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DANIELA GENTILE

Fotografia di Luca Nania
Fotografia di Luca Nania

 

Poesie

 

 

 

da Nulla sanno le parole

(Pietre Vive Editore, 2017)

 

 

 

Poco, niente, concede

a noi il tempo, nelle vite degli altri.

Se la parola è un evento

e se solo le azioni, le virtù fanno di noi

qualcosa di simile al ricordo

allora basti scrivere in poesia

le viltà del nostro amore

le gesta eroiche del gatto, in soggiorno

tra le orchidee ancora al sole

il pudore delle comete

la notte in cui ci siamo allontanati.

Le ore in un museo, soltanto,

non sembrano avere avverso destino

e toccare la fine della luce

del tempo con te.

 

 

 

REALIA

 

Il cielo è sempre violento con noi.

Ci illude che le cose possano passare come passano i

colori dall’azzurro al rosso cupo.

Abbiamo resistito a lungo nel non dirci della malinconia

delle domeniche pomeriggio: ci affezioniamo a colori di

copertine, tazze sbeccate, scontrini stropicciati, qualche

matita.

Miopi verso la cura degli argini e dei confini fragili della

comunicazione, speriamo che i bordi del cuore sfumino

in un magenta delle sei, dopo il temporale.

Ma di aria siamo quasi e si fa esperienza, per caso, la

finestra che chiude le nuvole più in là, prima della sera.

Hai paura del buio, tu?

 

 

 

NEUTRO PLURALE

 

Parlavamo poco, lo so, dei colori che avremmo poi scelto

per il pavimento, per il ripostiglio dietro la cucina.

E rimandiamo ancora le finestre, gli spifferi di sempre

coperti dai libri – Proust, mi dici, non ci perdonerà –. Ma

neanche io ormai ti perdono e neanche tu.

La Lamarque mi insegna a restare a un passo dalle cose,

Montale a inseguirle, Seneca a non temerle: te lo scrivo sul frigo,

dove mi capita.

 

 

 

 

SERVABO

 

Lo stoicismo ha chiesto a noi armi troppo potenti contro

il buio: la neve s’è portata via il freddo, la calma e le tue

sciarpe (mettere ordine in casa, appendere i quadri, gettar

via cartacce esige rassegnata ostinazione) e tu chissà

dove sei. Bugie con gli inchiostri, inganni, inadempienze.

Come quando abbiamo abbandonato il corteo perché gli

scioperi pesavano così tanto sulle nostre mancanze e tu

mi hai comprato dei fiori, ricordi?

L’abbiamo persa la nostra rivoluzione, la fiducia che si

possa cambiare, nella vita, qualcosa: ho almeno lasciato

una traccia, io, nel tuo cuore?

 

 

 

LACRIMAE RERUM

 

Lo specchio rivela ogni giorno, nel dettaglio, il

trascorrere del tempo. I capelli crescono e tu non scrivi

più ormai.

Ci muoviamo tra gli oroscopi da anni senza che la luna

percepisca i nostri salti, le nostre ambiguità: potrò

guardarti negli occhi quando la luce avanzerà nel suo

giro? Nous vivons dans l’oubli de nos métamorphoses,

diceva, mentre il tè implorava il miele e io imploravo te

di essere forte, di non aver pietà.

Alcune cose, più di altre, fanno male alla memoria:

 

 

 

                                                                                                    i n e d i t i

 

 

 

 

 

Fabula

 

Ci pensi mai alla gravità dell’autunno che cade nelle

foglie, all’edera che cresce sui muri o alle finestre, come

tempo che ci chiede spazio?

Le stanze dov’è la nostra vita, in tutto somiglianti a chi

siamo diventati, dicono cronache con poca storia:

potranno mai contare nelle tasche, in fondo ai cassetti, le

assenze in un cinema, quel concerto, una sera sul rapido

per Firenze?

Irrinunciabili miti quotidiani sono gli scarti, gli accumuli

immortali al trasloco. Qualcosa che si oppone al vento e

a tutto questo secco rosso sotto i nostri passi;

qualcosa di tuo, nella vita che vedi.

 

 

 

 

Fotosensibili

 

Le lezioni dei tronchi d'ulivo vicini al mare sanno ancora

dirci tanto sullo scorrere del tempo, sui segni che

lasciano i venti, il sale, gli improvvisi freddi.

Se solo fossimo pellicole, in una camera oscura, ancora

in tempo per rendere visibili le rughe e il curvarsi su se

stessi, come prove della resistenza al suolo anche povero,

potremmo forse crescere, contare gli anni senza una

sterile verticalità.

E imparare dai rami, oranti al cielo, a chiedere infinito

aiuto, a farsi bastare l'aria, la luce, gli orizzonti del cuore.

 

 

 

 

Nome astratto

 

I cinque sensi ci ingannano sul significato della

conoscenza: non trovano definizione i capitoli chiusi nei

libri, i sorrisi distratti dentro una fotografia, il cesto di

frutta che si fa presenza di noi in una casa.

Il pensiero non diventa storia, non riesce a diventare

neppure biografia nelle occasioni che sprechiamo

prevedendo altre sere in cui guardarci negli occhi.

E se a poco servono le parole di fronte alle concrete

esistenze che incontriamo, abbiamo veramente ricevuto

qualcosa di cui essere responsabili?

Avere riguardo per le piogge, lasciare che un passo possa

ancora indovinarci nel buio: solo questo possiamo.

 

 

 

 

 

 

Daniela Gentile

Laureata in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sul poeta e traduttore Enzo Mazza dal titolo: Dalle carte di un poeta. L’Appendix Vergiliana tradotta da Enzo Mazza: edizione e note. Suo è anche il contributo L’Eneide di Enzo Mazza: la traduzione di un poeta, in «Annali di Studi Umanistici», Università di Siena, 3, 2015, pp. 9-84. La rivista Pioggia obliqua ha ospitato un intervento a cura di Daniela Gentile e Alessandro Fo per il primo anniversario della morte di Enzo Mazza, il 7 febbraio 2018.

Nulla sanno le parole, Pietrevive editore, 2017 è la sua opera prima.

 

Link al libro:

https://www.pietreviveeditore.it/prodotto/nulla-sanno-le-parole/

 

 

 

 

                  

 

Claudio Pasi

 

 

Epicedi e altre poesie

 

 

 

Dittico  per  Marcella

 

  

I.

 

 

Quando ho detto a mio figlio che eri morta,

ha pianto e poi mi ha domandato: «E adesso

da chi posso imparare a disegnare?»

 

Così è la vita che finisce.

Sregolando per sempre l’equilibrio

tra dare e avere, dietro di sé lascia

una lista di impegni cancellati,

insolvenze d’affetto, inadempiute

promesse, come insegnare a un bambino

a sfumare un tratteggio di matita,

cenare con le amiche, un capodanno

in Provenza, il cambio degli armadi,

la lezione su Ilaria del Carretto.

 

Lui – mio figlio – conserva in uno scrigno

di cartone le tue “cose preziose”:

piccoli doni, souvenir di viaggio,

un astuccio di cuoio, una conchiglia,

un galletto di vetro colorato, 

la serie di monete fuori corso.

 

Noi teniamo sul tavolo da pranzo,

ripiegata, una tua stoffa a frange

blu cobalto che hai preso in Guatemala

e una foto scattata a Ponte Vecchio.

Stai sorridendo. È marzo. Splende il sole.

 

 

 

II.

 

 

L’altro ieri ho creduto di vederti

lungo la strada che conduce a scuola,

il basco di sghimbescio, la cartella

grigia sul portapacchi della bici…

 

È che ci viene ancora naturale

controllare se hai chiuso le finestre

o se hai dimenticato in qualche posto

le chiavi o il cellulare, e di mattina

presto a volte magari ci aspettiamo

che ti affacci al balcone, nella mano

la tazzina bollente del caffè.

 

Ci devi dare un altro po’ di tempo

perché riusciamo a fare l’abitudine

alla tua assenza, ad “accettare il fatto”,

come dicono. Almeno fino a quando

smonteranno i tuoi mobili, verranno

imballati i tuoi quadri, le riviste

e i libri messi negli scatoloni,

ed altri abiteranno la tua casa.

 

Intanto nel giardino la betulla

continua ad ingiallire. Un pettirosso

svola tra i rami e il davanzale. Il fiore

fiammeggiante e stellato dell’acmea

accenderà di nuovo il tuo terrazzo

per tutta la durata dell’autunno.

 

 

 

 

Tombeau

 

 

 

Qui, all’altezza della semicurva

dove la rampa d’accesso si immette

nella strada statale ed una traccia

nera segnala il punto di frenata,

scivolò via la vita di Lorenzo,

di diciassette anni, calciatore

e studente dell’istituto tecnico,

dopo l’urto sbalzato dallo scooter

nel campo rosseggiante di papaveri.

Tu, che transiti lungo il rettifilo,

rallenta e guarda il mazzo di gerbere

da qualcuno posato sul guard-rail

e la sua foto, che la pioggia ha stinto.

 

 

 

 

Natura morta con fruttiera

 

 

per Cinzia, ricordando suo padre

nel secondo anniversario della morte

 

 

 

Finché visse, tuo padre ci portava

ogni autunno la frutta del giardino –

grappoli d’uva bianca e nera come

pasta di vetro, gli acini macchiati

ancora dall’azzurro del solfato,

le pere Kaiser rugginose, quelle

Abate con la buccia ricoperta

da chiazze brune simili ad efelidi,

piccole mele, alcune ticchiolate,                     

e fichi sanguinanti e melagrane

dai semi che sembravano rubini –

che tu mettevi in ordine in un cesto

di vimini, al centro della tavola

o sul mobile lungo di cucina,

e che alla luce fioca che filtrava

dalle fessure delle tapparelle

erano semicerchi ellissi anelli,

forme senza colore, vuote lettere

di un alfabeto ignoto, senza suono.

 

 

 

 

Anniversario

 

 

 

Il 24 giugno, San Giovanni,

quando un tempo accendevano nei campi

fuochi pagani e il sole che iniziava

a declinare lentamente verso

l’autunno si fondeva con la luna

come una fiamma sciolta dentro l’acqua,

andavano nei boschi o nei frutteti

alla ricerca di erbe prodigiose,

iperico fiorito ed artemisia,

e bagnavano gli occhi di rugiada

raccolta a mani nude nella breve

notte di mezza estate, ultima notte

in vita di mio padre.

 

 

 

La porta

 

 

 

Si apre la porta dell’ambulatorio

veterinario. Uno trascina fuori

un carrello con sopra un sacco nero

di plastica legato con il nastro

adesivo, di forma oblunga, inerte,

che oscilla al movimento delle ruote

sul piancito sconnesso. Altri gli vanno

dietro come in corteo, fino al furgone

parcheggiato col bagagliaio aperto.

Afferrano le zampe. Ancora pende

dalla maniglia una museruola.

 

 

 

Un nido        

 

 

 

Lassù, nel folto del fogliame della

betulla, all’improvviso si consuma

una tragedia ignota. Un fruscio d’ali.

Due gazze che si avventano tra i rami

e gracchiando divorano le uova

lasciate incustodite. Cade a terra

la coppa vuota del nido. Frantumi

di guscio sparsi sopra i sassi e l’erba,

come schegge di vetro. Un merlo vola

come folle tra l’albero e la gronda.

Non manda più il suo fischio modulato,

ma uno strido dolente, acuto, inane.

 

 

 

 

Casa di riposo

 

 

 

Gli studenti che tornano da scuola

e si avviano vociando alla fermata

dell’autobus – la soma degli zaini

sembra quasi leggera sulle spalle –

passano a frotte lungo il marciapiede

che costeggia la casa di riposo.

 

È questa l’ora in cui mettono i vecchi

tutti in fila davanti alle vetrate,

sulle sedie a rotelle o su poltrone

di vimini, a osservare dalla verde

penombra delle piante, come pesci

in un acquario, il traffico all’incrocio.

 

Stridono i freni, frusciano le scarpe

di gomma sulle strisce pedonali,

sbucano magri corpi dalle felpe

e dai pigiami azzurri. I loro sguardi

si incontrano distratti, gli uni e gli altri

ignari della vita e della morte.

 

 

 

 

Paesaggio lagunare

 

 

 

Mentre aspettiamo sull’imbarcadero

il vaporetto per la terraferma,

qualcuno indica un punto in mezzo al cielo

offuscato d’agosto, che si muove

basso sull’orizzonte e vola sulla

distesa di metallo incandescente

della laguna all’ora del tramonto.

Viene avanti sfiorando le barene

e i murazzi, le briccole forcute.

Non è un gabbiano né un airone, sembra…

più da vicino sembra quasi… sì,

è un pappagallo della specie ara

ararauna con le ali blu cobalto

e il piumaggio del petto giallo ocra.

Forse sarà fuggito da una gabbia

o da un’altana, rotta con il becco

la catena che lo legava al trespolo.

Si libra sopra noi lanciando un grido

rauco e beffardo, passa tra le cime

nere dei pini e la diga foranea

e poi scompare, verso il mare aperto.

 

 

 

Figure nella pioggia

 

 

 

Uno, nel nido tiepido dell’auto

parcheggiata, mentre ascolta la radio

o sta telefonando oppure parla

(se esiste) al passeggero, vede oltre

il parabrezza appannato qualcuno

che cammina schivando le pozzanghere,

senza ombrello, con un cappello floscio

gocciolante e una giacca impermeabile,

e tiene un cane al guinzaglio, dal manto

bianco avorio e castano, che si ferma

ad annusare gli alberi bagnati

e fruga tra le foglie e raspa in mezzo

alle aiuole autunnali, indifferenti

entrambi allo scrosciare della pioggia

sull’asfalto, obliqua contro i fari

anabbaglianti, e entrati poi nel buio

scompaiono ad un angolo di strada,

sconosciuti al suo sguardo, perché quello

che lui ha intravisto appena sono io.

 

 

 

In bicicletta

 

 

 

Ma forse sono io sono quello che vedi

dalla finestra oppure dalla parte

opposta della strada, che pedala

in sella ad una bici «Umberto Dei»,

nera, freni a bacchetta, di modello

antiquato, però tenuta bene,

le cromature del manubrio appena

arrugginite, e sterza per scansare

una buca o una scheggia di bottiglia

che brilla sull’asfalto, poi prosegue

fendendo con la prora della ruota

il mare crepitante delle foglie

dei bagolari, accumulate lungo

il marciapiede e infine, dove il viale

alberato va verso la stazione,

scomparirà alla vista, come un’ombra

non esisterà più, dopo la curva.

 

 

 

Casa di campagna

 

 

 

Il primo tratto è lungo la ciclabile

che corre sul tracciato della vecchia

ferrovia militare, pedalando

sotto la volta a botte dei sambuchi,

tra le mani protese delle felci,

tra le rose canine e le robinie,

con i rovi che graffiano le gambe,

ma dopo il tunnel d’ombra proseguire

per il percorso delle risorgive,

in un paesaggio di villette a schiera,

di serre e capannoni industriali,

fino a una casa con i muri esterni

macchiati di fuliggine e di pioggia,                             

il camino sporgente, le ringhiere

arrugginite e di fianco una targa

che a stento si può leggere – la casa

di campagna di Giovanni Comisso.

 

 

 

Villa vesuviana

 

 

 

Noi la vedemmo prima del restauro,

molti anni fa, la casa dove Giacomo

Leopardi scrisse La ginestra, quella

Villa Ferrigni poi denominata,

ad uso del turismo letterario,

delle Ginestre, appunto. Allora aveva

un aspetto negletto: sotto il portico

mucchi di laterizi sbriciolati,

sacchi di plastica e siringhe in mezzo

all’erba del giardino, carte sudice,

graffiti e scritte a spray sulle pareti.

Ma lì davanti il mare e all’altro lato

la mole del vulcano. In alto un ago

di meridiana e, a lettere sbiadite,

il breve motto Sine sole sileo.

 

 

 

Istantanea

 

 

 

Seduto qui in giardino. Fiori viola

pallido di lavanda, polverosi.

Piante appena annaffiate. Un merlo salta

da un ramo all’altro, con un filo d’erba

stretto nel becco. O con un insetto.

Scie di aerei si incrociano nel cielo

diradando. Le antenne sopra i tetti

come lische di pesce. Da lontano

il rombo di una moto. Ma anche questo

adesso è già passato, irripetibile.

 

 

 

 

 

I testi seguenti sono già stati pubblicati, alcuni con versione e titolo leggermente diversi:

 - Lettera ritrovata, in La casa che brucia, Book Editore 1993;

- I mûrt, in «Frontiera», n. 6, ottobre 1997;

- La manifestazione aerea del 1° maggio 1968, Prefigurazione di un paesaggio, Passeggiate invernali, Nella fabbrica, Per A., apicoltore dal 1990, in «Caffè Michelangiolo», anno VIII, n. 3, settembre-dicembre 2003.

 

Le altre poesie sono inedite.

 

 

 

               

 

 

Di ragazzi e ragazze

 

 

 

 

Sopra una foto di sconosciuta

 

 

 

Chi è questa che viene qui ritratta

 

al centro dell’inquadratura, in mezzo

 

alle erbe alte di un giardino incolto,

 

pettinatura ad alveare, come

 

detta la moda del momento, e tiene

 

un fastello di rose bianche in grembo?

 

Dietro di lei un albero di acacia,

 

con il tronco gibboso ed una chioma

 

di infiorescenze pendule, fruscianti.

 

Oltre la recinzione, sullo sfondo,

 

si levano cataste di legname

 

(di quella segheria che poi andò a fuoco)

 

simili a torri. Odore di corteccia

 

nell’aria fresca della primavera,

 

mentre ogni cosa appare illuminata

 

dal suo chiaro sorriso di ragazza.

 

 

 

Archivio N. Mimmi
Archivio N. Mimmi

 

 

 

 

La manifestazione aerea del 1° maggio 1968

 

 

 

Dietro le nubi basse, oltre la linea

 

piatta dell’orizzonte è ormai scomparsa

 

la squadriglia acrobatica, lasciando

 

solo la sorda eco dei motori

 

a reazione e geometrie di fumo

 

che dissolvono piano. A un tratto s’apre

 

lo stuolo rosso dei paracadute,

 

emisferi di arance dentro il vaso

 

rovesciato del cielo. Qui, nel giorno

 

festivo, allentate le cravatte

 

sulle camicie bianche di bucato,

 

le notizie che arrivano, di guerre

 

asiatiche o da città in tumulto,

 

sono scene di cinema. I ragazzi,

 

con i calzoni corti, hanno rivolto

 

il naso verso l’alto, ignari ancora

 

della vita futura che li attende

 

e a cui non sfuggiranno. Con lo sguardo

 

intento indovinano le oblique

 

traiettorie degli uomini sospesi

 

a invisibili fili, là nel vuoto.

 

Intanto, sopra il campo d’aviazione

 

improvvisato in mezzo ai girasoli

 

e fra i cardi selvatici, in silenzio

 

come farfalle planano gli alianti.

 

 

 

 

 

 

 

Le vacanze estive del 1969

 

 

 

Insieme fino dal mattino, molti

 

undici-dodicenni del paese

 

passano quell’estate dello sbarco

 

 

 

dell’uomo sulla Luna alla piscina

 

comunale. Battendo con le gambe

 

ossute l’acqua, nuotano da sponda

 

 

 

a sponda alzando nuvole di gocciole

 

dorate. Poi si slanciano dai blocchi

 

di partenza, afferrano scalette,

 

 

 

corrono in equilibrio lungo i bordi

 

scivolosi, nel gioco a inseguimento

 

a cui hanno dato il nome di “storione”,

 

 

 

o a volte si contendono una camera

 

d’aria di camion che galleggia nera

 

e luccicante al centro della vasca.

 

 

 

Hanno gli occhi arrossati per il cloro

 

quando cotti dal sole, infine, e stanchi

 

srotolano sul ruvido cemento

 

 

 

grigio della terrazza una scacchiera

 

di asciugamani colorati e fanno

 

merenda con un pezzo di crescente.

 

 

 

Incuriositi ascoltano i ragazzi

 

più grandi che corteggiano ragazze

 

in bikini fiorati, sorridenti

 

 

 

alle inintelligibili parole.

 

Ma sanno già che verrà presto il tempo

 

per loro di cambiare e che saranno

 

 

 

anche loro persone separate,

 

e proveranno il senso amaro e dolce

 

di qualche cosa che finisce. Intanto 

 

 

 

arrivano nel tardo pomeriggio,

 

quasi all’orario di chiusura, mentre

 

il juke-box suona la canzone Un angelo

 

 

 

blu, i tuffatori. Avanzano uno ad uno

 

spiccando il volo giù dai trampolini

 

flessibili o dalla piattaforma,

 

 

 

come uccelli che rapidi si staccano

 

da un ramo e si disperdono nel cielo.

 

Il più abile di tutti (a lui la sorte

 

 

 

riserverà una vita breve) tende

 

le braccia in alto, punta i piedi, inarca

 

la schiena, avvita il corpo su se stesso

 

 

 

e, in posizione di carpiato, resta

 

per un istante immobile nel vuoto

 

prima di entrare dentro al nulla azzurro.

 

 

 

 

 

Archivio N. Mimmi
Archivio N. Mimmi

 

 

 

 

Prefigurazione di un paesaggio

 

 

 

 In fila indiana, curvi sui pedali,

 

svoltiamo per la strada secondaria

 

che assolata e diritta arriva allo

 

stabilimento idrovoro, tagliando

 

lungo le casse di colmata. Intorno

 

ondeggia la lanugine dei pioppi

 

e s’impiglia alle ruote e ai parafanghi,

 

mentre passiamo l’assito sconnesso

 

del ponte Bailey. Quindi procediamo

 

a piedi dentro la boscaglia, sotto

 

una cupola ombrosa di robinie

 

e di salici, in mezzo alle ceppaie

 

scavate dal lichene, fra un groviglio

 

di valvole di pompe arrugginite

 

e tronchi attorti e tubature come

 

radici emerse dalla terra, fino

 

allo spiazzo da dove una condotta

 

si snoda ad arco oltre il bacino vuoto

 

della chiusa.

 

                    Questo paesaggio immobile,

 

con meraviglia un giorno lo vedremo

 

rappresentato uguale in un dipinto

 

 

(di Paul Cézanne, Le pont de Maincy).

 

 

 

Paul Cézanne, Le pont de Maincy, 1879-80, Museo d’Orsay, Parigi)
Paul Cézanne, Le pont de Maincy, 1879-80, Museo d’Orsay, Parigi)

 

 

 

 

 

Fermata al chiosco dei cocomeri

 

 

 

 Hanno lasciato i loro motorini

 

(Testi, Malanca) in un fossato asciutto

 

lungo la strada provinciale, e adesso

 

stanno seduti sotto la tettoia

 

 

 

di una baracca di assi di recupero

 

e lamiere ondulate. Dentro l’acqua

 

ghiacciata dei mastelli, come boe

 

galleggiano i cocomeri. Bagliori

 

 

 

di zanzare e falene che si incendiano

 

nelle trappole elettriche. I coltelli

 

scavano nella polpa fino al bianco.

 

Mezzelune di scorze, righe nere

 

 

 

di semi sparsi sopra le cerate.

 

Dopo la curva un autocarro accelera.

 

Il rombo sordo del generatore

 

a gasolio. Ancora un’altra estate

 

 

 

che declina. Ma oltre questo slargo

 

di ghiaia e polvere, oltre questo cono

 

di luci al neon, continua il buio. Passa

 

tra le pioppaie un fremito di vento.

 

 

 

 

Passeggiate invernali

 

 

 

 

Sabato pomeriggio, dalle case

 

isolate fra i campi dove oscillano

 

involucri di nidi in cima ai rami

 

spogli dei pioppi oppure dai quartieri

 

residenziali, arrivano nel centro

 

del paese gli adolescenti, avvolti

 

in berretti di lana e lunghe sciarpe,

 

allineando sulle rastrelliere

 

le biciclette. Tutti insieme vanno

 

verso i giardini pubblici, le voci

 

per pudore sommesse, ma le dita

 

s’intrecciano irruenti nelle tasche

 

dei cappotti di loden, suscitate

 

da un batticuore nuovo. Così tu,

 

che porti in questa nebbia di gennaio

 

immagini sognanti di savane

 

e di leopardi scesi dalle alture

 

africane, le tue febbri frequenti,

 

capelli biondo cenere e bottiglie

 

di whisky di tuo padre, adesso entri

 

dentro di me come un racconto vero,

 

con un tremito ancora senza nome.

 

 

 

 

 

Ragazza del 1975

 

 

 

Oggi è un giorno di vento e sole, quelli

 

che preferisci, quando in motorino

 

passi lungo le rogge e gli stradelli

 

della campagna centuriata, fino

 

 

 

al sedile di pietra di un giardino

 

tramutato in rifugio, ai bianchi ombrelli

 

dei sambuchi fioriti lì vicino.

 

Tenendo in equilibrio fra i capelli

 

 

 

e i pensieri gli occhiali scuri, le algebre

 

misteriose dei sogni e degli eventi,

 

il nastro color fucsia ed una nuova

 

 

 

luce che spande piano dalle palpebre,

 

trepidante prepari la tua prova

 

generale alla vita e ai sentimenti.

 

 

 

 

Capodanno 1976

 

 

 

 Faceva così freddo a mezzanotte

 

sulla terrazza del Kurhaus… Ti misi

 

la mia giacca di lana sulle spalle.

 

Fiato fumante dalle nostre labbra

 

alle nostre parole. Gli arabeschi

 

dei fuochi d’artificio. Il tuo vestito,

 

di seta verde, fuori moda. Poi

 

la casa di tua nonna, di cognome

 

Wagner (era una vedova di guerra,

 

il marito caduto in Normandia).

 

«Gut, ganz gut» ripeteva. Nella stanza

 

il cesto delle mele, le candele

 

profumate, le coltri di piumino.

 

Poi tu lasci cadere la coperta.

 

Poi la strada in discesa, il giorno dopo.

 

Lastre di ghiaccio. Il campanile a bulbo

 

e le cupole d’oro della chiesa

 

ortodossa. L’odore della neve,

 

il bar della stazione.

 

                                 Questo è quello

 

che mi ricordo. Come ormai è lontana

 

quella storia d’amore… Addio, addio.

 

 

 

 

Nella fabbrica

 

 

 

 Ogni anno ritornano i ragazzi

 

d’estate a lavorare nella fabbrica

 

sfolgorante di luci, fra le nubi

 

tumide di vapore che sprigionano

 

da ciminiere erte come guglie

 

di cattedrali, galleggianti nella

 

mezz’aria della notte. Nel fragore

 

degli impianti meccanici, tra i grevi

 

effluvi delle polpe, da qui osservano

 

la radice terrosa della bietola

 

mutarsi in bianchi grani diventando,

 

a fasi successive, fluido ambrato,

 

glutine, magma incandescente e poi

 

cristallo. Sopra una rete d’amianto

 

sobbollono le capsule, miscelano

 

soluzioni e reagenti e sui flaconi

 

scritti a mano rivelano le formule

 

di deliri praghesi. E mentre guardano

 

i composti aggrumare lungo il vetro

 

ricurvo dei matracci, nelle beute

 

dove i fanghi decantano, il mercurio,

 

il blu di metilene, il fuoco, i liquidi

 

al punto di viraggio, anche le loro

 

vite stanno cambiando, trascinate

 

da una tenue vertigine, da un flusso

 

appena percettibile nel lento

 

oscuro decremento delle cose.

 

 

 

 

 

 

L’ondata di freddo del gennaio 1985

 

 

                                                                      

La mattina del 13 gennaio si toccò, in una frazione di Molinella,

in provincia di Bologna, quella che sarebbe stata la temperatura

più bassa registrata nella Pianura Padana durante l’inverno 1985: -28,8 °C.

 

(da un bollettino meteo)

 

 

 

 

Anche noi quella volta abbiamo avuto

 

un animo d’inverno, quando il bianco

 

della terra svaniva dentro il bianco

 

 

 

del cielo e l’orizzonte era segnato

 

dalla linea indistinta dei pioppeti

 

incrostati di ghiaccio. Nessun suono

 

 

 

arrivava dal gelo dei canali,

 

nessun male dal turbinio dei fiocchi

 

che vorticava sopra la pianura,

 

 

 

 

ma riflessi di brina, effetto albedo,

 

le fredde infiorescenze del cristallo.

 

Sulla via del ritorno, ormai scomparse

 

 

 

le nostre tracce impresse nella neve,

 

mentre, noi stessi nulla, guardavamo

 

il nulla che era, il nulla che non era.

 

 

 

                                                                        (da Wallace Stevens, The Snow Man)

 

 

 

Fotografia, W. Bondanelli
Fotografia, W. Bondanelli

 

                                                                                               

 

 

 

 

 

Lettera ritrovata

 

          

                      

«Gennaio, i fili della memoria

 

e delle cose…» avevi scritto,

 

perché solo il presente non poteva

 

dire tutto l’incanto della neve,

 

ma il passato senza alcuna forma

 

o il futuro ancora senza forma

 

sono invece il tempo di un paesaggio

 

presunto, di un effetto di luna

 

divenuto astrazione. Io sarei stato

 

dove adesso tu eri. I lampioni

 

arcuati del viale attenderanno

 

il disgelo imminente, alberature

 

di navi sospese alla fonda.

 

                  

  

 

I mûrt

 

 

 

                                                                                                                a GP in memoriam

 

 

T’arcórdat, Pèval, l’û atac ai filèr

 

asvén a la ca vècia, al fói di clur                         

 

ròssi a la fén d’utòbar, ’l mèis ad znèr

 

con l’aqua tròvvda e zlè int i masadùr,

 

 

 

i fûgh impiè a la lunga dal frutèr,

 

al falésstar cmé ucc’ in mèz al bur

 

vgnir só dal cô di èrzan, nó a fumèr

 

lughè dri da la zèda o ad dòpp a un mur,

 

 

 

e pò l’udòur dla pióva in vètta al strè

 

e i dé dla galavérna quand la criv

 

al râm dal fiòpi e la pèr quèsi ’d vlud?

 

 

 

Pr i mûrt al tèimp e i quî a ién tótt vanzè

 

acsé cum’i éran. Par nuètar, i vîv,

 

incósa al se dscanzèla, al dvèinta vud.

 

 

 

 

 

I morti: «Ti ricordi, Paolo, l’uva appesa ai filari / vicino alla casa vecchia, le foglie dei nocciòli / rosse alla fine d’ottobre, il mese di gennaio / con l’acqua torbida e gelata dentro i maceri, // i fuochi accesi lungo il frutteto, / le faville come occhi in mezzo al buio / salire dal fondo degli argini, noi a fumare / nascosti dietro la siepe o addossati ad un muro, // e poi l’odore della pioggia sulle strade / e i giorni della brina quando copre / i rami dei pioppi e sembra quasi di velluto? // Per i morti il tempo e le cose sono rimaste tutte / così com’erano. Per noi, i vivi, / tutto si cancella, diventa vuoto.»

 

 

 

 

 

 

Per A., apicoltore dal 1990

 

 

 

                                                                                               ...casus apibus quoque nostros

 

                                         vita tulit...

 

                                                                 (Virgilio, Georgiche, IV, 251-252)

 

 

 

 

 

Ti ringrazio di avermi regalato

 

questo vaso di miele, granuloso

 

e compatto, che le tue api hanno

 

distillato dal nettare dell’erba

 

medica e del tarassaco, vagando

 

sopra le biolche e i fossi di drenaggio,

 

e che poi tu hai staccato dalle arnie

 

inondate di fumo con la lenta

 

pazienza del dolore, perché dentro

 

è come se vi stessero racchiusi,

 

insieme ai fiori, anche tutti i volti

 

di coloro che apparvero e disparvero

 

qui, nella terra dove siamo nati.

 

 

 

 

 

 

Ultimi giorni di dicembre

 

 

 

A cosa stai pensando mentre guidi

 

adagio la tua macchina leggera

 

che brilla nel paesaggio orizzontale

 

di fine anno, inconsistente, astratto

 

per chi viene dalle città animate

 

dove rapidi sono i mutamenti

 

dello sguardo e disuguali e mobili

 

gli scorci? Questo manto luminoso

 

di brina sembra un nulla che continua

 

un altro nulla, e quando sbagli strada

 

e al telefono ti indico il percorso,

 

sento che sto spiegando la mia mappa

 

privata: un gruppo d’alberi sparuto,

 

un incrocio, la casa cantoniera,

 

il macero che appare oltre la curva.

 

 

 

Forse è un destino lento, che nessuno

 

può scegliere e che assegna le persone

 

ad un unico luogo, inconsapevoli.

 

 

 

 

 

Gli anni

 

 

 

Eheu fugaces… labuntur anni, è stato

 

scritto e io a questo penso quando incontro

 

in un casale di campagna certi

 

vecchi amici. Sotto le chiome delle

 

 

 

acacie insieme celebriamo il rito

 

agreste della carne sulle braci

 

ardenti, i frutti della terra, il pane,

 

il vino che fa rosse le tovaglie

 

 

 

e che tiene lontano le onde stigie.

 

Parliamo tra di noi come se fossimo

 

ancora quelli che eravamo, e intanto

 

fuggono scivolando i nostri anni

 

 

 

e andiamo insieme verso un fiume nero –

 

impiegati di banca, commercianti,

 

artigiani, operai, assicuratori.

 

La notte estiva scende dolcemente,

 

 

 

la ridda di zanzare si dilegua,

 

è più sommesso lo stridio dei grilli,

 

più flebili le voci, mentre guardo

 

in loro e in me la vita che va via.

 

 

(da Orazio, Odi, II, 14)

 

 

 

 

 

 

Claudio Pasi 

Ha pubblicato la plaquette di versi In linea d’ombra (1982) e la raccolta La casa che brucia (1993). Altre poesie sono successivamente apparse su varie riviste cartacee e online tra cui, di recente, «Poeti e Poesia», «Soglie», «Pioggia obliqua», «Samgha».  Ha collaborato a «Poesia», a «Testo a fronte» e ad altre riviste con traduzioni da poeti antichi e moderni. È da poco uscita una traduzione inglese di alcuni testi editi e inediti intitolata Observations / Osservazioni, a cura di Marco Sonzogni e Tim Smith, Wellington, Seraph Press, 2016.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 pioggiaobliquascritturedarte@gmail.com

 

 


 

" Pioggia Obliqua una rivista

affermata e prestigiosa."

 " Un grazie di cuore a 

Pioggia Obliqua i cui molti meriti nei riguardi della poesia non saranno mai abbastanza sottolineati."

 

Alessandro Fo

 

 

" Saprà o vorrà ancora la forza accumulata (...) resistere alla forza di omologazione che la tecnologia sembra inevitabilmente portare in seno?(...) Prevedo un lungo periodo di 'agonie', voglio dire di lotta (...) sarà probabilmente quella la forma e la sostanza del poetare che ci aspetta."

 

Mario Luzi

Da un suo scritto per Pioggia Obliqua a proposito

del  'senso di fare  poesia', gennaio 1996

 

 

" Io credo che un pò di silenzio ci faccia bene, c’è un coro di voci “troppo alto”, sgraziato, che ci sommerge, e non mi riferisco solo alla letteratura. In questa specie di “frullato” che siamo costretti ad ascoltare quotidianamente, il valore delle cose si perde.

 

Se c’è un attimo di riflessione, di

silenzio, la parola scritta o detta assume maggiore rigore."

 

 

Antonio Tabucchi

 

Intervista rilasciata a Luigi Oldani e

Elisabetta Beneforti per Pioggia Obliqua 

 

 


" Il sito Pioggia Obliqua mi ha "donato questa nota sul mio libro (...), ma l'intero sito è da seguire."

 " (...) e un ringraziamento per tutto ciò che P.O. fa per il mondo della poesia."

 " (..) E la stima è da me ricambiata verso il vostro prezioso sito!"

 (...) sempre attenti e preziosi gli amici di "Pioggia Obliqua".

 

Bruno Galluccio

 

 

" Un bel luogo d'incontro tra scritture."

 

Matteo Pelliti

 

 


" Non so dire se la bellezza salverà il mondo, come pensava Dostoevskij, ma mi piace pensare che sarà così. In fondo, già Stendahl sosteneva che "la bellezza non è che una promessa di felicità". 

 

Vittoria Franco

per Pioggia Obliqua

 

 

" Agli amici tanto tanto amati di Pioggia Obliqua, poeti invincibili della vita, il mio abbraccio umile e il mio ringraziamento, per mantenere la poesia come unica veritá nel mondo."

 

Daniel Fermani Gonzales

 

 

 

 

" Rivista preziosa, che seguo da tempo."

 

Alfredo Rienzi

 

                 

 

 

 

                    

 

 

                  

 

                       Consigli di lettura

 

 

    

 Nella omonima rivista cartacea 'Pioggia obliqua rivista di letteratura e culture', pubblicata negli anni Novanta, una intervista a
Antonio Tabucchi,
Edoardo Sanguineti,
Mario Luzi. 
Un testo di Valerio Magrelli. 
Mario Luzi, Luigi Baldacci, Patrizia Valduga, Attilio Lolini, Gabriel Cacho Millet, Marco Marchi e Loriano Gonfiantini rispondono
sul senso di fare poesia in quegli anni.
Risposte attualissime.

 

 

 

 

 

 

 

 


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