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STÉPHANE MALLARMÉ 

IGITUR: L'OPERA IL CASO LA MORTE

 

 di Guglielmo Peralta






La scrittura e la morte

     


Hegel in un testo che precede la fenomenologia scrive: «Il primo atto con cui Adamo si rese padrone degli animali fu di imporre loro un nome, vale a dire li annientò nel pieno della loro esistenza».

La parola che nomina, la parola umana, a differenza del Verbo divino, nutre dentro di sé un germe di morte. Dal potere di dare la morte viene alla parola il suo senso. Il linguaggio che possiede l'essere lo annienta, e tuttavia lo salva dal nulla e dall'assurdo in cui sprofonderebbe se con l'esistenza non gli fosse anche data la possibilità di sparire. Senza la morte la distanza tra la parola e il suo oggetto sarebbe incolmabile. In assenza della morte, nello spazio vuoto di essa, il linguaggio avrebbe la sua sepoltura e tutto l'essere del mondo riposerebbe sulle sue ceneri.[1] Scrive Foucault: «Dopo Mallarmé la parola è l'inesistenza manifesta di ciò che essa designa». Un legame più profondo con la morte è nell'atto della scrittura. Clemens Brentano, nel suo  romanzo "Godwi", parla dell'«annientamento di se stessi» che si produce nell'opera, e per Kafka «lo scrittore è colui che scrive per poter morire ed è colui che trae il suo potere di scrivere da una relazione anticipata con la morte». «Scrivere per poter morire. Morire per poter scrivere». Questa fu l'aspirazione anche di Mallarmé per il quale l'opera ha in qualche modo una relazione col suicidio, come accade in "Igitur o la follia d'Elbehnon". Se da un lato la realizzazione dell'opera richiede tempo, vita; se è impossibile morire finché l'opera non è realizzata; se, dunque, bisogna compiere l'opera, se bisogna scrivere per poter morire, dall'altro lato, se l'opera è interminabile, incessante, la morte è sempre differita e morire è solo un "caso", "un tratto di dadi". E il caso, ossia la morte impersonale, il "si muore", decreta l'assenza dell'opera impedendone il compimento. Solo il suicidio, abolendo il caso, la morte anonima, può permettere a Igitur di cogliere l'altra morte, di fare cioè esperienza della morte possibile, personale, autentica, felice, giusta e di entrare così con essa nello spazio dell'opera.

      Maurice Blanchot, parlando della solitudine dell'opera, scrive: «Lo scrittore appartiene all'opera, ma ciò che gli appartiene, ciò che egli porta a termine da solo, è soltanto un libro [...] l'artista, terminando la sua opera soltanto al momento in cui muore, non la conosce mai»[2]. Igitur è una ricerca che ha come posta in gioco l'opera. Il suicidio, pur consentendo di afferrare l'opera dando scacco alla morte impersonale, è, tuttavia, una scommessa perduta in partenza. L'io che si dà la morte non la riceve perché morendo perde la coscienza di sé e sparisce nella morte, quella anonima, che credeva di potere evitare. «Il suicida prende una morte per l'altra; l'artista prende il libro per l'opera»[3]. Come può allora Igitur raggiungere l'opera e collocarsi nello spazio puro dell'assenza? Come può risolversi ad agire, come può uscire da quel «dunque» che è il suo nome e il suo destino e che, pur sollecitandolo all'azione, lo sospende dinanzi alla decisione estrema? Egli tenta in un primo movimento di raggiungere la morte con la rappresentazione dell'atto volontario: una morte in spirito che permette di «percepirsi nell'atto di sparire e apparire a se stessi nel miraggio di questa sparizione»[4]. Con la presenza di Mezzanotte tutto è come se fosse compiuto, i dadi gettati, l'ampolla vuotata fino all'ultima goccia di veleno, l'adolescente disteso sulle sue ceneri, la candela dell'essere spenta. Il racconto inizia con la fine affinché possa cominciare e ciò è possibile solo nell'ora della Mezzanotte che segna la fine del giorno, ma anche l'inizio del nuovo; l'ora della decisione estrema in cui Igitur può raggiungere, "toccare" la propria spoglia mortale. Non si può sparire in una morte che non c'è[5]. Morire richiede la presenza della propria sparizione, la presenza di Mezzanotte, dell'assenza pura e perfetta in cui possono essere gettati i dadi, perché in quest'ora la probabilità che tutto ricominci è abolita. Solo in quest'assenza, che è il puro nulla, l'opera può essere afferrata[6]. Ma la morte sognata, pensata è «l'immensa passività che, preliminarmente, dissolve ogni azione e perfino l'azione per mezzo della quale Igitur vuole morire, arbitro momentaneo del caso»[7]. Come può allora Igitur fare un poema di questa morte?, come può mettere in atto il suicidio e rimanere nella presenza di Mezzanotte, autore e spettatore della propria morte? È proprio nella Mezzanotte che Mallarmé trova per Igitur l'immagine rivelatrice, la soluzione del dramma. E qui siamo al secondo movimento. La Mezzanotte è l'ora neutra in cui tutto l'essere del mondo è trattenuto e sospeso tra il passato e l'avvenire. Il presente infatti è abolito, negato e Igitur non deve più compiere il gesto divenuto superfluo "perché in un tempo senza presente, ciò che è stato sarà". Questa immagine sorprendente è annunciata dalla Mezzanotte, dal suo addio alla notte: «Addio, notte, sepolcro tuo proprio, ch'io fui, ma che, sopravvivendo l'ombra, si trasformerà in Eternità»[8]. Qui la notte è simboleggiata dal libro aperto sul tavolo. La notte, che racchiude in sé il passato ed è resa eterna dalla Mezzanotte, è simile al libro conclusivo che trova riposo eterno nel sepolcro dell'Opera. Ma la notte che non ha più un'apertura nel giorno, essendo ormai stata tutta la luce profusa, è l'oscurità ("l'ombra che sopravvive") mai affrancata dalla luce, che ancora risplende e lascia filtrare dal fondo del passato tutto l'avvenire del giorno. Questa notte è il libro smunto, al quale il silenzio ancora dà voce quando tutto è stato ormai proferito; antico silenzio che rischiara con luce notturna tutto l'avvenire della parola. Nell'ora della Mezzanotte in cui «il passato tocca e attinge immediatamente l'estremità dell'avvenire» avviene l'incontro tra Igitur e la propria morte. Il libro è definitivamente chiuso, segno che l'Opera, cioè la morte, è realizzata. «La notte diventa 'atto' e questo 'atto' apre i pannelli della tomba». La notte diventa l'intimità di Igitur, la morte che pulsa nel suo cuore, la vita stessa, perché la spoglia "vuota" ha preso il volto e la forma dell'adolescente ed è diventata reale in lui. E in questa intimità il gesto è compiuto, la morte afferrata e identificata.

 



Il ritorno del dubbio e la catastrofe

 



Nella versione più recente Mallarmé modifica la prospettiva dell'opera lasciando a tratti affiorare   nel racconto l'io monologante e disperso di Igitur. In questo pallido prolungamento del monologo di Amleto, il "sogno" si fa scena nel teatro della notte. Igitur è l'io notturno che coglie le pulsazioni del cuore e riflette sul modo di liberare il "sogno", cioè, su come rendere pura la visione annullando la coscienza della sua rappresentazione. Può Igitur nella finzione andare oltre sé stesso, strapparsi dal dubbioso "dunque" cui lo consegna il suo doppio? Non deve forse uscire dalla ragnatela in cui lo imbriglia il suo personaggio per sparire attraverso di lui e dissolversi in sé stesso?[9] Una simile distanza s'impone perché la prova decisiva non si compie al riparo della coscienza. Se Igitur, alla fine del monologo, pronuncia queste parole: «L'ora è suonata della mia partenza»[10], vuol dire che tutto deve ancora essere compiuto, il caso annullato. Scrive Blanchot: «È a Mezzanotte che devono essere gettati i dadi? Ma Mezzanotte è precisamente l'ora che non suona se non dopo che si sono gettati i dadi, l'ora che non è mai venuta ancora, che non viene mai, il puro futuro irraggiungibile, l'ora eternamente passata»[11]. Igitur non oltrepassa la soglia del «dunque», la distanza dal sogno non è colmata, i dadi non sono stati gettati.

 

 

Un coup de dés

 



Portare a termine la morte, fare di questa morte un'opera è un'impresa così grande e ardua da rendere ingenua e priva di significato la sua realizzazione. Igitur rinvia l'appuntamento con la morte per non annullare nella banalità di un 'gesto' scontato il senso della scrittura, solo la quale può guarirlo dalla "malattia" della morte: «Se è fatto [il racconto] sono guarito», confida Mallarmé agli amici riferendosi ad Igitur, che per trent'anni lo accompagna con la speranza di realizzare la «grande Opera». Anche Kafka dichiarerà: «Se non mi salvo con un lavoro, sono perduto...Non mi nascondo davanti agli esseri perché voglio vivere in pace, ma perché voglio morire in pace». E Antonius Blok, il cavaliere bergmaniano, protagonista del film "Il settimo sigillo", gioca una partita a scacchi con la morte per guadagnare il tempo necessario alla "guarigione". La sua "malattia" è morire senza avere compensato il vuoto dell'esistenza con un'azione utile, senza la certezza di Dio.

 

- La Morte: «Sono venuta a prenderti, sei pronto?»

- A. Blok: «Il mio spirito lo è, ma il mio corpo no, dammi ancora del tempo [...] voglio sapere fino a che punto saprò resistere e se dando scacco alla morte avrò salva la vita [...] voglio la certezza, voglio che Dio scopra il suo volto nascosto e mi parli. Se non mi risponde io penso che non esiste [...] col tempo che guadagnerò sistemerò una faccenda che mi sta a cuore [...] voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un'azione utile».

 

Antonius Blok non ha alcuna possibilità di dare scacco alla morte, così come Igitur non ha possibilità di gettare i dadi e annullare il caso. Tuttavia, il tempo "prolungato" è il solo rimedio per una morte "contenta", per morire in pace, per "guarire". Ma «per questa morte non v'è guarigione». Piuttosto che cadere nell'ingenuità di un'impresa riuscita, Igitur sceglie «l'eterno tormento di morire», nella convinzione che "un coup de dés jamais n'abolira le hasard". Ed è proprio questa impossibilità di annullare il caso che offre a Igitur un escamotage: fare dell'impotenza un potere, abbandonarsi interamente al caso entrando nella sua intimità, acquistando la padronanza dell'unico colpo, quello infallibile perché giocato sull' «unico Numero che non può essere un altro». È un potere fondato sulla nuova visione dell'Opera che brilla non più in un cielo assoluto ma, come una costellazione assolutamente non-necessaria, in un cielo dimenticato e perduto. Igitur è adesso «le Maître» che, in quanto dispone del potere di morire, non ha bisogno di gettare i dadi perché può lasciarsi morire al di fuori di questo potere ed essere «cadavere che il braccio separa dal segreto che serba» e cioè cadavere che egli  non riconoscerà come suo perché la morte che verrà non sarà la sua morte, quella che egli avrebbe potuto darsi, ma che non ha voluto mettere in opera. E tuttavia, questo rifiuto della morte volontaria, questa possibilità non giocata è la fine di ogni ardimento, il cedimento senile, il naufragio, l'abbandono, l'immersione totale nel caso, «in quella regione in cui niente può essere afferrato» perché «ogni Pensiero trae un Colpo di Dadi»[12]. Ciò che resta è «il castello della purezza»[13], l'essere impenetrabile, l'invalicabile soglia, dove Igitur è l'ombra inquieta di Amleto, «la coscienza [che] ci fa tutti vili, e così [...] imprese di grande altezza e importanza [...] deviano le loro correnti e perdono il nome d'azione». Su questa inazione regna l'atto incessante della scrittura, la "malattia" inguaribile, «l'eterno tormento di morire».

 

 

 

 



[1]Ogni cosa sparisce, si volatilizza nella parola che la nomina e la trasforma in suono o in segno dentro cui aleggia l'anima della cosa: l'idea, il significato di cui la parola vive e respira. In assenza della morte, il linguaggio perderebbe la sua funzione non potendo "esprimere" la cosa immortale, la quale, in quanto inespressa, resterebbe essa stessa priva di senso.

[2]M. Blanchot, Lo spazio letterario, Reprints Einaudi 1975, pag. 9

3 Ivi, pag. 87

4 Ivi, pag.91

 

 

[5]La morte deve essere qualcosa di dato per potervi sparire. Essa non ci è data, non fa parte della nostra vita perché non ne abbiamo esperienza. Essa è ciò che non c'è, non è presente come evento manifesto, per cui è uno spazio assente in cui non possiamo entrare, sparire.

[6]L'opera è presenza e assenza. È presente nel libro, nel quale, tuttavia, è assente perché esso è il suo sostituto. Raggiungere l'opera, realizzarla significa fare di essa una presenza assoluta, pura, la quale è anche pura assenza, puro nulla. Allo stesso modo e per analogia, la morte autentica è presente e assente nella morte "casuale", impersonale. Realizzare la morte autentica significa entrare nel suo spazio, ove essa è pura presenza, pura assenza, puro nulla.

[7]Lo spazio letterario, cit. pag. 93

[8]Mallarmé, Tutte le poesie e prose scelte, Guanda, 1966, pag.279

 La Mezzanotte sta tra la notte e il giorno nuovo. La notte si conclude nella Mezzanotte che diventa il suo sepolcro. E sarà un sepolcro eterno, perché "ciò che è stato sarà". "L'ombra che sopravvive" è l'oscurità che non è piena, perché non ancora, non del tutto affrancata dalla luce.

[9]La debole coscienza di Igitur, che emerge a tratti nel testo, lo pone di fronte al suo doppio: il "personaggio" che sogna la propria morte e nel quale Igitur non si riconosce più. L'io, dunque, interrompe ogni legame tra Igitur e il "suo" cadavere. Viene meno l'identità che si era realizzata nell'ora della Mezzanotte.

[10]Mallarmé, Tutte le poesie e prose scelte, op. cit. pag. 282

[11]M. Blanchot, Lo spazio letterario, op. cit. pag. 97

 

[12]Mallarmé, Tutte le poesie e prose scelte, op. cit. pag. 294

 

[13]Ivi, pag. 286

 

 

 

 

 

Cenni biobibliografici

 

Guglielmo Peralta

Laureato in Pedagogia.

Ha pubblicato sillogi poetiche.

Nel dicembre 2004 ha fondato la rivista monografica “della Soaltà”.

Nel Giugno 2011 è uscito il romanzo H-OMBRE-S, pubblicato da Genesi Editrice. Ha vinto il premio Cesare Pavese 2012 per la saggistica inedita con un saggio sull’Autore. Tra i saggi editi: Realismo e utopia in G.A. Borgese (Quaderni dell’«Ottagono Letterario» 1990); Il personaggio di Vlaika Brentano ne “La baronessa dell'Olivento” di Raffaele Nigro (“Arenaria”, Settembre – Dicembre 1990); Praga vista da Ripellino (“Arenaria”, Maggio - Agosto, 1990); Doleo ergo sum. L'iter poetico di Salvatore Quasimodo da "Nuove poesie" a "La vita non è sogno" (“L’Ottagono Letterario”, ventennale 1983 - 2003); Buzzati. Dintorni e oltre (“della Soaltà”, 2006); "L'infinito" di Leopardi e "La poesia" di Neruda (“della Soaltà”, 2007, “Arenaria”, nuova serie, Gennaio 2007); La poesia della vita e l'abolizione del tempo in Proust (AA. VV. Conversazioni con Proust, LaRecherche.it, 10/07/2011); La cattedrale di Proust (Marcel ed io) (LaRecherche.it 10/07/ 2013). Di prossima pubblicazione il saggio "La via dello stupore nella visione est-etica della soaltà" con la prefazione di Giannino Balbis.

 

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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