MIKA ROTTENBERG
Mostra a cura di Lorenzo Balbi
MAMbo , Bologna
Fino al 19 maggio 2019
IL SOCIALE è SURREALE
Untitled ceiling projection ci accoglie ad apertura di percorso espositivo come entrée d’elezione per l’immersione nel mondo di Mika Rottenberg. Un video wall al soffitto che invita a distendersi e ammirare la frantumazione ripetitiva di lampadine colorate, un effetto caleidoscopio al di qua del vetro (lo spettatore) e al di là (l’artista) che vale il passaggio da una disintegrazione ad una nuova possibile composizione. In questa prima mostra italiana, allestita nella Sala delle Ciminiere del MAMbo, incontriamo oggetti scultorei e installazioni video della più recente e rilevante produzione di questa artista argentina, nata in Israele e ora residente a New York. I mondi da lei evocati sono in bilico costante fra rappresentazione sarcastica e bizzarra interpretazione di quanto i tempi moderni hanno organizzato per l’uomo e le sue vite. Così i lavori di Mika Rottenberg sono popolati da personaggi solo all’apparenza fuori dal comune, uomini e donne impegnati in attività tanto banali quanto ripetitive. È in scena la magia e la disperazione della realtà ipercapitalista, ma sempre attraverso il filtro di uno sguardo disincantato nel suo criticismo. Allora ci troviamo di fronte ad un’arte seria e stimolante, quell’arte che si prende sul serio il tempo necessario per farci riflettere o per importunarci. In Smoky Lips due grandi labbra socchiuse e fumanti invitano l’occhio un cortometraggio da una fessura, tanto che lo spettatore voyeur viene catturato dentro un tempo circolare in cui grasse ballerine piroettano tra tappeti e colonne di un hotel messicano. Luci e messinscene partoriscono energie incontrollabili, in vista di una o più metamorfosi. Maggiormente indagata da Rottenberg è quella relativa al lavoro del corpo che diventa oggetto. Visivamente la narrazione pesca a piene mani sia nell’immaginario cinematografico che negli stilemi della scultura e dell’architettura. Cosmic Generator ci parla di seduzione e disperazione della nostra realtà globalmente connessa. Se prendi il tunnel che parte in Messico non arrivi negli States ma in Cina, dove si aprono scenari in successione di donne lavoratrici sommerse da decorazioni, palloncini, giocattoli. Tutto naturalmente in plastica autentica, quella plastica che naturalmente verrà poi dispersa nell’ambiente e queste donne di ogni età notte e giorno attive al computer o addormentate sullo smartphone sono le vestali dei nostri consumi. Ma luci dai colori innaturali e nastri luccicanti non valgono la vita attuale, ci suggerisce Mika in modo ironico e sconsolato. Questo realismo più reale del re e la mercificazione di ogni atto umano ritorna il NoNoseKnows. Stavolta la videoinstallazione viene preceduta da una scultura ed espone in maniera documentaria la produzione di perle di acqua dolce in Cina. I gesti di raccolta e selezione sono meccanici e ripetitivi fino all’inverosimile, generati da donne che perdono qualsiasi identità nelle loro mansioni. Il tono affabulatorio delle riprese non nasconde mai la polemica amara che l’artista prepara per il suo uditorio. Come dire che per lei l’arte è atto etico oltre che meramente estetico. “History is controlled by great artist – and maybe horrible people”, afferma Mika Rottenberg.
Elisabetta Beneforti
Jean Dubuffet
L’ARTE IN GIOCO
Materia e spirito 1943-1985
Palazzo Magnani, Reggio Emilia
Fino al 3 marzo 2019
“I miei rapporti con il materiale che impiego sono quelli del danzatore e della sua compagna, del cavaliere e del suo cavallo, della veggente ai suoi tarocchi”. Per mano di Jean Dubuffet quale dichiarazione di poetica più appropriata per iniziare un viaggio nella sua opera. Poliedrico, multisensoriale, tattile e introspettivo allo stesso tempo, lungo una vita ha portato avanti straordinarie istanze di ricerca senza i vincoli di scuole e movimenti pur mantenendosi in contatto con la cultura a lui contemporanea. Artista ma anche commerciante di vini, mago e scienziato, intellettuale a tutto tondo, per Dubuffet “L’arte è un gioco – il gioco dello spirito. Il maggior gioco dell’uomo”. Significa che è importante seguire l’inventiva, la libera creatività, insomma - come indicava Ray Bradbury- le febbri e gli entusiasmi piuttosto che orecchiare le fronde avanguardistiche o occhieggiare al mercato. Un cammino artistico il suo che attraversa stagioni differenti, tanto contigue quanto consequenziali nel fare arte e l’allestimento di questa mostra ripercorre puntualmente un pensiero in divenire. Visitiamo le opere degli anni ’40, in cui l’artista francese si fa teorico ante litteram della Graffiti Art, poi quelle degli anni ’50 in cui affiora uno spirito informale con tele materiche e continui rimandi filosofici. Olio su masonite o su tela o su juta contengono narrazioni di strati su strati letteralmente graffiati ed elaborati. Pochi colori vanno ad alternarsi nella raffigurazione di elementi naturali: farfalle, alberi, suoli visti dall’alto. Con Topografies e Texturologies nascono gli assemblages, questi processi artistici di reinventiva e reintegrazione del piccolissimo esistente per creare un campionario della realtà, in cui la tecnica è composta di impronte e china. Gli inizi degli anni ’60 trovano ancora Dubuffet pittore-artigiano-alchimista con il Paris circus , quando si decide per “forme irragionevoli, colori di ingiustificata varietà” che gli servono per cogliere rivelazioni in personaggi ai margini come bambini, folli, malati, artisti. Sarà nel decennio successivo che con il ciclo Hourloupe approda ad agglomerati e arabeschi, segni ora chiari e definiti come campo d’azione di materia e antimateria. Le policromie in blu, rosso e bianco su fondo nero sfiorano derive pop nella loro modulazione fra tele e statue. Sempre negli anni ’70 si dedica al recupero e all’assemblaggio di scarti di opere precedenti, elementi distrutti adesso rinati ad allestire una sorta di teatro della memoria che vale come necessario teatro del pensiero. Sono frammenti ritagliati e incollati, vero cut-up come una nuova via artistica da percorrere. L’ultimo Dubuffet ci regala quadri dai titoli enunciativi : “Espansione dell’essere”, “Luogo poco definito”….. Si rappresenta qui l’incorporeità di un mondo, i fantasmi che noi vi proiettiamo, sintomo di un pensiero che si muove verso luoghi altri. Prendono sempre più campo linee che attraversano la tela senza definirsi mai in segni riconoscibili. Bellissimi tratti basici, linee elementari, smaterializzazioni che davvero ci conducono dove il nostro sguardo-pensiero desidera. “L’opera d’arte non deve avere un significato limitato…ma un gran numero di significati”, tanto vale a riaffermare libertà di creazione e libertà di visione. Completano il percorso della mostra la sezione dedicata a Dubuffet collezionista e quella a Dubuffet musicista.
Nella prima trova collocazione l’ Art Brut, che secondo la sua definizione rappresenta un’arte primitiva e selvaggia totalmente indipendente dai canoni accademici, dall’atteggiamento camaleontico dell’arte ufficiale. Troviamo qui le opere di internati in ospedali psichiatrici svizzeri, visitati da Dubuffet che in seguito esporrà in più occasioni questi lavori. La seconda sezione offre preziosa testimonianza dell’importante rapporto dell’artista con la musica, dalle sonorità jazz che hanno accompagnato la sua produzione alle composizioni sue proprie. “Mécanique musique” interviene visivamente come combinatoria di materiali al pari della combinatoria di strumenti musicali e voce tentata da Dubuffet , per la quale non si è mancato di notare la vicinanza di queste prove ai modelli sperimentativi di John Cage. Nella fattispecie del pensiero poliedrico di Jean l’intento era di restituire “rumori cosmici” , in una ricerca di osmosi graduale fra musica e essere umano. Una musica detta “caosmica” e “fenomenale”. Ancora quel gioco dello spirito con cui conviene a tutt’oggi confrontarsi una volta più.
Elisabetta Beneforti
opere di Jean Dubuffet, foto di E.B.