QUALE PRESENZA?
PIOGGIAOBLIQUA – #8/9 luglio-agosto 1996
Attilio Lolini
PioggiaObliqua: Il destino della poesia:in un mondo quasi del tutto secolarizzato quale diverso sentire impone la creazione di un testo poetico?
Attilio Lolini: La poesia sta scomparendo? Macché! La poesia dilaga, straripa, tracima gli argini, alluviona le cassette postali: un tornado di plaquettes, di sillogi, di poemetti: è il festival dell’endecasillabo, la sagra della quartina e del sonetto. A Castelporziano, quando fu recitata e assessorizzata, partorì una coppia (il poetesso e la peteressa) che, negli ultimi vent’anni, avrebbe trionfato nelle pubbliche piazze e nei teatri. Specie la peteressa trovò subito una critica entusiasta capitanata dall’imbracatore genovese dei due mondi Sanguinaccio Capaneo e del di lui concubino Angelo Panebianco Guglielmi. Si intuiva all’istante che la peteressa si sarebbe imposta sul poetesso come dimostrano, tra l’altro, i recenti versi della signora Donatella Dini pubblicati dal “Corriere della Sera”. La vita del poetesso, a dir la verità, appare più stentata e appartata ma niente paura: a Milano, Firenze e perfino a Gallipoli e Cernusco sul Naviglio pullulano le scuole di poesia dove anziani e astuti autori di archiviate antologie insegnano ai poetessi come si scrivono i versi. Ci si iscrive (dietro pagamento di quota più IVA) al corso di poesia istruito dall’ Orrendo o dal Postiggia e lì, in poco più di un mese, uno esce poeta diplomato. Che fa? Per prima cosa intende pubblicare la plaquette; dunque si rivolge, seduta stante, a Giorgio Bàrberi Squarotti per acconcia prefazione. Questo martire del verso sciolto, una specie di Don Gelmini della petesseria riunita, non dice mai di no anzi invia immediatamente la prefazione (o postfazione) che ha lì, bella e pronta, nella scrivania. La consapevolezza di quest’uomo non è paragonabile a quella di nessun saggio dell’antichità. Egli sa che il poetesso, se adulato o stroncato, può dare il via a noie infinite; dunque si scriverà che è “promettente”, che i suoi versi fanno presagire un sicuro talento, che il libro presentato merita attenzione e così via. Il numero delle prefazioni scritte da Bàrberi Squarotti è astronomico. Nessun computer è capace di contenerle; la sua pazienza fa ritenere Giobbe un esagitato.
PO: La poesia sta scomparendo. Ha ancora un’urgenza, una necessità il lavoro di chi scrive versi oppure è in atto un superamento di questa espressione sul piano della coscienza? Esiste la possibilità di ricreare un suo “territorio” e una sua “funzione”?
AL: Il destino della poesia è, appunto, Giobbe Covatta. La poesia si fa e si dice al Maurizio Costanzo show dove transita la finta peteressa pazza Alda merini, in Bacchelli. O il Tinto Riondino alias Alberto Bevilacqua, poetesso di vite. La poesia èArnaldo Bagnasco quando aeda e allora Alessandro Baricco il Glande nel secondo canale. Sulla poesia passata e futura sorveglia Sua Baronità Alberto Asinor Rosa detto anche l’Aiazzone delle cattedre. Asinor è l’inventore della cattedra tre per due insieme ad Antologio Ferroni, uno che dà del tu a D’Annunzio.
PO: Memoria soggettiva, memoria del computer: nell’ambito di queste due lingue morte (poesia e intelligenza artificiale) è possibile una interazione o l’una “vampirizzerà” l’altra?
AL: Come ognuno ben sa la peteressa tende al vampirismo come la Maria Pia Fanfani alla giberna plussurizzata. La Poesia al computer fu inventata dal Sanguinaccio Capaneo quando faceva l’avanguardista ai Festival dell’Unità desnudo dalla cintola in giù. È merito storico che gli va francamente riconosciuto. Seguaci del Capaneo sono quelli del Gruppo ’93 che hanno una rivista, anzi un’arrivista, Baldus, dove, direttamente dal File si calavano nel verso. Sono istigati alla creazione da sospetti vegliardi come Alfredo Rifondato Giuliani, dal critico dell’ “Espresso” Renato Bottilli e dal di lui concubino Alberto Barbasino. Hanno nomi altisonanti come Marcello Fixione (nucleare) Porro Cepollaro e Lello Voce (e notte). Il computer, dopo la poesia automatica, ha varato, con questi autori, la plaquette-internet (direttamente a San Salvi).
PO: Quali mutamenti sono in corso all’interno del paesaggio mentale di chi scrive poesia oggi?
AL: Nel paesaggio mentale di chi scrive versi non avvengono, da più di settant’anni, mutamenti di rilievo. L’aspirazione è di diventare, con la plaquette, vate o vice-vate o, più concretamente, di rompere le balle a editori e lettori. O comunque di iscriversi al Premio Nobel. Legioni di poetessi se la prendono con i così detti editori maggiori che, anche se volessero pubblicarli, non potrebbero perché impegnati ad editare i loro impiegati e concubine. In questo campo, come nella politica, s’impone il maggioritario anche se necessita, come sostiene la peteressa Carolina Mezzi in Tatarella, la quota prepuzionale.
QUALE PRESENZA?
PioggiaObliqua - # 8/9, luglio-agosto 1996
Gabriel Cacho Millet
A CHI TEME PER IL DESTINO DELLA POESIA
“Era ancora di notte, grande signore, quando abbiamo cominciato a dare un nome alle cose”, rispose l’indio nahua al conquistatore spagnolo che gli chiedeva perché l’uccello Quetzal si chiama Quetzal.
Nessuno rammenta, in quale punto della terra, in quale periodo, un giorno venne aggiunto “un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali” (Montale) e ci fu il canto e il cantare un mestiere. Un mestiere di cui sappiamo soltanto che è molto antico, e che malgrado ciò, non dat panem.
Davanti al fuoco, lo stregone-poeta narrava l’origine del mondo, del Signore dell’alto e del Signore del basso. “La tribù, per un’ora o due, diventava una comunità poetica che includeva vivi e morti”, osserva Octavio Paz, parlando del solo esempio che si conosca di una intera società dell’America equatoriale ‘visitata’ dalla poesia.
Ma i lettori di poesia costituiscono da sempre una minoranza, o come diceva Juan Ramòn Jiménez: “un’immensa minoranza”. Per invertire questa tendenza millenaria, la poesia deve cambiare pelle, dicono gli editori e qualche poeta che ha imparato “l’arte del facil vivere”.
Scenderà urlante in piazza. Sarà venduta a poco prezzo. (Questa mattina il mio giornalaio mi ha offerto ”un Ungaretti” a lire 4.000 anzi 3.900). Farà ridere. Diventerà con la televisione un fenomeno di massa. Durerà un giorno, o forse neppure uno, forse il tempo di ascoltarla. Andrà a ruba. “Usa e getta, fratello”.
Navigherà sull’Internet e il computer ci dirà esattamente quanti ‘pioppi’ ci sono nell’Antonio Machado di Campos de Castilla, quanti denti nel sorriso di Beatrice, con chi andava a letto Shakespeare nel momento di comporre i Sonetti, la qualità delle lenzuola e il sesso del partner.
Per carità di Dio, non stiamo sparando sul computer: è soltanto una macchina. Come il pianista americano di Wilde, fa quello che può. Quello che in fondo gli altri gli dicono di fare.
Certamente non può essere l’artefice di quell’arte, sintesi di tutte le altre, “che sorge quasi per miracolo”, dalla “punta del alma” (San Juan de la Cruz) e che alcuni, per non prendere ancora congedo dal mondo, fermano come un sogno sognato “davanti alla ragione”.
Per alcuni uomini discreti, consci di essere nati sotto una stella troppo fugace, la poesia è il solo talismano di cui dispongono per fare uno sberleffo alla morte. Tuttavia, loro non vanno in cerca della poesia. Sanno che se la cercano non la troveranno mai, perché la poesia non va cercata ma attesa.
La poesia che non può essere prodotta in serie, perché è un mistero, si fa strada da sé. Non ha bisogno di nessuno per ricrearsi un ‘territorio’ o per ‘rehabilitarsi’. Soffia dove vuole e come vuole. Appartiene a chi ascolta la sua voce. E, ascoltare, non è da tutti.
Questa poesia delle minoranze non sta scomparendo. È altrove. Nel suo luogo naturale: l’esilio o la clandestinità. È nascosta dalla vergogna, in qualche catacomba appena scavata. È inutile stanarla: non entrerà mai in rete. I versi, come le lacrime, non si possono comprare nei supermercati. Ma il mio giornalaio, che vende poesia “per tutti”, non lo sa.