “sezione di scrittura drammaturgica, duologo - confessione scritta per il teatro. Vicina allo spirito del film omonimo di Von Trotta, accostando, parallele, le vite di due generazioni vicine, ma del tutto separate” come ci spiega l’autrice.

Un libro, un viaggio in cui il tempo pare quasi unico anche se le situazioni e i momenti cambiano, al di là della scansione consuetudinaria, al di là di una configurazione prettamente realisitica. Un dramma di vita, impossibilità e disillusioni, desideri errati, scelte evocate ma non corrisposte, ma la vita poi rimane vittoriosa con la forza della parola, della poesia che malgrado tutto vince, crea una realtà nella realtà, una forza che va nasce prima e va oltre la vita, ma che si fa Vita perenne.

Un libro intrigante, da leggere.

 

 

Maria Pia Quintavalla, Vitae, racconti, con prefazione di Giuseppe Marchetti e copertina illustrata da Giosetta Fioroni, Vita felice, 2017,

 

 

tratto dal libro Vitae di Maria Pia Quintavalla 

 

 

Montenera Lama, di China

(Biografia a immaginaria) 

 

 

"Nacqui il tredici dicembre del millesettecentocinquantasei, nel ghetto di Colorno, vicino agli alloggiamenti reali della corte di don Ferdinando dei Borbone di Spagna, e il mio no- me fu scelto dalle cugine, più ricche e potenti, di mia madre China. Fui infanta fortunata, perché nascendo nel mese di dicembre, a causa del freddo intenso della bassa padana, fui a data alle cure della grande senhora curandera, che faceva la balia a corte, e le prime luci e colori furono quelli della magni cenza della corte del re.

Don Ferdinando amava proteggere, e circondarsi di una moltitudine di fedeli cortigiani, perché divenissero con lui la clara llama, come ebbe a proclamare un giorno parlando di tutto il popolo di Corte, dai ciambellani ai giardinieri, dai cuochi ai soldati alle dame di compagnia, dai precettori ai farmacisti del regno, dove altri ebrei e marrani, ormai catto- lici praticanti, convivevano ricordando sempre i tempi della paci ca Spagna da dove erano venuti; Toledo e le terre della Castiglia, portando con sé, oltre quei pochi beni: vestiti, li- bri, strumenti d’oro e di laboratorio, sto e, fogli di musica, i testi sacri della Cabala e antichi strumenti per fare musica. E triste andalusa memoria negli occhi, di colline vulcaniche al sole e di cicogne intente.

Mia madre China, potevo vederla di sabato e durante la settimana, nelle mattine in cui cantava a Messa nella cap- pella della reggia di Colorno. Era donna di incomparabile bellezza, carnale e gioiosa nel cuore, dalle mani danzanti (...)" segue

 

dal libro Vitae di Maria Pia Quintavalla 

 

Riflessioni

di Maria Pia Quintavalla

un inedito per Pioggia Obliqua

 

Come tante pietre, ( non sempre ) filosofali, ritrovate. Riaffiorate.

Come fresche di anni e mesi, senza essere Sherazade, ma disperdendosi poi nelle vite degli altri, escono, questi racconti di Vitae:  da un affollamento diradato, escono: storie e personaggi, tutti veri e viventi,un coro, dapprima solisti di una scena multipla. popolata da molti anni, tempi e spazi dell’  esistenza.

In spazi chiamati Milano e in tempi, detti gli anni ottanta, novanta e duemila.

Lo scrittore  e poeta fa corpo con quel che scrive, anche se fa dire a Borges che nessuno conosce l’ ordine alfabetico dei personaggi per riordinare le biblioteca delle voci e delle vite.

 

Ci sono stati, poi : lavoro sulla forma breve, e sulla forma lunga.

Da Corpus solum in avanti, dal denso e incisivo del racconto corto, all’apertura del mare della prosa, corteggiata a lungo, sempre, non fosse che per l’ aspirazione alla forma romanzo sempre allusa nei libri di poesia che precedono.

 

La narrazione apre e sbocca, da una struttura melopeica;

prima era entrato col trotto, nelle forme liriche conchiuse, non ancora il galoppo: negli a capo, nei bianchi dei versi, ma non ancora la piana del prosieguo, della prosa.

Nessuna invidia come ne scrive Amelia Rosselli, ma molto amore famelico di storia e di verità nuove, mi ci ha condotto ( alla prosa ). Già in Corpus solum, tra Brevi e Lunghe, anche là, un corpo romanzo ricercato.  Sempre, nei dieci libri di poesia, dalla vocazione ai cantari, alla canzone al canto, sono le parole più ricorrenti nei miei titoli.

 

Gli effetti del linguaggio cambiano: da fluente  a sapiente, celebrato: la precisione, la scelta sono d’obbligo a una prosa  buona. Un tornare anche all’etimo alla verità delle parole. Degustandole più copiose e generosamente.

L’entusiasmo è la cifra.

Un’esaltazione della mente di cui Marchetti  non sembra stupirsi.

 

Vite di uomini e donne non illustri, e invece anche illustri. Una tela che diventa auto biografia di tutti, di un tempo, di un noi aspettato, e coltivato a lungo, amato e poi nutrito, dopo che corale distratto, mai casuale, tuttavia. Vita di una donna e vita di noi.

Utopie o necessità storica ? Di quel passaggio epocale.

Un discorrere sulla vita, e della vita:ecco il genitivo, per tornare poi a quell’Uno - muto o parlante-  che noi siamo, dalle vite plurali. Avendo già assimilato la verità di essere * una sola moltitudine * o *l’assemblea* in cui l’ io si costituisce: Pessoa e Dickinson insegnarono, la narrazione autorizza a nuotare in mare aperto, come pesci.

 

Maria Pia Quintavalla

 

 

 

Prefazione al libro

 

di Giuseppe Marchetti 

 

 

 

Che queste pagine siano “prose”, o brani di romanzi, o segmenti di viaggi, di ricordi, di passioni  vissute, di sperimentazioni fallite e poi lungamente e affettuosamente gestite dalla memoria, poco importa. Siamo di fronte ad un libro composito che non soffre comunque di fronte ad un possibile disegno di romanzo vissuto e di formazione, dove i due termini si sovrappongono perfettamente. Maria Pia Quintavalla giunge ai termini della propria storia con lo sparire e il riaffiorare dei ricordi, in un’atmosfera autobiografica che, se da un lato ricorda certe pagine di Anna Maria Ortese, dall’altra governa una scompigliata e irrefrenabile vena poetica, risucchiante il diario e gli amori vissuti (quelli letterari e non letterari), i viaggi e le soste, i desideri, una profonda e consapevole voluttà di vivere e di viversi, i rapporti familiari e infine una segreta pietà verso cose, luoghi e persone che il passare degli anni ha rivitalizzato fino alla fiamma dell’identificazione intera. Chiamare “prose” queste pagine è, dunque, una palese limitazione. Andrebbe bene, semmai, la definizione di prose di romanzo, là dove i due termini letterari si compendiano nel registro interno della confessione, in un alternarsi di voci (quelle lette e quelle solo ascoltate) che vanno, a un dipresso, da Fortini a Porta, da Zanzotto alla Dickinson, alla Rosselli alla Pozzi alla Valduga. Una bella confusione – dirà il curioso lettore. Sì, certamente, confusione: ma nel senso del come ci si accorge dei venti che girano intorno a noi, delle parole che mutano di timbro e di calore persuasivo e dei gesti che ti colpiscono e ti accarezzano.

Una vita intensa, quella di Maria Pia, già così ampiamente documentata sul versante poetico, persino – a tratti – invasata da una contemplazione furiosa, se è vero che “Troppo genio, mi dicevano le amiche, e io per svincolarmi e mostrare che non ero soggiogata, mi ribellavo a parole, e nei fatti, iniziando una serie di contenziosi con lui per scagionarmi dell’essere già rapita, e imbambolata dall’amore”.  Ecco: il centro delle varie vicende sta in questa parola magica che accompagna l’autrice lungo tutto il corso del libro, cioè della confessione: dal ghetto di Colorno a Milano, da Parma a Milano, da Napoli ancora a Parma e alla sua provincia. Andare e tornare, quindi, che tesse un fitto velo di Penelope fatto e disfatto dentro lo stringente e intrigante struttura della poesia, dei posti e dei personaggi, Poiché questo libro è fatto di personaggi veri, anzi verissimi: il padre, la madre, i giovani amati, lasciati e ritrovati, i poeti soprattutto (uomini e donne) amici e nemici allo stesso tempo, fidenti e diffidenti, appassionati e indifferenti. Un “tutto” che precipita sul lettore occupandone ogni interesse, ora favola, ora esaltazione, ora rimpianto, ora irrazionale furore che si snoda dentro la storia degli ultimi decenni, libro di memoria che illumina il presente riconducendolo alla sua vera realtà: la “vita di una donna”.

 

G.M.

 

 

di FRANCESCO GALLINA

 

«Il lavoro diventano i lavori, tanti, a milioni, a te piace moltiplicare le responsabilità, organizzare creare: eventi, soprattutto, relazioni, farli parlare con te, ad alta voce, fra di loro, i poeti, gli intellettuali; farsi e farli amare, scontrarsi, pensare, contraddirsi.» La vita di Maria Pia Quintavalla potrebbe sintetizzarsi in queste righe tratte dalla sua ultima fatica letteraria, Vitae. Racconti, edita dalla casa editrice La Vita Felice. Escludendo le opere saggistiche, si tratta della sua prima raccolta di prose (dopo le prose poetiche), di narrazioni che, come affreschi, offrono uno spaccato di vita i cui protagonisti non si riducono alla sola autrice, ma ne popolano lo sfondo. Un libro di memorie, dietro le cui pagine percepiamo il fluire di una contemplazione furiosa, di un’esistenza vissuta con forza, determinazione, ma anche voluttuosa sensualità.

Dopo il ciclo di romanzo familiare in versi Album feriale, China e Compianti la poetessa parmigiana ci offre la storia della sua molteplice persona, attraverso il tanto delicato quanto spinoso snodo di narrazioni, che rifuggono dal puro autobiografismo in prima persona. L’io si fa tu ed egli, si scompone; spesso si guarda scorrere esteriormente, prende le distanze da se stesso per dare di se stesso un ritratto più veritiero, che non rifugge però da visioni oniriche e visionarie rielaborazioni. 

Romanzo di formazione in bilico fra classico e avanguardistico, Vitae racconta di famiglie, biologiche e letterarie, ma anche di un costante vagare fra Nord e Sud Italia («il corpo tirava verso l’insondato Sud del cuore, ma la sua testa era infallibilmente nordica»), alla ricerca di un amore e di una patria poetica che, alla fine, sarà identificata in Milano. Trent’anni di vita milanese che hanno dato respiro nazionale a una scrittrice che si è battuta fra insegnamento, impegno civile e sul pensiero delle libertà femminili.

Una poetessa i cui versi nascono nutriti dal terreno del cubofuturismo e dell’orfismo, per poi prendere altre strade, tutte accomunate da una viva e presente commistione di vita-idee-intelletto, fatta di una concretezza che non conosce ancora i tentacoli seducenti – ma atrofici – della virtualità contemporanea. Sono gli anni in cui, a mo’ di una New York italiana, Milano è costante pluralità di talenti. La Milano che, scemando gli anni di piombo, ritrova nella sua euforia il preludio al declino inesorabile che gli anni di Tangentopoli avrebbe trascinato con sé. La nevrotica Milano da bere alienata e allo stesso tempo vissuta da spiriti che, come la Quintavalla, spendono le proprie energie in solitaria, ma con la sempre accesa speranza di intrecciare e coltivare rapporti umani. In uno dei racconti più originali sul piano stilistico (anche per questo apprezzato da Elio Pagliarani), Mi piace lavorare, scrive: «ti butti nella disperata ricerca di inventare, di trovare, allora; e per tre anni si moltiplicano, fioriscono scuole, corsi, seminari dove insegni, dove torni e insegni ancora, poi rilanci: sempre a leggere e scrivere».

La scrittura salva dalla «fibrillazione della cronaca» e insegna ad affrontare le perdite e le assenze di una vita contrastata da amori rovinosi, ma altresì illuminata da incontri indimenticabili, raccontati nella sezione forse più schiettamente autobiografica, Ritratti, che ci mette in contatto con il volto di Giovanna Sicari, con la cordialità di Andrea Zanzotto, con la tragedia di Nadia Campana, con il «sorriso caldo» di Antonio Porta. Intelligenze attive, che hanno fatto di Milano, e in generale dell’Italia, terra di confronto e laboratorio poetico. Poetico nel senso di poesia, ma anche, etimologicamente, di fare artistico di cui la Parma e la Milano odierne si sono, forse, allontanate.

 

 

F.G.

 

 

 

POESIE

 

 

 

 

 

Da "le Moradas", Empiria 1996

 

 

 

 

 

Esiste la deliziosa

 

prossimità, non il perfetto amore.

 

 

 

E intanto

 

lunghi tragitti tratti

 

erosi da pianto, polvere

 

di sentieri assembrati angoli della mente   che

 

stavano per sfollare e - sostano,

 

campi desertici

 

 

 

   trasferimento, letto come strada

 

silenzio non ancora pace.

 

 

 

 

 

La fila delle estati come capi da abbattere,

 

la vita che stanca, ma che percorriamo in pianura

 

muri che possono rompersi quando piove

 

insegne che cigolano e pesano

 

 

 

divenuta grande sapeva

 

di correre un giusto segreto.

 

 

 

 

 

 

Superiorità superstite della strada sul cammino

 

alla testa un elmo discordante

 

 

 

da qualche parte doveva

 

pur produrre cozzo inarrestabile nel rumore

 

di un corpo  u n  altro corpo

 

 

 

ma tutto passa si trasforma preghiera.

 

 

 

 

 

liebe, I

 

 

 

naufragio il primo giorno: non avvicinarti

 

e tutto il tempo intorno, pesci

 

 

 

tu prega moderna

 

la morte del tuo uomo, lo stento del tuo uomo

 

 

 

è l'ora splendida peccata mundi.

 

 

 

 

 

Liebe , II

 

 

 

conca e albero, volontà

 

e firmamento nelle sue volute navigano

 

le mie navicelle

 

 

 

non so accese nella discesa libera infinita

 

sottomarini a  noi stessi.

 

 

 

 

 

 

 

Spazzaneve dell 'evento sfarzosamente

 

nell'evento, i meridiani in festa

 

 

 

dopo la notte obliterata in pace

 

esso è trascorrere

 

 

 

forse anche tutti questi nomi

 

hanno loro paesi sconosciuti.

 

 

 

 

 

 

Sì-amare

 

 

 

sì, amare

 

quell'armonia universale di

 

corpo a corpo distesi l'uno

 

accanto all''altro giacentisi vivi

 

 

 

d'amare, planare

 

di armonie di universale corpo

 

giacente dell'uno verso

 

l'altro - soffio del cuore

 

 oh come planare

 

 

 

sedare posare

 

 

 

e cuori cuori non piu' soltanto

 

nomi-

 

 

 

 

 

 

 

Da "I Compianti ", Effigie 2013, 2015

 

 

 

Congedo, I

 

 

 

 Come potere trattenerti

 

 

 

I)

 

 

 

Come potere trattenerti,

 

come la linea dei salici, in estate

 

che ondeggia ma sta ferma -

 

e vaga assume

 

il senso ed il colore (lieve)

 

di un grigiorosa che trapela, ansima svela

 

nel cadere la sua natura ancella

 

e in più ritrosa, dolceamara.

 

 

 

 

 

 

Come potere trattenere,

 

come la luce -

 

quel flettersi genuflesso delle foglie

 

e rami sollevati

 

dal dovere di gravità che toccano

 

in tenerezze grate dal sapore dolce

 

che comunica col cielo -

 

come chi confina 

 

 

 

 

 

Se tu sei là, fermo o ambulante

 

che sosti pensieroso prima di una partenza

 

che non vorremmo esistere

 

per questa vita, per questo amore

 

che ci turba

 

assumerci sereno e lieto quel partire,

 

il gesto delle mani nelle tasche

 

al vento riparate o esposte

 

che attardano

 

alle porte ad assi cigolanti,

 

con la voglia di socchiuderla toccarla,

 

soglia dei semprevivi

 

                                   alla partenza

 

 Essa ci rese eguali, subito

 

la discesa, la sconoscemmo.

 

 

 

II)

 

 

 

Padre che non sei mai partito

 

ma viandante ci sorridi additando

 

in un gesto segreto il riso

 

o uno scongiuro,

 

della bianca camicia spezzi un giorno

 

arioso e lieve come un’ostia calma

 

che sa di carta e pane, che fa luce,

 

poi ci accenni che vivere e deambulare

 

sono la stessa cosa

 

un giro di memoria non si stacca,

 

le colline suonano soavi l’orizzonte                                 ,

 

lo incoronano di strisce blu e marroni

 

sotto il cielo che fila dalle nubi,

 

a sera forma la luna più vicina,                                     

 

e credula sorella.

 

 

 

Non sai che trattenerci è il tuo mestiere,

 

mentre noi non possiamo farlo a te,  

 

legati a ritmi di catene

 

sonagliere al tempo                                              

 

che tintinnano toccando terra

 

raspando l’aria dei bambini

 

che persero l’infanzia, quella nascosta,

 

derubata come guscio amoroso

 

sotto terra ma dalla mano

 

un gesto ci ammonisce                            

 

 

 

Non parlate di me non commentate

 

ma sostate guardando assaporate

 

aprite pure le braccia dei polmoni

 

a respirare ancora un’ora,

 

a sorseggiare aria sotto la volta

 

di una Parma antica.

 

 

 

 

 

III)

 

 

Tra campagne a raggiera

 

ed alte mura che sorreggono                              

 

canzoni, notturni di visioni e pietra,

 

dove lunghe fontane coricate entrano

 

alla Pelòta, corrono

 

sotto al verde tenero che nasce

 

accanto all’acqua                                     

 

 

 

è nella croce antica di una chiesa

 

che riempita d’acqua si formò fontana

 

e pioppi piccoli restano a guardare 

 

il monumento a Verdi travagliato dalle bombe,

 

ostenta il pezzo suo migliore,

 

riesce a trasmettere un sipario

 

che ti rappresenta, che cammina

 

in angolo proscenio                              

 

il cielo lo rapisce, e vortica

 

dove lo spazio assume il cono d’ombra

 

e luce quasi eterna

 

che già eterno t’accompagna -                                   

 

 

 

E’ là, in un’aura dolce

 

che ti seguirà rinato a passo lento

 

dentro l’erba

 

per sempre tu ne varchi il cerchio,

 

lo attraversi ne esci, poi ritorni;

 

la passeggiata vola ai piedi, danza

 

su acqua scalza.

 

 

 

 

 

Non seguo il tuo bastone,

 

ma da lontano in muta processione

 

tutti i miei passi ai tuoi serrati

 

formano un cordone in ampio nodo,

 

un corrimano dove appoggiarsi

 

ai fori della voce, avanzano

 

risuonano quei gesti,

 

tornano vinti e morsi d’aria, raddoppiano

 

le eliche del tempo da ieri a ieri

 

fino a qui,

 

                                              

 

f u t u r e.

 

 

 

 

 

Come potere trattenerti non sappiamo,

 

ma infine,

 

come nel gioco della retina ed un suono

 

tracciato trattenuto,

 

risuona stretto a te un  a b b r a c c i o

 

                      di conchiglie vuote.

 

 

 

 

 

 

 

 

Compianto, IV

 

 

 

Cos’è il paradiso

 

 

 

 

 

Poi, cos’è il paradiso?

 

un succedersi a riparare colpe,

 

un evolversi sciogliendoci, in stagioni (dove

 

non eravamo stati).

 

 

 

Al buio li trovai, nella liquidità,

 

lei senza luna e insegne,

 

lui, il capo reclinato. Lei senza fiori

 

ma sorrideva angelica

 

una dalia rossa le portai, unita

 

al puffo del crisantemo.

 

 

 

 

 

Ma di carta il tuo avello, o padre

 

nel cemento spalmato dai ragni,

 

su fiorami tra la polvere e il vetro

 

lo trovai,

 

allineato dal fondo e da stagioni,

 

lui, sotto spessa carta già celato il nome,

 

mi chinai e non vidi.

 

 

 

Lei, sospinta al sorriso, si girava

 

come chioccia bianca all’aperto,

 

lui, si era spento

 

da poco tempo, non sudava né

 

occludeva lo spazio.

 

Baciavo io dell’altra, il volto

 

nell’icona,

 

ma sentivo sul viso le carezze

 

del materno come mano, la sua forma

 

che diceva, Ritorna

 

mi ridai la luce del convito;

 

 

 

 

 

stava zitta al contrario la carta

 

che copriva

 

il senza volto, non trovava cenni

 

non regnava e non stava,

 

forse ignaro

 

ospite, come un piccolo ricoverato

 

al buio della fame, riposava -

 

sulla nave dei folli in piattaforma,

 

senza luna.

 

 

 

Non risorti, oh gridalo

 

l’acuto dalla volta scurita degli abbandonati

 

 

 

ma chi defezionò non ha più pace.

 

 

 

 

 

La piscina

 

 

 

I)

 

 

 

Nel brillio di fiction la piscina

 

disegna un trapezio minuscolo

 

celeste q u i davanti al mare

 

che più dietro asseconda, gli  s o m i g l i a 

 

dietro al muro la copia,

 

ma non è più copia dal vero.

 

 

 

È rinato dietro la scaletta,

 

nascosto - un trampolino, e sotto                                    ,

 

si sommerge

 

nel sonno di barche docili che solcano

 

per caso la tavola del mare

 

che s’allunga rende il mare

 

 

 

un tema un rigo grigio.                           

 

 

 

II)

 

 

 

La piscina giocattolo dormiente

 

sta alla madre dalle lunghe braccia,

 

ne  d i s e g n a  un orlo sotto al monte

 

mentre il cielo là ferma,

 

calmo nelle opache nubi che discendono

 

si addensano,

 

lo sporcano il vulcano.

 

 

 

Restano nubi aperte fulminate,

 

segnano di bagliori fantasmatici

 

la volta, nel sentiero

 

riabbracciano lontane madri

 

alle madri, onde alle figlie.

 

 

 

 

 

 POESIE  INEDITE

 

 

 

Mater, II

 

per  Sarah *

 

 

 

I)

 

E' forse questo il tremito, in occhi sconosciuti

 

i miei, già conosciuti,

 

è forse vero il verso che dice il tocco

 

i salti della voce. Lei è cresciuta

 

non parla la  t u a  voce -

 

presa per mano ti guardava tornare, e poi andare,

 

mi seguitava il corpo, ne assecondavo

 

il suo respiro, due sono una

 

ora è uno e uno. Ora

 

i suoi occhi luccicano con una margherita

 

appesa al lobo ma di luce propria

 

senza infingimenti e lei là, un gran andare 

 

per una corsa sua segreta,

 

tra fili d'erba e treni, caramente

 

d'oro il suo sorriso.

 

 

 

 

 

Lei non ascolta se cammina, non ti vede più

 

sei tu alle spalle, la conosci

 

dal silenzio dei passi, lei non corre

 

più accanto alla tua vita ma davanti,

 

la sospinge e spinge via.

 

Lei non sa nulla

 

ma se la guardi appena, dietro al viso c'è

 

ancora quel sorriso e gesto pieno

 

della mano ha il volo

 

di un gabbiano nato intorno al seno,

 

ne aumenta le parole.

 

 

 

 

 

Nel giorno che precede la vedrai

 

varcare sola, e sola sarai tu

 

che là pazienti  sulle orme delle mani,

 

cerchi il tuo sangue quando

 

volata via con te, ma dolcemente

 

piano, in una sua salita

 

ne disegna l'arco di una vita

 

piccola più della tua, sognata.

 

Era figlia già quando nessuno conosceva,

 

era lombrico molle piccolo

 

nella tua mano, e silenziosa.

 

Ora che scappa e ride con le amiche

 

piano poi copia parole da poeta,

 

da una canzone, come un'orsa agile leggera;

 

dicono non ti somigli, e invece

 

piano, lei scrive in versi la sua notte,

 

si trucca gli occhi, ride. Si seduce.

 

 

 

 

 

L'immagine che guarda fissa è la sua vita

 

non lo sai se è aperta

 

o chiusa al tuo orizzonte ma

 

decisa, scende dalla sua strada

 

in una  s u a  radura...

 

Ogni mattina

 

chiude piano le porte.

 

 

 

II)

 

Essa è più felice di te che, di fortuna

 

la vedesti nascere alla vita

 

lei tace ride, si compiace, aspetta

 

i tempi delle sue radure. ( L'amore

 

la seduce), il corpo dondola ma esplode

 

nell'ansia di una primavera forte,

 

piena di odori . E lei profuma,

 

dice alle amiche, tagga sul video

 

una sua luce. Poi si gira e ti scopre

 

alle sua spalle, ne urla, ride;

 

non sa come tenere esorcizzato quel dèmone

 

che è un'Altra donna, una che in piedi

 

crede specchiarsi

 

nelle sue gambe nude. Non capirà.

 

 

 

 

 

Lei è  più libera più umana, non conosce

 

guerre, né latitudini del nero,

 

il novecento appena lo ha leccato ma dopo,

 

quando venne valicato nel suo tam tam,

 

sinuosa, nel digitale totem  -  si è raccolta.

 

Dorme o ticchetta i suoi messaggi. pensa

 

nella luce e intanto,

 

in semicerchio si accavalla ai corpi delle amiche

 

in cerchi di fumo e di parole

 

vola via leggera, si traduce.

 

 

 

 

 

Tu ti distacchi e sposti, la guardi scivoli via

 

piano per non ferirla

 

ti mostri neutra amica, taci, ma lo diresti

 

quanto sangue e voce ci è voluta per tagliare

 

quel cuore intero in una luce sua,

 

che ti divora. scompare

 

se c'è un emblema vostro, lei lo saprà

 

capire, lei non ha paura.

 

 

 

 

 

Tu, una chiave di notte

 

nel suono delle sue parole ti ha acceso

 

il video della mente e poi,

 

non turba più -

 

per quella mano speculum sul cuore

 

ti senti piccola e sperduta,

 

la sua nascita va verso la tua morte.

 

Ma lei serena guarda e stacca,

 

non capisce.

 

 

 

 

 

III)

 

 

 

Uscendo piano dalle porte,

 

credevi non udire quel pianto secco

 

che ti prese nel salutare quando

 

tua madre nell'abbandonarti ancora,

 

una seconda volta se ne usciva zitta e

 

solenne, verso il suo bell'ade, fasciata

 

in oro andare nella vita.

 

Ma Lei sarà - nata dal riso domina

 

nella silhouette radiosa, circonfusa.

 

 

 

 

*(  Sarah: colei che sarà, principessa degli zingari, nata dal riso )

 

 

  

 

Maria Pia Quintavalla  Suoi libri: Cantare semplice (1984, Tam Tam Geiger), Lettere giovani (1990, Campanotto), Il Cantare (1991, Campanotto), Le Moradas (1996, Empiria), Estranea (canzone) (2000, Piero Manni, prefazione di Andrea Zanzotto )  Corpus solum, (2002, Archivi del ‘900), Album feriale ( 2005, Archinto ), Selected poems, Gradiva N.Y. 2008,  China, (2010, Effigie), I Compianti( Effigie 2013). Ultima antologia italiana: Trent’anni di novecento (a cura di A.Bertoni, 2005 Book). Numerosi i premi, finalista più volte al Viareggio. Dal 1985 ha curato: Donne in poesia, e le omonime antologie, (Comune Milano 1988,  Campanotto 1992 ), aggiornata alle rubriche: Scrivere al buio, Casa della Poesia, 2010, Milano; Le Silenziose, Book City, 2013, Milano; Muse, Autori Resurrezioni, Expocultura, Casa della cultura, 2015 Milano. Bambini in rima / La poesia nella scuola dell’obbligo, Atti su Alfabeta 1987- ‘90. Collabora: a Lettere, Università agli Studi di Milano e di Parma con laboratori scrittura lingua italiana.  Collabora a redazioni riviste di poesia, storiche e online. Traduzioni:  Gradiva, N.Y., Italian Review Poetry, Traduzione / tradizioni, Milano; Schema, Università Tubinga; Certa, Empireuma; Ed. DHK, Zagreb, Une nouvelle poésie italienne, Sorbona, Paris IV, Terre des femmes, Poésie italienne, 2015

 

La pagina viene presentata per gentile concessione dell'autrice a Pioggia Obliqua

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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